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Recensione a Libia 2011 di Paolo Sensini

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Il saggio di Paolo Sensini Libia 2011(Milano 2011) rappresenta un’opera fondamentale per chi volesse ripercorrere le vicende belliche che hanno insanguinato l’altra sponda del Mediterraneo nell’anno in corso. L’opera è divisa in due parti: la prima è dedicata ad un secolo di storia libica, chiuso fra i due tragici eventi bellici della guerra coloniale del 1911 e dell’intervento ‘umanitario’ del 2011. La seconda, invece, affronta con rigore i fatti bellici dell’anno in corso su più piani: inquadramento della Libia nell’attualità dell’area, l’intervento armato secondo il diritto internazionale, ricostruzione cronologica dei fatti bellici, testimonianza personale dell’autore in visita nei territori del conflitto, etc.Il saggio affronta con grande serietà la problematica oggetto di studio e così facendo smaschera inesorabilmente e sistematicamente il castello di falsità costruite sulla guerra di Libia, partendo dalle grandi menzogne iniziali, che costituirono la legittimazione dell’intervento militare agli occhi dell’opinione pubblica (fosse comuni, 10.000 vittime, bombardamenti sulla folla, etc.) e continuando con le invenzioni mediatiche che hanno dato – a conflitto in corso – nuovo mordente alle preoccupazioni ‘umanitarie’ del pubblico occidentale (stupri di massa catalizzati dall’uso di afrodisiaci, crimini sulla popolazioni attribuiti ai lealisti invece che alla NATO, etc.). E non solo le urla della propaganda hanno tanto influito nel capovolgere la percezione dei fatti, ma anche i suoi silenzi. Quanto si è seriamente trattato sui media occidentali e panarabi degli alti livelli di sviluppo umano e sociale della Libia di Gheddafi (1)? Quanto, invece, dell’alta concentrazione di jihadisti ‘di professione’ fra gli insorti, anche nei quadri alti delle milizie? Quanto, ancora, dei crimini commessi dagli stessi ribelli spesso falsamente attribuiti ai lealisti in altri contesti (2)?A questi riguardi, l’opera di decostruzione del castello mediatico operata da Sensini è tanto radicale quanto rigorosa. L’autore non lascia spazio a mirabolanti dietrologie: le sua denunce sono ampiamente documentate nel testo con fonti autorevoli, il cui ampio spettro per origine geografica e collocazione politico-ideologica sta ad indicare la serietà di una ricerca intellettuale non condizionata da confini materiali o ideologici, questi ultimi ovviamente ben più insidiosi.

Oramai, dopo 20 anni di guerre ‘umanitarie’ e/o ‘securitarie’ dell’era post-bipolare, è possibile individuare con criteri – oseremmo dire – scientifici gli aspetti fondamentali della fenomenologia di simili conflitti sui più svariati piani (preparazione mediatica, stravolgimento e politicizzazione del diritto internazionale, operazioni di soft power ed intelligence preliminari e successive allo scoppio dei conflitti, etc.) e sicuramente un’opera come quella di Sensini rappresenta un tassello fondamentale per avere una visione d’insieme non solo – come accennato – sulla specifica questione libica, ma anche sui meccanismi che accomunano questa tragica avventura bellico-umanitaria alle analoghe precedenti e alle possibili future. Mentre si scrive, ad esempio, foschi segnali giungono dalla Siria, ove non può escludersi un’aggravarsi drastico della crisi e in ogni caso – quali che saranno gli sviluppi futuri – assistiamo al riguardo già da mesi ad un canovaccio politico-mediatico oramai ben noto a chi cerca di guardare oltre l’immagine di facciata dell’ “intervento umanitario”. Il quale, oltretutto, non è più nemmeno chiamato col suo vero nome, noto ed elementare: guerra. Si tratta di un espediente di neolingua orwelliana ricordato dallo stesso autore nel testo e già lucidamente intuito e rappresentato da Carl Schmitt nel secolo scorso.

Per concludere, ci si augura che un saggio come “Libia 2011” venga apprezzato e soprattutto non cada nell’oblio negli anni a venire, come parrebbe essere già avvenuto con la guerra di cui l’opera tratta. Vi è infatti bisogno di questi esempi di onestà intellettuale che fungano anche per il futuro da testimonianza di certi eventi rovinosi e delle menzogne che li hanno legittimati.

Già all’incirca un secolo fa si denunciava che
“Lo storico, il quale in avvenire vorrà ricostruire questo torbido periodo della nostra vita nazionale, dovrà giudicare che la cultura italiana nel primo decennio del secolo XX doveva essere caduta assai in basso, se fu possibile ai grandi giornali quotidiani e a giornalisti, che pur andavano per la maggiore, far credere all’intero paese tutte le grossolane sciocchezze, con cui l’impresa libica è stata giustificata e provocata. Non esistevano, dunque, in Italia studiosi seri e coscienziosi? Che cosa facevano gli insegnanti universitari di geografia, di storia, di letterature classiche, di diritto internazionale, di cose orientali? Credettero anch’essi alle frottole dei giornali? E se non ci credettero, perché lasciarono che il paese fosse ingannato? Oppure considerarono la faccenda come del tutto indifferente per la loro olimpica serenità? La risposta a queste domande non potrà essere molto lusinghiera per la nostra generazione.” (3)
A distanza di cent’anni possiamo affermare che Libia 2011 rappresenterà un piccolo segnale di discontinuità, assieme a poche altre felici eccezioni, per lo storico che un domani “vorrà ricostruire questo torbido periodo della nostra vita nazionale”.
Approfondimenti

Si invita a far riferimento anche all’intervista rilasciata dall’autore per Eurasia: http://www.eurasia-rivista.org/12310/12310/

NOTE
1) Dati e statistiche, diffusi anche dalle Nazioni Unite ed istituzioni ad esse legate, lasciano poco spazio alla contestazione. Vedi – ad esempio – i dati della Banca Mondiale relativi all’Indice di Sviluppo Umano del paese.
2) Si pensi alle immagini di vere fosse comuni, diffuse infine dalla Reuters, che mostrano i cadaveri giustiziati di fedeli a Gheddafi e – per contro – a due emblematici casi di presunte fosse comuni, rivelatesi poi rispettivamente loculi di cimitero e cumuli di ossa animali. Senza contare i casi in cui su fosse comuni inizialmente attribuite ad azioni criminose dei lealisti, sono poi maturati forti sospetti sulla matrice ‘ribelle’ delle stesse; vedi – ad esempio – le perplessità dell’inviato di guerra Gian Micalessin.
3) Gaetano Salvemini e altri, “Come siamo andati in Libia” La Voce, Firenze 1914.

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In Marocco il nuovo Premier è un Fratello Musulmano

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Traduzione di Nijmi Edres

Sebbene la cosa non abbia mai fatto molto scalpore, in Marocco, 35 milioni di abitanti di cui uno su tre è disoccupato, esiste un sistema elettorale multipartitico dal 1956, anno della Dichiarazione d’indipendenza. Persino gli abitanti del Sahara Occidentale riescono ad assaporare la democrazia di Rabat, anche se qui ha un gusto più amaro.

Con lo scoppio della “primavera araba” e delle proteste organizzate dai giovani del “Movimento 20 febbraio” e dagli islamisti di Al-Adl wa Al-Ihsan, questo “corretto” sistema elettorale si è velocemente trasformato in un’importante arma a disposizione del Re. Mohammad VI ha immediatamente annunciato l’avvio di un processo di riforme costituzionali e ha promesso di rinunciare a parte del proprio potere amministrativo. Dopo il referendum di luglio, che ha registrato un’affluenza del 70% e un (sospetto) 98% di approvazioni, nel mese di settembre è stata ratificata la nuova Costituzione e solo una settimana fa si sono tenute elezioni parlamentari.

In base alla nuova Costituzione, il Re cede parte del proprio potere ad un Primo Ministro. Egli è nominato dal monarca che, secondo gli accordi, ha il dovere di conferire questa carica al leader del partito che, durante le elezioni parlamentari, si è aggiudicato il maggior numero di seggi. A sua volta, il Primo Ministro ha il compito di eleggere alti funzionari, diplomatici e membri del governo, nonché il potere di sciogliere il Parlamento—dopo dovute consultazioni con il Consiglio Reale Ministeriale.

Nelle recenti competizioni elettorali hanno gareggiato 30 partiti politici; tra i favoriti il Partito degli islamici moderati di Giustizia e Sviluppo, la Coalizione per la Democrazia (composta da otto partiti pro-monarchia) e Koutla, nata dall’unione tra Istiqlal, Unione Socialista delle forze popolari e Partito per il Progresso e il Socialismo, e guidata dal Primo Ministro Abbas El-Fassi, già leader di Istiqlal.

La Majlis Al-Nuwab (il Parlamento) è costituito da 395 deputati, 350 dei quali eletti tramite liste partitiche e 90 tramite una lista su base nazionale riservata per i due terzi a donne e per il rimanente terzo a uomini al di sotto dei 40 anni. Il Partito di Giustizia e Sviluppo ha conquistato 107 seggi su 395, facendo sì che il proprio leader, Abdelillah Benkirane, fosse designato Primo Ministro.

Nonostante l’affluenza (del 45%) sia stata superiore a quella delle discutibili elezioni del 2007, numerose sono state le critiche relative al sistema di registrazione, il quale ha determinato l’esclusione dai registri elettorali di un terzo degli aventi diritto al voto. Un significativo 20% delle schede è stato composto da schede nulle, indicanti un forte voto di protesta.

Le analogie tra la situazione marocchina e quella egiziana di transizione alla democrazia sono forti: in entrambi i Paesi, i movimenti giovanili hanno mosso dure critiche in merito alle rispettive elezioni, considerate “specchietti per le allodole”, un espediente che lascerebbe il potere reale (potere di veto in ambito legislativo, nomine governative, controllo del sistema di sicurezza nazionale) nelle mani del Re, nel caso marocchino, e dell’esercito, nel caso egiziano. Molti giovani hanno così optato per il boicottaggio delle elezioni, continuando a chiedere il passaggio del potere nelle mani di un governo civile. A differenza di quanto accaduto in Egitto, in Marocco il Partito islamista Al-Adl Wa Al-Ihsan si è unito alla protesta dei giovani laici boicottando le elezioni.

Questa l’attuale distribuzione dei seggi: Partito di Giustizia e Sviluppo (107), Partito Istiqlal (60), Unione nazionale degli indipendenti (52), Partito di Autenticità e Modernità (47), Unione Socialista delle Forze Popolari (39), Movimento Popolare (32), Unione Costituzionale (23), Partito per il Progresso e il Socialismo (18), Partito Laburista (4), altri partiti (13).

Gira voce che il Partito di Giustizia e Sviluppo, che ha promesso il dimezzamento della povertà e l’innalzamento del 50% dei salari minimi, formerà una coalizione di governo con l’Alleanza nazional-socialista di sinistra Koutla.

 

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Tre nuovi ingressi nel Comitato Scientifico di “Eurasia”: A. Oganesjan, A. Dugin e V. Dergačёv

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L’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) è lieto d’annunciare l’ingresso di tre nuovi studiosi di fama internazionale nel Comitato Scientifico della sua rivista “Eurasia”. Si tratta dei russi A.G. Oganesjan, A.G. Dugin e dell’ucraino V.A. Dergačёv. Tre studiosi che all’interno del loro paese sono considerati tra le maggiori autorità nel campo della geopolitica e delle relazioni internazionali. Presentiamo qui un breve profilo di ciascuno dei nuovi innesti nel Comitato Scientifico di “Eurasia”, che con loro arriva a contare 27 membri, tra autorità della materia italiane e straniere, accademici, militari e diplomatici.

 

Armen Garinkovič Oganesjan (n. 1954, Mosca) è il direttore di “Meždunarodnaja Žizn'” (“Affari Internazionali”), rivista del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa. Il direttore Oganesjan, esperto giornalista premiato con diversi riconoscimenti nazionali, è membro del Consiglio sulla Politica estera e la Difesa (organizzazione indipendente che opera a stretto contatto con gli organi parlamentari e governativi in funzione di consulente tecnico).

 

Aleksandr Gelievič Dugin (n. 1962, Mosca) è professore presso la Facoltà di Sociologia dell’Università Statale “M.V. Lomonosov” di Mosca, dove dirige il Centro per gli Studi sul Conservatorismo ed è responsabile del Dipartimento di Sociologia delle relazioni internazionali. Filosofo, si è però dedicato anche allo studio della geopolitica, realizzandone un manuale di ampia diffusione e servendo per anni da consulente della Presidenza della Duma di Stato della Federazione Russa.

 

Vladimir Aleksandrovič Dergačёv (n. 1945, Transbaikalia) è fondatore e direttore d’un proprio Istituto di Geopolitica. Durante la sua carriera ha lavorato presso vari istituti, tra cui il Centro per l’Estremo Oriente dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, ed è autore di circa 600 pubblicazioni scientifiche, tra le quali 40 libri, che lo rendono uno dei più prolifici ed importanti autori di geopolitica ucraini.

 

L’IsAG ringrazia il direttore Oganesjan e i professori Dugin e Dergačёv per la fiducia dimostrata, sicuro che la garanzia offerta dai loro prestigiosi nomi e dal loro prezioso ausilio renderà ancora più autorevole la rivista “Eurasia”.
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Qatar: quanto potere in una striscia di sabbia?

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 La piccola penisola conta poco più di un milione e seicentomila abitanti, tre quarti dei quali sono lavoratori espatriati. Possiede una riserva di petrolio di 25 miliardi di barili e la terza riserva mondiale di gas naturale, dopo Russia e Iran. I proventi del settore degli idrocarburi producono un risultato, in termini di PIL procapite, impressionante.

Il Qatar è ora anche uno dei primi esportatori di gas naturale liquefatto (GNL). Nell’ultimo decennio, la crescita della domanda per questa nuova risorsa ha reso il Qatar uno dei paesi più ricchi al mondo in termini di Pil pro-capite, che il FMI stima a 76.160 dollari nel 2010- un dato che si pensa possa crescere nei prossimi anni. Questo ha permesso all’emirato di offrire ai propri cittadini uno standard di vita invidiabile, senza doversi quindi preoccupare di un intralcio come la democrazia deliberativa.

 Eppure il Qatar sembra avere un approccio diverso verso le rivolte popolari che hanno preso piede nei paesi vicini. Quando le forze di sicurezza iraniane furono condannate a livello internazionale per gli attacchi ai manifestanti dopo le elezioni contestate del 2009, il primo ministro qatariota affermò che “si trattava di una questione interna” e che “dobbiamo rispettare il diritto di ogni stato di risolvere i propri problemi”. A marzo, mentre in Bahrein si reprimevano violentemente le proteste dei manifestanti di Manama, il Qatar diede il proprio supporto all’intervento militare guidato dall’Arabia Saudita per difendere il regime.

Allo stesso tempo, nonostante il Qatar ospiti il principale quartier generale del Comando centrale militare Usa (Centcom) e sia stato la principale base di attacco contro l’Iraq nel 2003, ha anche dato supporto ad Hamas e ad altri gruppi militanti. E ancora, il Qatar avrebbe già accordato agli Usa il permesso di usare la base presente sul suo territorio per bombardare l’Iran, secondo quanto rilasciato da WikiLeaks, a patto ché gli Usa garantiscano che le operazioni nel giacimento di gas di South Pars, di proprietà del Qatar e dell’Iran, non vengano minacciate.

 Mentre il vicino Bahrein veniva investito dalle proteste, gli Emirati Arabi Uniti arrestavano attivisti in cerca di riforme liberali e la provincia orientale dell’Arabia Saudita era teatro delle più grandi proteste degli ultimi 30 anni, l’emiro Sheikh Hamad continua a godere di un’insolita popolarità. L’unica volta nei tempi recenti in cui i cittadini del Qatar siano scesi in piazza è stato quando il paese ha inaspettatamente vinto la richiesta presentata per ospitare i mondiali di calcio del 2022.

 Quando Sheikh Hamad giunse al potere nel 1995 dopo aver deposto suo padre, Sheikh Khalifa bin Hamad al-Thani, il Qatar era una tipica piccola monarchia del Golfo. Era difficilmente conosciuta all’estero e nonostante Sheikh Khalifa avesse creato un generoso welfare state durante il boom petrolifero degli anni 70, la maggior parte della sua ricchezza rimaneva concentrata al vertice. Era una delle monarchie più conservatrici, strettamente influenzata dalla vicina Arabia Saudita.

A dispetto di questo retroterra, l’arrivo al potere di Sheikh Hamad divenne un’opportunità per il paese di ridefinire se stesso. Nel 1996 venne fondata Al Jazeera, che presto divenne il maggiore canale televisivo arabo. Lo stesso anno una missione commerciale israeliana arrivò a Doha, evento senza precedenti nel golfo, che fu seguito dalla visita dell’allora primo ministro israeliano Shimon Peres. Subito dopo, l’emiro cominciò la costruzione della base militare Usa del valore di un miliardo di dollari.

 Queste scelte erano frutto dei consigli di Sheikh Hamad bin Jassem bin Jaber al-Thani, prima Ministro degli Esteri e dal 2007 primo ministro. L’obiettivo sembra essere stato quello di guadagnare legittimità e autonomia, perseguendo una strategia indipendente dal potente vicino saudita.

In politica interna furono anche annunciate dal ministero dell’informazione, simbolo tradizionale del controllo sulla stampa, una serie di riforme politiche.

Queste includevano la creazione di un consiglio municipale elettivo nella capitale; la redazione di una nuova Costituzione da approvare tramite referendum; e il diritto di votare e di essere elette agli uffici municipali per le donne (nonché quello di guidare). L’Emiro Hamad bin Khalifa al-Thani ha puntato, inoltre, ingenti risorse sull’istruzione, sul dialogo interreligioso e sulla progressiva apertura del paese alle relazioni internazionali.

 Tuttavia molte delle riforme politiche sono rimaste ferme. Le elezioni parlamentari che erano state promesse per il 2005 sono state posticipate indefinitamente. Persiste quindi il sistema di governo tradizionalmente irresponsabile, con tutte le decisioni emanate dall’ufficio dell’emiro.

E le promesse appaiono ora solo un mossa strategica per assicurarsi il supporto internazionale e consolidare il controllo sul frammentato clan al-Thani.

 La lunga mano del Qatar

Considerata la sua straordinaria situazione economica, è difficile comprendere la ragione per cui il Qatar voglia sconvolgere lo status quo nella regione. In Libia si è concluso il dominio di Gheddafi; in Siria Assad è sempre più isolato; in Palestina Hamas ha preso le distanze da Damasco; in Giordania i Fratelli Musulmani aspirano a rientrare nel gioco politico; la Tunisia è diventato il primo grande laboratorio arabo che tenta di conciliare la democrazia con l’Islam. Dietro ognuno di questi scenari si cela il piccolo emirato.

La Siria

Sabato 12 novembre la Lega Araba ha annunciato la sospensione della Siria e ha deciso di emanare ulteriori sanzioni economiche contro il regime di Damasco, soprattutto sotto la spinta di Qatar e Arabia Saudita.

Il Qatar aveva scommesso nell’opera di modernizzazione promossa da Assad, investendo in maniera ingente nell’economia siriana, ma la rivolta scoppiata a marzo ha guastato i rapporti tra i due Paesi. L’atteggiamento del raìs, che da una parte annunciava le riforme e dall’altra continuava a reprimere le proteste, ha portato l’emiro a schierarsi progressivamente con l’opposizione. Lo stesso copione si era già svolto in Libia, dove fu proprio la presa di posizione della Lega, con la successiva richiesta di una “no fly zone”, a costituire la base della missione Nato in Tripolitania e in Cirenaica. Nel caso in cui si dovesse procedere ugualmente in Siria, il Qatar farebbe la propria parte.

La Libia

Doha è stato il primo paese arabo a riconoscere il Consiglio nazionale transitorio di Bengasi.Ha partecipato allo sforzo bellico, ha addestrato militarmente e ha sostenuto economicamente i ribelli. Ha accolto i transfughi del regime, come l’ex ministro degli Esteri, Moussa Koussa. Ha permesso agli insorti di trasmettere dagli schermi di una tv satellitare. Nel momento in cui gli Stati Uniti non possono più permettersi un impegno su larga scala, le tradizionali potenze sunnite sono distratte dai problemi interni, l’Iran deve gestire il dossier nucleare ed è prigioniero di lotte intestine, il Qatar si presenta come l’unico attore in grado di agire con rapidità ed efficacia. L’Egitto è impegnato nella transizione post Mubarak, la gerontocratica classe dirigente dell’Arabia Saudita si sforza di disinnescare qualsiasi ipotesi di rivolta endogena, la Siria è dilaniata dalla guerra civile: in questo contesto il dinamismo del Qatar non fatica ad emergere.

Esiste ora in Libia uno scontro politico sul ruolo assunto dal Qatar nella ricostruzione e nella formazione delle nuove istituzioni. Il primo a scagliarsi contro il governo di Doha è stato l’ex ministro degli Esteri del regime di Muammar Gheddafi e delegato all’Onu, passato subito dalla parte dei ribelli, Abdel Rahman Shalgham. “La Libia non sarà un emirato del Qatar – ha affermato – il Cnt ha accettato dal paese imposizioni che la maggior parte dei libici avrebbe rifiutato”. La polemica è stata ripresa dall’ex premier del Cnt, Mahmoud Jibril.  I due politici laici del Cnt, apparentemente usciti di scena con la nomina di Abdul Raheem al-Keeb a premier, si riferivano in particolare allo sceicco Ali al-Salabi, il leader della corrente islamica del paese, sostenuta proprio dal Qatar che di recente ha deciso di inviare nel paese il giornalista palestinese Waddah Khanfar, ex direttore di Al-Jazeera, per fondare una nuova tv che sia al suo fianco. Le dichiarazioni critiche dei fondatori del Cnt nei confronti del Qatar emergono dopo che al-Salabi ha rivelato di “voler fondare in Libia un partito islamico simile a quello di al-Nahda in Tunisia per andare al governo”. Lo sceicco islamico ha però negato di aver ricevuto armi e soldi da Doha per combattere Muammar Gheddafi. Secondo il giornale ‘al-Quds al-Arabila permanenza di un personaggio come Ali al-Tarhuni nell’esecutivo di Tripoli, in qualità di ministro del petrolio, rende la battaglia degli islamici per la conquista della Libia ancora aperta”.

Al Jazeera

 Quando Sheikh Hamad fondò Al Jazeera nel 1996 la principale innovazione fu quella di offrire una copertura di notizie in Arabo vicina agli standard di indipendenza del modello occidentale. Lo scopo non era quindi “democratizzare”il Medio Oriente.

Il canale iniziò a farsi un nome con la copertura dell’11 settembre e delle vicende di Iraq ed Afghanistan. Le frequenti messe in onda di Osama bin Laden inoltre, sollevarono immediate accuse di anti-americanismo. Ma per gli spettatori nel Medio Oriente, la credibilità di Al Jazeera derivava dall’innegabile capacità di catturare l’umore delle masse.

 In alcuni cablogrammi del 2009 rilasciati da WikiLeaks, l’ambasciata Usa a Doha riportava che le relazioni tra Qatar e Arabia Saudita erano migliorate in seguito a “un tono meno critico nei confronti della famiglia reale saudita da parte di Al Jazeera”.

L’emittente fondata e finanziata dall’emiro è un formidabile strumento di pressione perché può accendere o spegnere i riflettori, a seconda delle convenienze. Dopo 15 anni di Al Jazeera è possibile infatti tracciare molti parallelismi tra il canale e la politica estera del Qatar.

Il crescente coinvolgimento del governo nella gestione del canale sembra confermato dall’annuncio del 20 settembre scorso delle dimissioni del direttore generale del network, il palestinese Wadah Khanfar, sostituito da Sheikh Ahmed bin Jassim bin Mohammed al-Thani, membro della famiglia reale.

Poche settimane prima WikiLeaks aveva rilasciato altri cablogrammi, in cui si dimostra che Khanfar incontrò funzionari statunitensi in diverse occasioni nel decennio passato per ascoltare le loro preoccupazioni circa Al Jazeera. Durante le recenti rivolte, osservatori in Medio Oriente hanno notato che il canale arabo di Al Jazeera non ha dato alcuna copertura delle proteste in Arabia Saudita e solo molto tardi di quelle in Siria, che era inizialmente alleato del Qatar. Soprattutto, ha ignorato del tutto la violenta repressione delle proteste in Bahrein.

 Quale strategia?

L’ambivalenza politica dell’emirato consiste da un lato, nel salvaguardare i legami preferenziali con i partners occidentali (USA in primis), e dall’altro, nell’accreditarsi nei consessi regionali e internazionali come nuovo punto di riferimento per l’area, facendosi portavoce degli orientamenti arabi e musulmani, anche più radicali. Spesso, il Paese del Golfo ha cercato di mediare fra le istanze di rivendicazioni islamiche e le posizioni filo-occidentali dei vicini. A dispetto delle sue ridotte dimensioni, l’emirato si pone quale “ago della bilancia” nelle principali questioni internazionali a cominciare dal conflitto israelo-palestinese, proponendosi come mediatore tra Hamas e il governo di Tel Aviv.

Secondo alcuni, Doha seguirebbe una linea settaria, sostenendo in Siria, ad esempio, l’opposizione sunnita contro l’élite alawita di Assad. A riprova di questa tesi vi sarebbe l’appoggio all’intervento saudita in Bahrein, per reprimere la rivolta degli sciiti. Altri parlano invece di un’agenda islamista che il Qatar vorrebbe imporre a tutto il mondo arabo. Bassma Koudmani, uno dei leader dell’opposizione siriana, crede invece che l’emiro si sia limitato a riempire un vuoto: “Ha occupato uno spazio e un ruolo che era stato lasciato scoperto da altri Paesi”.

L’opportunismo qatariota guiderebbe anche il sostegno fornito ai movimenti islamisti che beneficiano dell’apertura dei sistemi arabi alla competizione politica. “Il Qatar è un Paese privo di ideologia – sostiene Talal Atrissi, analista politico libanese– Doha sa che gli islamisti rappresentano il nuovo potere. Alleandosi con loro, vuole estendere la propria influenza sull’intera area”.

A differenza di Arabia Saudita ed Emirati Arabi, l’emiro mantiene stretti legami con le differenti branche dei Fratelli Musulmani, dalla Libia alla Siria, dall’Egitto alla Giordania. Khaled Meshal, leader in esilio di Hamas, è di casa a Doha, come il popolare islamista egiziano Yusuf Qaradawi. Gli stessi talebani potrebbero aprire una loro rappresentanza nel Golfo.
Sono piuttosto noti i rapporti tra il Qatar e Rachid Ghannouchi, capo carismatico di Ennahda, il partito uscito vincitore dalle recenti elezioni tunisine, anche grazie al sostegno economico dell’emiro. Ma l’apporto più evidente si è avuto in Libia, dove gli islamisti espatriati a Doha hanno giocato un ruolo chiave nella fine di Gheddafi, in primo luogo il predicatore Ali Sallabi e il guerrigliero Abdel Hakim Belhaj, attualmente al vertice del consiglio militare di Tripoli.

È probabile dunque che la prossima generazione di leader arabi non provenga più dall’ambiente militare, ma da quello dell’Islam politico. Doha è già pronta a relazionarsi con questa nuova classe dirigente, soprattutto attraverso la potenza combinata del denaro e dei media. 

Il sostegno agli islamisti però non comporta affatto una rottura del legame con Washington, basato su due fondamenti: il favore statunitense per il golpe pacifico del 1995 e la base aerea di al-Udeid. Né l’emiro disdegna i rapporti con gli sciiti: basti pensare ai fondi elargiti al Libano per la ricostruzione dei villaggi distrutti da Israele nel 2006.

Quindi la politica estera qatarina mira a lasciare il Paese libero dalle tensioni settarie a sfondo religioso o da escalation politiche che caratterizzano l’area e che rischierebbero, invece, di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale vanificando i grandi traguardi raggiunti negli ultimi anni.

Alla fine l’abilità di Sheikh Hamad è stata quella di promuovere il Qatar come una delle più sofisticate e aperte società del Golfo Persico, tuttavia facendo attenzione a conservare il suo sistema socio-politico- e il suo status nel mondo Islamico fra le altre monarchie tradizionali- praticamente intatto. L’attivismo di Doha nella questione libica e bahreinita o, nel recente passato, le azioni di mediazione diplomatica in Palestina, in Libano e in Darfur hanno rappresentato una grande novità politica, garantendo al Qatar un aumento del suo prestigio e del peso politico nei principali forum internazionali.

Il caos in cui versa l’area del Golfo è l’occasione per Doha di assicurarsi un ruolo da protagonista sulla scena regionale e internazionale. In più, il ruolo della tv satellitare Al-Jazeera, vero e proprio strumento di politica estera accanto ai canali ufficiali, ha incrementato il potere del Qatar, estendendone l’influenza oltre i suoi confini. Quello che confermano gli eventi degli ultimi mesi e le azioni del governo di Doha è, quindi, che, pur trovandosi in un contesto complicato come il Medio Oriente, un piccolo emirato può diventare una realtà in continua ascesa, protagonista del panorama internazionale e in grado d’influenzare le dinamiche politico-economiche globali.

* Nerina Schiavo è laureanda in Relazioni Internazionali presso l’Università La Sapienza di Roma

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La sfida dell’India: nascita di una superpotenza?

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Sulla scena geopolitica mondiale sta prendendo corpo un nuovo soggetto, il BRICS, acrostico che indica Brasile, Russia, India, Cina e, da qualche mese, Sudafrica, vale a dire quelle potenze che in questo periodo di crisi economica del mondo occidentale possono invece vantare un trend positivo. Si tratta perciò di capire le basi e le cause di questo fenomeno e in particolare l’India è un Paese di cui neanche troppo se ne parla e poco effettivamente se ne sa. L’associazione Strade d’Europa, grazie al contributo dell’Università degli Studi di Trieste, in collaborazione con l’Istituto di Alti studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie e nell’ambito del ciclo 2011/2012 dei seminari di Eurasia, ha inteso approfondire l’argomento giovedì 1 dicembre organizzando il convegno La sfida dell’India. Nascita di una superpotenza?

L’evento riprendeva il titolo del volume scritto da Vincenzo Mungo, capo servizio Redazione esteri di Radio Rai, e pubblicato dalle Edizioni all’Insegna del Veltro ed è stato proprio l’intervento dell’autore ad aprire l’incontro. Innanzitutto è stato analizzato il percorso compiuto dall’India per conquistare la propria indipendenza, tenendo in considerazione non solo l’impegno profuso da Gandhi, ma analizzando pure il ruolo del Partito del Congresso, originariamente conformatosi alla dialettica politica britannica al fine di ottenere margini di autonomia, mentre furono Tilak e Bose i paladini della lotta per l’indipendenza senza compromessi. Aperture autonomiste, nonostante l’opposizione di Winston Churchill, furono elargite durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre nel corso della Grande Guerra la partecipazione di truppe indiane nei contingenti britannici non aveva portato alle concessioni che erano state promesse. Parallelamente, però, l’amministrazione inglese aveva esercitato il divide et impera per contrapporre la comunità indù a quella islamica, sicchè nel 1947 l’indipendenza venne ottenuta, ma il Pakistan, a maggioranza musulmana, si staccò dal resto del Paese (Partition) ed allontanò dal suo interno la componente indù. Nuova Delhi divenne pertanto la capitale dell’Unione Socialista Indiana, uno Stato federale che, pur nell’ambito di un sistema democratico, rimase fedele al sistema delle caste. Lo Stato imprenditore si fece carico di assorbire nella grande industria e nei servizi pubblici l’enorme massa di manodopera a disposizione e s’impegnò per debellare le zone di miseria e arretratezza specialmente in ambito agricolo, giungendo a garantire una qualità della vita in perenne aumento, costituendo la rete delle relazioni sociali e dei vincoli di casta un ulteriore prezioso ammortizzatore sociale. Il livello delle università e la diffusione di parchi industriali da cui ci si rivolge anche al mercato estero sono altri indicatori dei passi avanti che l’enorme nazione ha compiuto, ma causa l’eccessiva popolazione (siamo ormai attorno al miliardo e cento milioni di indiani) il PIL pro capite continua a rimanere basso.

L’attualità geopolitica è stata invece al centro della relazione del professor Arduino Paniccia, docente di Studi Strategici presso l’ateneo triestino, il quale ha già considerato l’India una superpotenza, che però si trova a dover fronteggiare diverse problematiche, poiché ha scelto di essere una democrazia di tipo occidentale, pur avendo un DNA ben diverso da quello europeo. Nonostante i conflitti scoppiati per la determinazione dei confini con Cina e Pakistan, l’India ha sempre cercato un approccio pacifico alla politica internazionale e d’altro canto ha scelto di dotarsi di un arsenale nucleare in ossequio al principio della deterrenza. Nei legami internazionali Nuova Delhi ha deciso di non aderire né all’ASEAN né all’ASEC ed ha altresì optato per la SCO, riproponendo in quest’ambito il legame con Mosca che risale dai tempi della Guerra Fredda, nonostante l’India avesse costituito il punto di riferimento più importante per il blocco dei Paesi Non Allineati. I rapporti con la Russia si confermano pertanto buoni, quelli con la Cina vanno migliorando, quelli con il Pakistan sono altalenanti, ma per il futuro indiano sarà importante non solo l’atteggiamento che si instaurerà nei confronti degli Stati Uniti, ma anche dell’Unione Europea, con la quale i traffici stanno raggiungendo il livello di quelli che l’Europa già intrattiene con la Cina.

Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, ha approfonditi tali aspetti di natura geopolitica, evidenziando i tentativi indiani di mantenere una linea politica autonoma da quella occidentale, in virtù della propria posizione strategica a metà strada fra gli stretti di Hormuz e di Malacca, gli snodi principali del commercio petrolifero. Perciò Nuova Delhi ha buone relazioni economiche con Israele, ma per il proprio fabbisogno energetico si rivolge senza problemi sia all’Arabia Saudita sia all’Iran (che è un interlocutore privilegiato anche per il contenimento del Pakistan), laddove con la Cina il rapporto oscilla tra competizione e cooperazione, poiché il sostegno di Pechino al Pakistan è in grado di deteriorare la partnership tra i due giganteschi Paesi. Per lo stesso motivo le relazioni con Washington stentano a decollare definitivamente, anche se i rapporti commerciali sono già bene avviati ed i governi indiani non hanno espresso contrarietà alla possibilità che contingenti statunitensi rimangano in Afghanistan anche dopo il 2014. Anche se il problema dell’estremismo islamico è in grado di creare una sinergia con Russia, Cina e Stati Uniti, l’India auspica di risolvere bilateralmente e senza il coinvolgimento di esterni il problema del Kashmir che è alla base delle sue tensioni con Islamabad.

In definitiva tutti i relatori si sono trovati concordi nel dare una risposta affermativa al quesito che caratterizzava il titolo del seminario: l’India è già una superpotenza e continuerà ad esserlo se, nell’ambito del processo di globalizzazione, saprà restare fedele alla propria storia ed alle proprie tradizioni, conservando anche quelle prerogative nel settore economico che vengono ancora esercitate dallo Stato, mentre l’adesione incondizionata ad un modello di economia di mercato rischierebbe di alterare i precari equilibri sociali indiani.

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La crociera dell’Admiral Kuznetsov

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Fonte:   Dedefensa.org Bloc-Notes, 29 novembre 2011

Nota del Traduttore:

A Tartus, contrariamente a quanto dice l’articolo, non vi sono oggi, navi russe. La fregata Ladnij, che appartiene al MGB, ministero degli interni, dopo un breve sosta a Tartus, si reca in Mar Nero, e non a Gibilterra ad incontrare la Kuznetsov, poiché quest’ultima giungerà nelle acque siriane nella Primavera del 2012. Per quanto riguarda la portaerei Bush, essa proveniente dall’Oceano Indiano, ha attraversato il canale di Suez, per andare ad attraccare, il 25 novembre, a Marsiglia, in Francia.

 

Le cose si mettono bene… Un anno fa, si era deciso, proprio per il prossimo periodo di questo inizio dicembre, una visita della portaerei Admiral Kuznetsov, con il suo gruppo di battaglia (due navi di scorta) in Siria, a Tartus, che risulta essere un porto e anche una base per la flotta russa. (L’unico approdo navale della flotta russa nel Mediterraneo.) Lo prova, dicono fonti della marina russa, che altre visite sono previste, oltre a Tartus, a Beirut, Genova, Malta e Cipro. Cosa di più rilassante e più amichevole, come ci dice Russia Today il 28 novembre 2011.

Questa scrive, dobbiamo riconoscere che “le cose si mettono bene“. L’ammiraglio Viktor Kravchenko, che comanda il gruppo di battaglia non lo nega. “Tuttavia, aggiunge che la presenza di una forza militare oltre alla NATO, è molto utile per questa regione, perché impedirà lo scoppio di anni di conflitto armato“, avrebbe detto Kravcenko alle Izvestia.

L’Admiral Kuznetsov, si trascina un po’. Viene dal Mare di Barents, con l’Admiral Chabanenko, un incrociatore pesante anti-sommergibile. Le due navi effettueranno il tour dell’Europa occidentale fino allo stretto di Gibilterra, arriveranno nel Mediterraneo quando saranno raggiunte dalla fregata Ladnij, della Flotta del Mar Nero. Al termine della crociera, dopo lo scalo centrale di Tartus, passeranno il Bosforo. Nessun danno sarà fatto, l’Admiral Kuznetsov è registrato come “incrociatore portaerei lanciamissili” e non “portaerei” o “portaeromobili“, il cui passaggio è vietato dalla Convenzione di Montreux e, in ogni caso, la Turchia non ha certo intenzione di fare la misera con le navi russe. (Vedasi la versione inglese di Wikipedia relativa alla convenzione, molto più esplicita di quella francese.)

Resta che l’Admiral Kuznetsov trasporta otto caccia multiruolo Sukhoi Su-33 estremamente potenti, una significativa dotazione di MiG-29K da intercettazione e combattimento aereo, due elicotteri Kamov Ka-27 e un armamento navale fisso assai pesante (12 missili superficie-superficie anti-nave Granit, due sistemi ASM UDAV-1, un sistema missilistico superficie-aria Kinzhal e otto batterie di cannoni da difesa aerea ravvicinata Kashtan).

Aggiungiamo qualche altro dettaglio politico e strategico, tra cui alcune parole dell’ammiraglio Kravchenko, con una interessante precisione finale, sottolineato in grassetto da noi.

Notizie dello spiegamento navale russo a Tartus giungono poco dopo che la portaerei a propulsione nucleare statunitense USS George HW Bush sia al largo della Siria, insieme a ulteriori navi da guerra. Il Battle Group degli Stati Uniti rimarrà nel Mediterraneo, presumibilmente per condurre operazioni di sicurezza marittima e missioni di supporto nell’ambito delle operazioni Enduring Freedom e New Dawn. La sesta flotta degli Stati Uniti pattuglia la zona, riferisce Interfax. Naturalmente, le forze navali russe nel Mediterraneo non saranno commensurabili a quelle della sesta flotta degli Stati Uniti, che include una o due portaerei e diverse navi scorta“, ha spiegato l’ammiraglio Kravchenko. “Ma oggi, nessuno parla di possibili scontri militari, poiché l’attacco a una nave russa dovrebbe essere considerata come una dichiarazione di guerra, con tutte le conseguenze.”

L'”avventura” del gruppo di combattimento dell’Admiral Kuznetsov, diventa interessante e più complessa rispetto a quanto previsto, poiché il nuovo movimento della portaerei è avvenuta senza fornire ulteriori dettagli. Questa notizia ha causato uno “choc di comunicazione” sufficiente a rendersi conto che ora intorno alla Siria vi è una situazione di potenziale scontro tra due potenze nucleari e non, come è stato finora, un campo lasciato completamente libero alle forze strategiche di supporto al blocco BAO (principalmente navale e degli Stati Uniti, nel caso). Questo situazione, naturalmente, esiste senza che l’Admiral Kuznetsov, e due o tre navi russe siano a Tartus, con forse, o probabilmente, con capacità di ECM (contromisure elettroniche) e dopo, forse o probabilmente, aver consegnato batterie di missili S-300 alla Siria. Queste navi sono una efficace presenza strategica di una potenza nucleare ostile all’intervento del blocco BAO, ma la loro presenza non ha avuto impatto reale nella comunicazione. A causa della immagine di potenza centrale strategica collegata ad una nave da attacco come una portaerei, l’annuncio del viaggio della Admiral Kuznetsov, ha avuto questo impatto nella comunicazione – che è qualcosa di assolutamente essenziale nell’equazione del potere di oggi. L’annuncio, non l’arrivo effettivo, è sufficiente per questo, perché non c’è dubbio che l’Admiral Kuznetsov, gioca un ruolo attivi in ogni eventuale intervento straniero in Siria, in una situazione di confronto con il blocco BAO. Infatti, si tratta di comunicazione, non di una vera e propria disposizione strategica. Le dichiarazioni dell’ammiraglio Kravchenko completano la narrativa della comunicazione, dando tutte le garanzie rassicuranti circa le intenzioni dei russi, ma termina con l’osservazione che se le navi russe (l’Admiral Kuznetsov, ma anche quelle già a Tartus), non sono lì per un confronto armato, resta il fatto che qualsiasi attacco contro una nave russa è un atto di guerra “con tutte le conseguenze” di un atto di guerra; una battuta che ha un senso estremamente pesante da parte di una potenza con un arsenale nucleare, come la Russia.

… In un certo senso, i russi stanno cercando di giocare in vantaggio della Siria, un sostituto del deterrente nucleare che la Siria non ha. Poiché sappiamo che un Paese con armi nucleari è praticamente protetto contro ogni attacco dal blocco BAO, la Russia piazza le navi (quelle di Tartus, in particolare), sia per una missione militare precisa ma passiva, sia (nel caso dell’Admiral Kuznetsov), per una missione che richiede un’alta visibilità che obblighi i pianificatori del blocco BAO a considerare la possibilità di una “gaffe” che coinvolgesse una nave russa, e che costituirebbe un “atto di guerra” contro una potenza nucleare. Le opportunità di azioni antiaeree passive delle navi (capacità di interferenze elettroniche) e la fornitura ai Siriani di S-300 completerà il dispositivo. L’intervento passivo o indiretto dei russi è un dato operativo complesso per le forze del blocco BAO (la paura degli USA per gli S-300 è proverbiale), pur mantenendo i russi stessi pericolosi fuori dal cerchio di provocazione diretta.

Pertanto, si capisce che l’Admiral Kuznetsov non si affretta oltre misura. L’effetto della comunicazione che, speriamo, sia un efficace deterrente sul posto, intorno alla Siria, con l’annuncio del viaggio del gruppo di battaglia; l’interesse politico dei russi (sempre per la comunicazione) è piuttosto quello di prolungare il tempo di questo viaggio, e di mettere in prospettiva i termini di una “crociera” pacifica, per non drammatizzare la situazione e portare avanti un’azione politica contro qualsiasi intervento straniero in Siria. (L’ultima in corso è una proposta di mediazione nella crisi siriana, accettato dai siriani.) I russi sperano di bloccare temporaneamente la situazione militare, per contrastare ogni velleità d’intervento. Il tempo ci dirà se il blocco è sufficiente – cosa che non è garantita – ma in ogni caso la manovra, un misto di forze effettive, azione politica misurata e soprattutto comunicazione, è stata condotta brillantemente ed efficientemente. (E lo è stata, precisione non priva d’interesse, con l’implicita approvazione del BRICS, che ha firmato una dichiarazione che chiede d’impedire qualsiasi intervento militare straniero in Siria.)

In modo generale e piuttosto economico, i russi hanno dimostrato che il blocco BAO non ha più la garanzia di intervenire dove vuole, secondo la strategia di BHL ora seguita senza gravi interferenze e senza, in alcuni casi, correre un rischio che potrebbe essere legato al confronto di una situazione che si potrebbe definire come una sorta di tecnica della “deterrenza nucleare itinerante.” (La cosa ha più o meno funzionato, di fatto, parzialmente in vari conflitti secondari durante la Guerra Fredda. Fu la presenza russa -Sovietica al tempo- che ha limitato gli attacchi degli Stati Uniti sul Vietnam del Nord, compresa l’istituzione di aree off-limits per gli attacco aerei statunitensi nel 1965-1968 contro il porto di Haiphong (assieme alla capitale Hanoi), dove passava la maggior parte del massiccio aiuto militare sovietico al Vietnam del Nord, per paura di toccare l’una o l’altra nave sovietica lì ancorata, a scaricare le loro attrezzature, causando una grave crisi con l’URSS. Queste limitazioni erano, secondo i militari statunitensi, e perché Haiphong svolgeva un ruolo centrale nell’equipaggiamento per la guerra in Vietnam del Nord, la causa principale del fallimento dell’offensiva aerea strategica del 1965-1968, e del fallimento totale degli USA nella guerra del Vietnam).

Compiuta la sua missione di comunicazione e, eventualmente, “deterrenza nucleare itinerante“, l’Admiral Kuznetsov, può effettivamente prendere tempo e navigare lungo le coste dell’Europa. Serve anche a ricordare agli europei, che il loro partner russo è anche una potenza militare, che può svolgere un ruolo nel caos globale sviluppato dal blocco BAO. I russi lo ricordano ai tedeschi, che hanno una cooperazione economica con la Russia, e i francesi, che hanno dato tanta importanza, compresa importanza strategica, alla vendita della portaelicotteri Mistral alla Russia. Siamo così condotti a concludere che si potrebbe vedere, un giorno, l’Admiral Kuznetsov, insieme una portaelicotteri Mistral, stazionare di fronte a un paese dove il maresciallo BHL richiederebbe un intervento delle forze franco-sarkozyste. La cosa non mancherebbe di sale marino.

 

[Traduzione di Alessandro Lattanzio http://aurorasito.wordpress.com]

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Il ruolo dell’India in Asia

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Quello che segue è il testo dell’intervento di Francesco Brunello Zanitti, ricercatore presso l’IsAG, alla conferenza “La sfida dell’India. Nascita di una superpotenza?”, svoltasi a Trieste il 1° dicembre scorso presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università degli Studi di Trieste. L’evento è stato organizzato da Lorenzo Salimbeni e dall’associazione culturale “Strade d’Europa” in collaborazione con l’IsAG e il contributo dell’Università degli Studi di Trieste.

In questo mio intervento intendo presentare un particolare aspetto contemporaneo dell’India, ovvero il suo ruolo geopolitico in Asia, connesso alle relazioni del paese con la Cina e la Russia, nonché con alcuni attori regionali, come l’Iran e il Pakistan; verranno presi in considerazione anche l’approccio indiano nei confronti della questione afghana e alcuni elementi delle relazioni indo-statunitensi, visti gli interessi contemporanei di Washington in Asia Meridionale.

L’India sta indubbiamente attraversando una crescita economica considerevole, ma gli ultimi mesi hanno registrato un rallentamento degli ottimi risultati economici. Pechino si trova in una fase di crescita molto più consolidata rispetto a quella di Nuova Delhi; nonostante ciò anche l’India sta aumentando il proprio peso economico e geopolitico a livello globale. È dunque giusto porsi degli interrogativi sul sorgere della superpotenza indiana poiché esistono diverse questioni aperte, contraddizioni, ostacoli e paradossi che potrebbero influenzare in diversa maniera la crescita del paese asiatico. A questo proposito ritengo che le sfide che l’India dovrà affrontare saranno principalmente tre: il primo elemento riguarda, come ricordato nel libro di Mungo, la sfida posta dalla globalizzazione economica di stampo occidentale, se l’India riuscirà a mantenere la sua specifica cultura o sarà contraddistinta da quel livellamento culturale già evidente in altre aree del globo; il secondo aspetto concerne la geopolitica e le relazioni internazionali: saprà l’India mantenere una politica estera sostanzialmente autonoma? La terza problematica è rappresentata dagli ostacoli interni di tipo economico, sociale e politico. Se l’India riuscirà nei prossimi anni ad affrontare efficacemente queste sfide ritengo che potrà effettivamente diventare una superpotenza.

Grazie alla sua posizione geografica, l’India svolge un importante ruolo dal punto di vista geostrategico perché la massa terrestre del Subcontinente, estendendosi nell’Oceano Indiano, si trova a metà strada tra due importanti stretti dal punto di vista economico, geopolitico e militare, ovvero quello di Hormuz e quello di Malacca. Gli interessi geopolitici a livello marittimo di Nuova Delhi spaziano, infatti, dal Golfo di Aden, tra Yemen e Somalia, al Mar Cinese Meridionale. Allo stesso tempo, a livello terrestre l’India intende aumentare la propria influenza in Vicino Oriente, Asia Centrale, Estremo Oriente e sud-est asiatico.

Grazie a questa particolare posizione geografica e alle diverse componenti etniche e religiose che la contraddistinguono, l’India sta cercando di mantenere una politica sostanzialmente bilanciata tra diversi poteri.

L’importante ruolo geostrategico dell’India è naturalmente ben compreso da Washington, Mosca e Pechino, i maggiori attori che competono in Asia Centrale e nell’Asia-Pacifico.

Per quanto riguarda la Cina, le azioni degli ultimi vent’anni e l’ascesa dell’India a livello economico e militare sono sovente percepite come una minaccia, soprattutto per quanto riguarda l’attenzione indiana posta nei confronti del Mar Cinese Meridionale e i discorsi aperti su potenziali accordi militari tra India, Vietnam e Giappone. Allo stesso modo i possibili legami militari ed economici tra India, Australia, Stati Uniti, Giappone e Singapore sono osservati a Pechino come azioni di contenimento verso la Cina. In ogni caso, il contemporaneo emergere della Cina come potenza con interessi nei confronti dell’Oceano Indiano, trasformandosi in attore egemone della zona meridionale del continente e non solo dell’area Asia-Pacifico, è valutato negativamente anche da Nuova Delhi: a questo proposito gli accordi commerciali e militari di Pechino con Bangladesh, Sri Lanka, Nepal, Myanmar, Bhutan e soprattutto l’alleanza militare e nucleare con il Pakistan, sono descritti anch’essi come tentativi d’accerchiamento della Cina nei confronti dell’India.

In realtà, la rivalità indo-cinese è molto spesso enfatizzata, come sostenuto dallo stesso primo ministro indiano Manmohan Singh, dai media, sia indiani sia cinesi. Nonostante permangano importanti contrasti, ad esempio per quanto riguarda il lungo confine, i rapporti economici tra i due paesi sono molto solidi e la Cina è uno dei più importanti partner commerciali dell’India, seconda solamente agli Stati Uniti. Inoltre, Pechino ha mutato la propria percezione dell’India per l’aumentata presenza statunitense in Asia Centrale e Meridionale e la grande ascesa economica di Nuova Delhi che non viene certamente sottovalutata, ma potenzialmente utilizzata per i propri interessi in Asia. Esiste quella che è stata definita un’alleanza economica di tipo pragmatico. Allo stesso tempo è da registrare una cooperazione importante in alcune zone del sud-est asiatico, come i potenziali progetti congiunti per lo sfruttamento del gas naturale in Myanmar. Vi è, inoltre, la comune appartenenza al forum dei BRICS, con la medesima percezione, assieme a Brasile, Russia e Sudafrica, di alcune questioni di carattere globale: le rivolte arabe, la visione critica nei confronti dell’intervento NATO in Libia e verso l’ipotetica azione militare occidentale in Siria, l’approccio alla questione del nucleare iraniano. Nello stesso tempo però permane una forte competizione in Asia Meridionale e nel sud-est asiatico, in misura minore in Africa e Asia Centrale a causa della ritardata penetrazione indiana in queste aree rispetto alla Cina. E’ evidente che una reale pacificazione nei rapporti tra Cina e India, le cui civiltà ebbero per buona parte della loro storia buone relazioni, genererebbe conseguenze positive per la stabilità asiatica, ma anche per quella mondiale, vista la crescente importanza a livello globale dei due paesi.

Un elemento, nell’ottica cinese, ma anche russa, che porta a considerare negativamente l’India è il rapporto che il paese asiatico ha instaurato con Washington, un’alleanza di tipo militare e nucleare.

In ogni caso, in India esistono diverse scuole di pensiero che hanno un’opinione critica a riguardo di una stretta alleanza con gli Stati Uniti.

Queste considerazioni ci portano dunque a considerare alcuni limiti dei rapporti indo-statunitensi.

1) Un primo aspetto riguarda l’Iran. Nonostante l’India abbia solidi rapporti con Israele dalla fine della Guerra Fredda, soprattutto dal punto di vista militare, e con il mondo arabo sunnita in competizione con l’Iran nel Vicino Oriente, Nuova Delhi ha come obiettivo il mantenimento di un positivo rapporto con Tehran. L’India è comunque contraria alla prospettiva del nucleare iraniano, risolvibile in ogni caso solamente mediante via diplomatica, e ha interrotto alcune esportazioni di materiale che potrebbe essere utilizzato per il programma nucleare, seguendo le direttive della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1929 del 2010. Il mantenimento di un proficuo rapporto con Tehran è dovuto a motivi di carattere geopolitico ed economico. A livello strategico un’alleanza indo-iraniana potrebbe essere una forma di contenimento verso il Pakistan. Inoltre, nell’ottica indiana, avere due Stati nemici ad ovest, il Pakistan e l’Iran, ma potenzialmente anche l’Afghanistan dopo il 2014, nel caso in cui Kabul ricada sotto l’influenza pakistana, appare una prospettiva controproducente per sviluppare gli interessi geostrategici futuri del paese in Asia Occidentale e Centrale. L’attenzione dell’India sull’area è fondamentale, non solo per la grande presenza di idrocarburi che soddisferebbe la crescente domanda energetica, ma anche per evitare che le repubbliche ex-sovietiche stringano un legame più forte con il Pakistan, considerata la comune religione islamica. Inoltre, la presenza della Cina nell’area è andata sempre più consolidandosi nel tempo. In ottica indiana, Tehran rappresenta un importante territorio di transito per raggiungere l’Afghanistan e l’Asia Centrale: esistono, infatti, gli ostacoli rappresentati dal Pakistan e dal territorio politicamente instabile del Kashmir, naturali e storici punti di passaggio indiano per commerciare con l’Asia Occidentale e Centrale. A livello economico l’Iran rimane, dopo l’Arabia Saudita, il secondo fornitore di petrolio dell’India e il suo territorio rappresenta una potenziale fonte di gas naturale per Nuova Delhi. Esistono a questo proposito diversi discorsi aperti per eventuali collegamenti via mare o via gasdotto.

2. I legami economici tra Nuova Delhi e Tehran ci portano a considerare un altro aspetto che limita i rapporti indo-statunitensi, facendo riferimento al legame molto stretto che esiste tra India e Russia. La scorsa settimana, a margine di un incontro tra i ministri degli esteri indiano e russo, Mosca e Nuova Delhi hanno sostenuto la volontà di ridar vita al progetto del Corridoio di trasporto Nord-Sud, accordo commerciale firmato nel 2001 tra Iran, India e Russia. Si tratta di un progetto per lo spostamento di merci indiane via mare, aggirando il Pakistan, dall’India fino all’Iran, da dove, attraverso il Mar Caspio, dovrebbero raggiungere i territori meridionali della Russia ed eventualmente l’Europa. Recentemente il governo indiano avrebbe manifestato l’interesse d’includere nel discorso anche la Cina e potenzialmente gli Stati ex-sovietici dell’Asia Centrale. Questo progetto per il commercio tra Asia Meridionale e Europa è in aperta competizione con l’architettura geostrategica a guida statunitense della “Nuova Via della Seta” che ha come obiettivo l’interdipendenza economica tra Europa, Caucaso, Asia Centrale e Meridionale in competizione con Cina e Russia. In questo caso le maggiori problematiche riguardano l’Iran e l’instabilità dell’Afpak, ma bisognerà anche attendere quale progetto l’India favorirà, visto che al momento sembra interessata ad entrambi.

La Russia rimane il principale fornitore di armi dell’India; i legami indo-russi sono molto solidi, eredi di quelli che il paese asiatico manteneva con l’Unione Sovietica. Inoltre, esiste la comune lotta contro l’estremismo di stampo musulmano che ha colpito nel passato sia la Russia sia l’India, se si pensa al Caucaso e al Kashmir. Questa politica vede unite non solo Russia e India, ma potenzialmente anche la Cina, vista la presenza dell’estremismo di matrice islamica nello Xinjiang. A questo proposito l’effettiva presenza dell’India all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (OCS) potrebbe comportare non solo una maggiore collaborazione tra Pechino, Mosca e Nuova Delhi, ma anche modificare decisamente gli equilibri geopolitici.

3. Un terzo aspetto nel quale Stati Uniti e India non sono sovente concordi riguarda il Pakistan. L’India ha sempre criticato l’eccessivo legame tra Islamabad e Washington, nonostante negli ultimi mesi l’alleanza tra i due paesi sia sempre più in crisi. L’India ha inoltre una visione molto critica nel considerare il possibile dialogo con i talebani moderati e la rete Haqqani, nonostante nello stesso tempo gli Stati Uniti chiedano al Pakistan di porre termine all’appoggio verso i gruppi terroristi lungo la linea Durand. Il problema è collegato alla sindrome d’accerchiamento pakistana e alle preoccupazioni nei confronti dei disegni egemonici dell’India nella regione. Nuova Delhi giudica positivamente la presenza statunitense con basi militari in Afghanistan, eventualmente anche dopo il 2014, ma è critica verso il possibile dialogo con i talebani moderati, paventando un possibile ritorno dell’influenza pakistana sul paese.

Nonostante il fatto che Islamabad veda il recente accordo commerciale e militare tra India e Afghanistan come una sorta di pericoloso accerchiamento, negli ultimi mesi si è registrato un timido miglioramento nei rapporti tra i due vicini rispetto al 2008. Un editoriale del “The Hindu” di pochi giorni fa, parlando a proposito del dialogo indo-pakistano, indicava come modello di riferimento da seguire le recenti relazioni tra India e Cina, dove sono state messe in secondo piano le questioni territoriali per favorire in primo luogo un discorso legato alla cooperazione economica, possibile chiave per risolvere i problemi legati al confine. Ci sono importanti settori della società indiana che chiedono una soluzione dei contenziosi con Islamabad e una definitiva pacificazione. In ogni caso sembra che l’India intenda mantenere una politica autonoma da Washington nei confronti del Pakistan, seguendo i propri interessi. Islamabad avrebbe recentemente garantito, anche se la questione è poco chiara per le numerose pressioni interne contrarie, lo status di nazione più favorita all’India, clausola economica all’interno delle regole garantite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Vi sono piccoli segnali di miglioramento, ma esistono in ogni caso numerosi problemi: Islamabad non ha provveduto alla richieste indiane di chiare indagini per gli attentati di Mumbai del 2008 e d’interrompere i collegamenti con l’artefice degli attacchi, la Lashktar-e-Taiba. Il Pakistan è diviso tra governo civile da una parte e settore militare e ISI dall’altra, i quali, assieme ai gruppi islamici radicali hanno una grande influenza e osservano un avvicinamento all’India come una sorta di anatema. Ecco perché allo stato attuale non esiste un possibile rasserenamento tra i due paesi perché il Pakistan percepisce negativamente l’influenza indiana in Asia Centrale e Afghanistan. Inoltre, un accordo definitivo con l’India e l’attacco ai gruppi islamici radicali metterebbe in discussione la religione, elemento che ha dato origine e legittimità alla nazione, nonché collante di un paese diviso da contrasti etno-linguistici.

Per questo motivo la vicinanza statunitense verso Islamabad, nonostante le incomprensioni degli ultimi mesi e l’avversione dell’opinione pubblica pakistana nei confronti degli Stati Uniti sempre più forte, è letta negativamente dall’India.

Nuova Delhi è, inoltre, contraria a collegare il delicato discorso riguardante il Kashmir all’Afghanistan, connesso all’ideale della “Grande Asia Centrale” a guida statunitense, per l’importanza nazionalistica del tema, l’assoluta contrarietà alle ingerenze esterne e l’intenzione di risolvere la questione a livello bilaterale con il Pakistan. Per quanto riguarda infine un possibile scontro militare tra i due paesi, è attualmente improbabile grazie alla deterrenza nucleare. E’ evidente la superiorità militare convenzionale indiana, ma questa è paradossalmente limitata dalla presenza in entrambi i campi di ordigni nucleari. In un certo senso la deterrenza nucleare è uno svantaggio per l’India. Tutto sommato è probabile che, nel caso di un ulteriore peggioramento dei rapporti, le “azioni militari” vengano compiute dai gruppi terroristici radicali.

Negli ultimi mesi sembra dunque prevalere la volontà di mantenere una sorta di politica bilanciata tra diversi poteri. Questo si collega all’ideale della costituzione geopolitica di un mondo multipolare piuttosto che unipolare, nel quale le problematiche dell’Asia Centrale e Meridionale e del sud-est asiatico vengano risolte a livello regionale, mediante un’essenziale cooperazione tra il quadrilatero Nuova Delhi, Pechino, Mosca e Washington.

L’India potrebbe garantire la stabilità regionale e il dialogo tra poli contrapposti perché questo appare l’obiettivo primario per favorire essenzialmente la propria sicurezza interna. Infatti, non c’è solo la questione kashmira che potrebbe comportare una pericolosa instabilità dello Stato, ma anche l’estremismo religioso, soprattutto di matrice indù e islamica; l’indipendentismo di alcuni territori del nord-est a ridosso del confine con la Cina; le rivolte naxalite di stampo maoista nel centro e nord-est del paese; così come l’autonomismo di diversi territori regionali, i quali, pur rimanendo all’interno dell’Unione Indiana e essendo portatori di legittime richieste, potrebbero ostacolare la crescita interna dello Stato, nonché una sua frammentazione; a questo proposito il caso più importante degli ultimi mesi è quello del Telangana, regione settentrionale dell’Andhra Pradesh che ho visitato personalmente più di un anno fa; l’eventuale nascita di un nuovo Stato, all’interno comunque dell’Unione, potrebbe comportare la medesima richiesta d’autonomia per questioni economiche, etniche e problematiche d’approvigionamento di risorse, principalmente idriche, in diverse zone dello Stato.

Insomma, il ruolo geostrategico contemporaneo dell’India non sembra strettamente connesso né all’universo guidato dagli Stati Uniti, nonostante l’India sia una democrazia che la rende simile ai paesi occidentali, né al sistema di alleanze creato da Russia e Cina, malgrado sia aperto con Mosca e Pechino un importante dialogo per la stabilità in Asia Centrale. L’obiettivo dell’India è dunque quello di essere un polo indipendente capace di garantire la stabilità del continente asiatico mantenendo una posizione il più possibile equilibrata tra i diversi attori regionali e globali. Questa è un’aspirazione che si collega alla particolare posizione geografica del paese, il quale è punto d’incontro tra diverse influenze, culture e religioni; l’India sembra cercare una politica estera autonoma anche per l’aumento negli ultimi anni del nazionalismo indiano che richiede un ruolo di potenza per lo Stato asiatico; questa politica è anche erede del ruolo assunto durante la Guerra Fredda come capofila del Movimento dei Paesi Non Allineati, né aderente al polo guidato dagli Stati Uniti, né strettamente connessa all’Unione Sovietica, nonostante esistesse un rapporto privilegiato con Mosca.

In una fase storica in cui l’area dal Vicino Oriente all’Asia Meridionale è attraversata da una forte competizione tra diversi attori regionali e globali bisognerà comprendere se questa possibile strategia sarà vantaggiosa per l’India al fine di mantenere una sostanziale autonomia non solo a livello geopolitico, ma anche economicamente, rispondendo efficacemente al processo di globalizzazione ispirato dall’Occidente.

Il ruolo dell’India potrebbe cambiare se si verificherà l’adesione, assieme al Pakistan, all’OCS, opzione caldeggiata negli ultimi mesi da Russia e Cina, anche se per il momento sembra un’opzione prematura per Nuova Delhi. In questa fase non è ancora chiara l’adesione completa o meno, dato l’aumentare negli ultimi anni dei legami economici e militari con Washington, ma eventualmente sarebbe un importante fattore geopolitico nell’area e gli scenari futuri saranno certamente molto interessanti anche per un’eventuale normalizzazione dei rapporti indo-pakistani.

In ogni caso ritengo che unitamente a questa autonomia in politica estera, collegandomi al tema principale trattato nel libro di Vincenzo Mungo, l’India ha la possibilità di vincere la sua sfida contemporanea nei confronti della globalizzazione di stampo occidentale grazie alla sua antica cultura. E’ una sfida difficile, ma l’India ha tutte le potenzialità per poter crescere e presentare a livello mondiale un modello concorrenziale e alternativo.

In conclusione, vorrei segnalare che è in uscita l’ultimo numero dell’anno di “Eurasia” dedicato ai paesi del BRICS, nel quale personalmente considero alcuni aspetti dell’aumentata influenza geopolitica indiana che potrebbe essere ostacolata dai paradossi nei rapporti diplomatici con Stati Uniti e Cina, nonché dall’instabilità in diverse aree del paese.

*Francesco Brunello Zanitti,Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

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Il ruolo della Cina nella crisi del debito europeo secondo gli esperti cinesi

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Articolo originale:
http://news.xinhuanet.com/world/2011-12/02/c_122370124.htm

Non è della ‘salvatrice’, né tantomeno di una semplice spettatrice: il ruolo della Cina nel mezzo della crisi del debito europeo secondo gli esperti.

Di pari passo con il perdurare e l’espandersi della crisi del debito europeo, cresce quotidianamente anche l’attenzione verso il ruolo che la Cina può svolgere nell’ambito degli aiuti internazionali diretti all’economia europea. Gli analisti fanno notare che la Cina non sarà la ‘salvatrice’ dell’Europa, incapace com’è di aiutare con le sue sole forze il Vecchio Continente a liberarsi della crisi; ancor meno sarà un semplice spettatore della crisi: l’impegno per quanto riguarda gli aiuti non è mai mancato e la Cina ha messo tutte le sue forze per partecipare attivamente ad essa ed è un’importante forza costruttiva per accelerare la ripresa dell’economia europea.

Che la Cina ‘salvi’ l’Europa: il problema non si pone

Il Vice Ministro per gli Affari Esteri Fu Ying aveva dichiarato in precedenza che, presa nel suo complesso, l’Europa è la prima economia mondiale: la sua struttura è ancora forte e anche lo stato di salute di alcune aziende europee è ancora buono. Perciò all’Europa non è che manchi la capacità di salvare se stessa, e quindi  «non si pone il problema del ‘salvataggio’ dell’Europa da parte della Cina».

Il Direttore dell’Ufficio Ricerche sull’Economia Mondiale presso l’Istituto di Ricerca sulle Relazioni Internazionali della Cina Contemporanea Chen Fengying che aveva appena partecipato a un convegno internazionale svoltosi in Europa, ha dichiarato ai giornalisti che facendo il paragone con la Cina gli Europei sono ancora ricchi e non vi sono manifestazioni di  panico palese nella società europea.

«Attualmente il problema dell’Europa non sono affatto gli aiuti dall’esterno, ma è quello di permettere o meno agli altri di farsi aiutare» ha dichiarato Chen Fengying. Al momento i paesi europei nel trattare la crisi del debito sovrano non hanno ancora sviluppato una linea di pensiero unitaria, e hanno bisogno di un ulteriore coordinamento politico.

Anche il Capo della Sezione Economica dell’Ufficio di Ricerche sull’Europa dell’Istituto di Scienze Sociali Chen Xin ha dichiarato che, nei confronti dei turbamenti dei mercati europei cui assistiamo, è necessaria una voce autorevole e unisona per aiutare a ristabilire la fiducia dei mercati, mentre quelle delle decisioni strutturali dell’Europa sono sempre voci disunite ed eterogenee. «Ciò che la Cina può fare è esprimere la propria opinione riguardo ai programmi di salvataggio attuati dall’Europa».

Riguardo al fatto se la Cina può (o meno) utilizzare le riserve di valuta estera per acquistare il debito europeo, il 2 dicembre al Lanting Forum il cui tema principale erano le relazioni sino-europee nel nuovo contesto Fu Ying ha dichiarato che l’uso delle riserve di valuta estera è subordinato alla soddisfazione dei requisiti per la gestione delle stesse, ovvero «è necessario soddisfare i principî di sicurezza, trasferibilità ed un’adeguata profittabilità». Gli acquisti da parte della Cina di titoli di debito europei, americani e quelli del FMI si basano tutti su questi principî.

«Se si vuole investire, allora bisogna considerare anche il tornaconto, quindi bisogna avere delle previsioni di guadagno, ma la situazione dell’Eurozona per il momento non è ancora chiara» ha dichiarato Tian Dewen, Capo della Sezione di Ricerche sulla Cultura Sociale dell’Ufficio di Ricerche sull’Europa dell’Istituto di Scienze Sociali ed Osservatore Straordinario per l’Agenzia di Stampa Cinese Xinhua.

«Acquistare o non acquistare debito europeo è un problema legato al funzionamento del mercato» ha detto Chen Fengying poiché per il momento l’Europa non ha istituito un mercato unico per i titoli di debito e, in assenza di titoli garantiti dalla Banca Centrale Europea, il rischio risulta essere troppo elevato. Questa è la ragiona che fa esitare gli investitori stranieri ad aumentare l’acquisto di debito europeo.

La Cina è stata sempre presente nella ‘cerchia’ degli investitori internazionali pronti a salvare l’Europa

Nonostante la Cina non abbia il modo di ricoprire il ruolo della ‘salvatrice’ dell’economia europea, non ha neppure intenzione di rimanere una semplice spettatrice della crisi del debito europeo.

«In realtà, la Cina è uno dei paesi che per primi hanno dichiarato che avrebbero aiutato l’Europa» ha detto Chen Fengyin aggiungendo anche che sia il mondo accademico che i funzionari governativi cinesi seguono con vivo interesse la crisi del debito europeo. Essi sviluppano attivamente la collaborazione sul versante europeo impegnandosi ad aiutare l’Europa a realizzare la ripresa economica.

A partire dallo scoppio della crisi del debito europeo alla fine del 2009 la Cina, in qualità di investitore a lungo termine che ha assunto degli impegni verso il mercato finanziario internazionale, ha costantemente aumentato il proprio sostegno ai titoli di debito europeo. Allo stesso tempo, la Cina ha commissionato uno dopo l’altro oltre trenta pacchetti di acquisizioni in Europa, e l’entità delle importazioni commerciali fra Cina ed Europa è andata continuamente crescendo.

L’Unione Europea è il maggiore partner commerciale della Cina. Secondo quanto è stato fatto notare dagli analisti, la Cina attraverso l’iniezione di capitali nel FMI, l’acquisto di titoli di debito europeo e l’aumento delle importazioni e degli investimenti nelle aziende sostiene i paesi europei  perché essa possa superare la crisi, incrementare l’occupazione e ripristinare la crescita economica il che ha anche dei risvolti positivi per lo sviluppo della Cina.

Secondo Chen Fengying, attualmente alcuni paesi continuano ad avere atteggiamenti di diffidenza nei confronti degli investimenti cinesi, utilizzando spesso il pretesto della ‘sicurezza nazionale’ per ostacolare gli investimenti delle imprese cinesi in Europa, e questo non giova ad una rapida ripresa dell’economia del Vecchio Continente. Chen suggerisce alle aziende europee di riflettere sulla possibilità di sviluppare insieme alla Cina la collaborazione mediante gli investimenti nei Paesi terzi come potrebbero essere i Paese africani o anche altri dove l’Europa fornirebbe le competenze tecnologiche, mentre la Cina i capitali. Questo potrebbe essere utile sia a risolvere il problema dello svuotamento industriale nei paesi europei, sia allo sviluppo delle economie dei paesi terzi.

La Cina non può percorrere la via dei consumi eccessivi

Secondo Fu Ying, nel corso della crisi finanziaria vi sono state molte incomprensione nei confronti della Cina da parte del resto del mondo. Ad esempio, che la Cina debba aumentare i consumi, che l’insufficienza dei consumi in Cina ha creato uno squilibrio di consumi nel resto del mondo e così via. In realtà, il livello di crescita dei consumi in Cina è molto elevato e anche la crescita del mercato interno è rapida ed è molto probabile che nell’ultima fase del 12° Piano Quinquennale il paese diventerà il principale mercato di consumo a livello mondiale. «Però la Cina non può percorrere la via dei prestiti al consumo e quella dei consumi eccessivi. Non possiamo prendere esempio da questo tipo di modi di fare ritenuti sbagliati nel corso della crisi finanziaria» ha dichiarato Fu Ying.

Come hanno fatto notare gli analisti, i consumi è un’entità finita nell’economia cinese, così come la produzione lo è per l’economia europea. La Cina deve elevare i consumi ad un certo livello in proporzione al prodotto interno lordo del paese, e questo è proprio ciò che si sta facendo al vertice. Ma ciò a cui si deve far attenzione è che la Cina non debba assolutamente percorrere la via dei consumi eccessivi, come ha fatto l’Europa.

«Fornire supporto in mancanza di un alto livello di crescita è qualcosa che le società ad alto benessere non possono continuare a sostenere». Chen Fengying ritiene che il deficit finanziario dei paesi europei è eccessivo e la produzione è svuotata e se questo problema strutturale non verrà risolto, l’economia europea non avrà modo di avere uno sviluppo radicalmente sano.

«L’Europa deve modificare la sua struttura produttiva, risolvere i problemi legati all’eccesso dell’economia ‘virtuale’, spendere secondo le proprie possibilità reali, e correggere quei modi di fare che finora hanno impedito di raggiungere il pareggio di bilancia». Per Chen Fengying, anche la Cina dovrebbe trarre una lezione dalla crisi del debito europeo per continuare ad espandere e rafforzare il suo apparato produttivo e non stare con le mani in mano.

(Traduzione dal cinese a cura di Alessandro Leopardi e Konstantin Zavinovskij)

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Le manovre dei paesi del Golfo contro il popolo siriano

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Fonte: http://www.silviacattori.net/article2440.html

Stando a quanto detto da una personalità vicina al Segretario Generale della Lega Araba, Nabil Arabi, emerge l’espressione, durante una riunione formale, della sua reale inquietudine a riguardo dei piani d’integrazione della Giordania e del Marocco all’interno del Consiglio di Cooperazione dei Paesi del Golfo (CCG). Egli suggerisce al proprio uditorio l’esistenza di un pericolo tangibile per la Lega Araba, poiché ne risulterebbe una nuova partizione del Mondo Arabo, con le monarchie e i principati da una parte, il resto dei paesi arabi dall’altra. Ciò permetterebbe all’Occidente di controllare efficacemente le fonti energetiche e l’insieme delle decisioni politiche riguardanti la regione.

Secondo la medesima fonte, il segretario generale aggiunto della Lega Araba, Ahmed Bin Houli (d’origine algerina) sarebbe perlopiù ridotto al ruolo di esecutore dei punti di vista e delle direttive del ministro degli affari Esteri del Qatar, lo sceicco Hamad Bin Jassem Bin Jabr Al Thani, il che ha portato numerosi partecipanti a porsi delle domande sulle reali posizioni dell’Algeria. Tanto più che, storicamente – e a comincare dal suo ministro degli affari Esteri Abdel Aziz Boutéflika, all’epoca in cui costui occupava questo ruolo – la diplomazia algerina si è sempre distinta per la sua fermezza e per l’efficacia delle sue iniziative all’interno della Lega. Avrà forse paura di subire la stessa sorte della Tunisia o della Libia, se non peggio?

Descrivendo l’offensiva dei paesi del Golfo, Nabil Arabi ha detto: “Un’offensiva di una tale forza e di tale ampiezza è molto inquietante” avendo, come prova, il fatto indiscutibile che alcuni di questi paesi si comportano come se la Lega Araba non fosse che una sorta di copertura che li autorizza ad attaccare altri Stati membri, come la Libia, lo Yemen, l’Egitto, la Siria etc… Come altri responsabili della Lega Araba, Nabil Arabi non ha potuto che constatare l’ambiguità che risulta dalle decisioni prese contro la Libia, e si è spinto a dire: “Personalmente, non sapevo che la decisione di stabilire una no-fly zone ed il divieto all’aviazione libica di volare potessero dare un pretesto alla NATO per andare a bombardare, con l’artiglieria pesante, le regioni libiche scelte come bersaglio. Se l’avessi saputo, non avrei mai permesso questa decisione”.

È sicuro che la legittimazione dell’intervento della NATO in Libia sia stata ordita sotto mandato di Amr Moussa. Da ciò la probabilità che Nabil Arabi abbia voluto inviare un messaggio chiarissimo per indicare che altri paesi arabi sono caduti nella stessa trappola; allo stesso tempo, in qualità di Segretario Generale della Lega Araba, Nabil Arabi ha dovuto finire per accogliere l’eliminazione di Muammar Geddhafi e del suo regime.

Inoltre, diverse fonti vicine ad Ahmed Bin Houli sostengono che Nabil Arabi abbia aggiunto che i paesi del Golfo hanno esercitato enormi pressioni per arrivare a far adottare la posizione di cui sappiamo contro la Libia, e che essi faranno presto lo stesso contro la Siria.

È doveroso ricordare che il testo dell’articolo, più che la decisione della Lega Araba, presa il 14 marzo 2011, sollecitava chiaramente il Consiglio di Sicurezza per un intervento militare in Libia, giacchè questo articolo chiedeva di “prendere immediatamente le misure necessarie per lo stabilimento di una zona d’esclusione aerea che impedisca ogni movimento dell’aviazione militare libica, stabilire una zona di sicurezza nei siti esposti ai bombardamenti fintanto che misure preventive non permetteranno la protezione del popolo libico e dei residenti di tutte le nazionalità, il tutto nel rispetto della pace regionale e della sovranità degli stati confinanti”.

Inoltre, diverse personalità vicine alla Lega Araba hanno affermato che attualmente alcuni paesi del Golfo, primo tra tutti il Qatar, fanno pressione per assicurare una copertura simile per legittimare un intervento internazionale in Siria, ma che hanno incontrato serie opposizioni da parte degli altri paesi arabi. Così, l’Egitto e l’Algeria hanno rifiutato finora di seguirli. Il Re dell’Arabia Saudita non si è più mostrato entusiasta, malgrado le pressioni provenienti da personalità saudite e kuwaitiane che non esprimono necessariamente la decisione ufficiale dei loro due paesi.

In questa situazione, si pongono delle domande riguardo alla complicità dei paesi del Golfo e di Ankara per destabilizzare la Siria dal suo interno.

I conoscitori degli arcani della Lega Araba si trasmettono informazioni sulle manipolazioni destinate a incoraggiare la Turchia e la Giordania ad elevare il livello della loro ingerenza negli affari siriani con il pretesto di proteggere i civili, i rifugiati, e i dissidenti dell’Armata, e ad incitarli a pensare seriamente alle modalità di stabilimento di “zone tampone” sui loro confini con la Siria. Tutto ciò accompagnato da una panoplia di sanzioni come il congelamento delle transizioni e degli affari finanziari nelle banche arabe, l’interruzione degli investimenti nei paesi del Golfo, la sospensisone della Siria dalla zona di libero scambio arabo (GAFTA), e la sua progressiva asfissia, dovuta alla pressione sugli stati e le società che trattano con i settori economici e finanziari siriani.

Ingerenza straniera e opposizione

Alcuni media israeliani, come il quotidiano “Haaretz”, si sono interessati ai diversi piani volti a trasformare Homs, Hama ed Edleb in “zone sotto la protezione internazionale”, ma i mezzi per ottenere ciò non sono stati trovati, dato che il doppio veto sino-russo pronunciato contro ogni intervento straniero negli affari siriani contribuisce sempre a rendere molto difficile questa manovra. Di conseguenza si stanno valutando altri mezzi, come l’idea dei “corridoi umanitari”, avanzata dal ministro degli Esteri francese Alain Juppé.

Conviene precisare che la Cina e la Russia non sono i soli paesi ad opporsi ai piani di destabilizzazione della Siria. In effetti, la proposta di un intervento turco o internazionale non ha ottenuto l’avallo di tutti i paesi membri della Lega Araba. Molti di questi hanno espresso chiaramente delle riserve, che ciononostante sono restate inascoltate o deliberatamente ignorate, come il disaccordo arabo-arabo riguardo all’opposizione siriana che chiedeva di essere rappresentata dal Consiglio Nazionale Siriano (CNS).

Secondo Ammar al-Qurabi (capo dell’Organizzazione nazionale dei diritti dell’Uomo, con base al Cairo –Ndt), Nabil Arabi avrebbe ricevuto venticinque richieste di colloquio da parte dell’opposizione siriana, nel momento stesso in cui il Qatar e alcuni paesi del Golfo, in particolare, stavano esercitando intense pressioni sui paesi arabi per portarli a riconoscere il CNS

Mentre altri paesi, perlopiù occidentali, considerano imperativo allargare la rappresentatività del CNS prima di riconoscerlo ufficialmente, altre forze dell’opposizione siriana dichiarano che il CNS non può rappresentare la volontà popolare. Essi accusano il CNS di essere dominato dalla Turchia, dal Qatar, e da altri paesi arabi, e di non essere altro che uno schermo dietro al quale si nascondono i Fratelli Musulmani. Ciò spiega perché il CNS non è stato ancora riconosciuto come l’unico rappresentante dell’opposizione siriana, né da alcuno Stato arabo, né da alcuno Stato occidentale.

Non è assolutamente da escludere che si stia ora assistendo ad una intensificazione delle pressioni che condurranno all’organizzazione di una conferenza che riunisca una “opposizione allargata” – dove verranno presentati tutti i partiti, o almeno la maggior parte – col solo obiettivo di legittimarne il riconoscimento da parte dei paesi arabi e occidentali e, al contempo, riuscire a delegittimare il governo siriano con tutto quel che ciò potrebbe generare ad ostacolo dei diplomatici siriani attenti alla politica estera, nei loro tentativi di conciliazione.

Bisogna sapere che il contrabbando di armi – che in diversi mesi hanno invaso il territorio siriano – ha provocato la divisione dell’opposizione siriana dall’esterno, e alcune personalità si rifiutano di dare credito al CNS. Così, Haytham Manna ha dichiarato con grande delicatezza nei confronti di Burhan Ghalioun: “Se le manifestazioni in Siria si fossero islamizzate, confessionalizzate, o armate, sarebbero già terminate”, dal momento che sono sempre le armi a stroncarle. Con il suo movimento d’opposizione, Manna ha sfidato Ghalioun e il CNS, che egli dirige, con la richiesta di adottare una posizione chiara in quanto alla separazione della religione e dello Stato.

Detto ciò, la maggior parte degli oppositori dicono che, se il regime siriano vuole evitare l’intervento straniero, sta a lui provare la sua volontà di promuovere riforme e dare il via a misure concrete in questo senso, soprattutto in termini di elezioni, permettendo una condivisione effettiva del potere.
Resta il fatto che, nelle ultime settimane, sia stato il Qatar a giocare il ruolo più importante per riunire gli oppositori.Del resto il Qatar ha invitato a Doha la maggior parte dei loro rappresentanti. Alcuni si spingono a dire che l’ultimo incontro del Primo Ministro qatariota con il principe ereditario d’Arabia Saudita sia stato dedicato quasi esclusivamente alla crisi siriana, dal momento che questi, dopo essere nominato, ha ricevuto un messaggio d’amicizia firmato dal Presidente Bachar el-Assad, al quale ha risposto con calore, augurando alla Siria di uscire sana e salva dalla crisi in corso.

Anche le autorità turche hanno svolto un ruolo di prim’ordine. Esse hanno intensificato le loro pressioni e le loro dichiarazioni intempestive, per voce di Recep Tayeb Erdogan. E, a detta di alcuni oppositori, uno tra tutti Al-Qurabi, è stata immaginata ogni sorta di scenario dalla direzione politica turca: “Colpo di stato militare, stabilimento di zone tampone, sanzioni economiche e finanziarie, e incoraggiamento alla dissidenza dei militari siriani”.

Inoltre, sembra che l’intervento dell’armata siriana a Homs, con l’adozione di una politica di sicurezza “chirurgica” che mirasse a catturare o a eliminare gruppi di bande armate, ha portato alcuni paesi del Golfo ad accelerare la cadenza e l’intensità delle pressioni sulla Lega Araba, e in particolare su Nabil Arabi, per stabilire un protocollo che ammanetti la Siria, in modo che non lo possa né accettare né rifiutare. Accettandolo, aprirebbe le porte ad osservatori non necessariamente neutrali, al traffico d’armi, alle manifestazioni, ai dissidenti armati. Rifiutandolo, aprirebbe la strada al Consiglio di Sicurezza e vanificherebbe l’azione della Russia.

Argomenti di disaccordo tra la Siria e la Lega Araba

Il quotidiano As-Safir è riuscito a procurarsi, da fonti vicine a Ahmed Bin Houli, dei documenti degli ultimi mesi che testimoniano gli scambi tra la Lega Araba e Damasco.

Il primo documento (n. 7435, del 16 ottobre 2011), prevede i seguenti punti:

1. Totale interruzione di tutti gli atti violenti diretti contro i cittadini siriani, e totale interruzione di tutte le violenze che da essi derivano.
2. L’annuncio delle autorità siriane della volontà di liberare tutti i prigionieri politici fatti per gli avvenimenti in corso, prima della celebrazione dell’Aid Al-Adha [festa del Sacrificio o AID AL-KEBIR, Ndt].
3. Totale evacuazione di ogni presenza militare nelle città e nei quartieri abitati.
4. Organizzazione di un Congresso per un vasto dialogo nazionale, nella sede del segretariato generale della Lega Araba e sotto la sua egida, entro 15 giorni, e dopo l’esecuzione dei già esposti articoli 1, 2, 3.
Questo congresso avrebbe dovuto riunire rappresentanti del governo siriano e di tutti i partiti dell’opposizione per accordarsi su una tabella di marcia che stabilisse le modalità necessarie per la costituzione di un processo di riforma politica conforme alle ambizioni del popolo siriano.

Il comitato ministeriale ed il segretariato generale della Lega Araba erano incaricati della preparazione delle modalità necessarie all’esecuzione di questi articoli.
Il 26 ottobre 2011, un secondo documento emanato dal comitato ministeriale “in seguito al suo accordo con Sua Eccellenza il Presidente Bachar el-Assad” precisava gli emendamenti seguenti, apportati dalla Siria:
1. Totale interruzione di tutte le violenze, qualunque ne sia l’origine.
2. Liberazione dei detenuti per gli avvenimenti in corso.
3. Totale evacuazione di ogni presenza armata nelle città e nei quartieri abitati.
4… non modificato.
5. Invito degli organismi ufficiali della Lega Araba e dei media arabi e internazionali a circolare liberamente in tutte le regioni siriane per informarsi e rendere conto della realtà di ciò che accade sul territorio.

Le informazioni provenienti dagli ambienti ufficiali della Lega Araba indicano che, a seguito delle discussioni che hanno avuto luogo a margine del consiglio ministeriale tra Nabil Arabi, i suoi consiglieri, e alcuni rappresentanti dei paesi del Golfo, lo sceicco Hamad in primis, l’impressione generale sia stata che la Siria rifiutasse queste soluzioni, come Nabil Arabi aveva sentito ripetere a più riprese dal Presidente Assad, e cioè che rifiutava qualunque attacco alla sovranità della Siria, e che il dialogo avrebbe dovuto avvenire in territorio siriano.

Ma l’approvazione siriana dell’iniziativa araba, abbinata al rafforzamento delle misure di sicurezza nelle regioni “calde”, in particolare durante l’AID Al-Adha, ha contribuito all’aumento del livello di pressione dei paesi del Golfo e dei paesi occidentali sulla Lega Araba, mentre i media arabi ed internazionali si concentravano a diffondere immagini di omicidi, violenze, incursioni, pretenziosamente attribuiti al regime siriano. A questo si è aggiunto il famoso “protocollo arabo”, il cui contenuto è stato sempre respinto, senza indugio, dai Siriani.

Le trappole del protocollo arabo

Ancora una volta, la Siria non ha risposto negativamente. Al contrario, ha deciso di andare in direzione del vento al rischio di trovarsi intrappolata nella burrasca. Ha accettato il principio del “protocollo”, lavorando al suo emendamento. Quindi, ha escluso l’articolo che trattava la presenza di “guardie personali o private”, ed ha rifiutato di sottoscrivere tutti i rapporti o i dispiegamenti di forze della Lega Araba prima di una consultazione incrociata con il governo, precisando che i rapporti dovranno essere presentati parallelamente al segretario generale della Lega e al governo siriano. In quanto ai finanziamenti, dovranno essere assunti a responsabilità della Lega Araba stessa.

Cosa porta la Siria ad accettare ciò che rischia di minacciare la sua sovranità?

L’opposizione vede in questo atteggiamento conciliatore del governo siriano un segno di debolezza che rivela la sua incapacità di rifiutare alcunchè, nemmeno ciò che annuncia la sua fine imminente. Il punto di vista dei dirigenti siriani è radicalmente opposto a questa analisi. Infatti, coloro che li appoggiano fanno notare che, dal momento che la crisi ha raggiunto il nono mese, non può essere sfuggito agli osservatori che il governo e l’esercito siriani sono rimasti solidali, che il numero di disertori non corrisponde alla proporzione osservata in tempi normali, che non ci sono particolari preoccupazioni sulla situazione finanziaria dal momento che la Siria sta uscendo da diciassette anni di blocco che non le hanno impedito di sviluppare la propria agricoltura e di esportare prodotti, e che la sua economia non potrà mai essere strangolata finchè le sue relazioni resteranno aperte con l’Iraq, il Libano, la Russia, l’Indonesia, l’India…

Le stesse persone considerano che questa attitudine conciliante da parte della Siria ha come risultato di mantenere l’”unità del fronte arabo” per evitare di legittimare un intervento straniero e rinforzare le posizioni della Russia e di altri alleati al Consiglio di Sicurezza. Tanto più che i Siriani possono presentare dei dossier documentati con foto, video e DVD che provano la partecipazione di centinaia di individui armati ad abusi, assassinii legati a differenzze comunitarie, mutilazioni di cadaveri, stupri… in particolare nella regione di Homs; alcuni di questi dossier confermano l’implicazione diretta di alcuni paesi del golfo nel finanziamento e nell’armamento, dossier che potrebbero essere divulgati se gli arabi persisteranno nell’intensificazione delle pressioni fino al punto di rottura.

Questa logica dei Siriani lascia pensare che non usciranno dalla Lega Araba. Ma, nel caso in cui alcuni li volessero escludere, essi ne dovranno sopportare le conseguenze. In questa sede non è inutile ricordare che Nabil Arabi ha raccontato recentemente di essere stato obbligato, quand’era Ministro degli Esteri, a rinviare la questione del riavvicinamento egizio-siriano, sotto pressione dei paesi del Golfo, come non è inutile ricordare che questa logica è sostenuta dal popolo siriano. In effetti, se le decisioni della Lega hanno trovato un’eco favorevole presso una parte dei Siriani, l’altra parte ha reagito con manifestazioni massive e ripetute. È così che le decisioni della Lega hanno messo in movimento le forze del patriottismo arabo in sostegno della Siria contro ogni intervento straniero.

In queste condizioni, sembra che la condizione siriana si diriga verso una sempre maggiore complessità, in quanto sul controllo della sicurezza interna interferisce l’immensa pressione dall’esterno. Ma alcuni, tra cui in particolare i Russi, sostengono che il regime è ancora capace di realizzare un’importante passo avanti in materia di riforme politiche, per le quali si dovrebbe accelerare il passo in modo da portarle alla realtà dei fatti. È ciò che ha condotto Mosca a giocare un ruolo di mediatrice e a ricevere una delegazione del CNS. Questa direzione segue alla “Conferenza d’Antalya”, che si proponeva di riunire i rappresentanti di tutti i partiti costituiti di oppositori siriani su base estera, e che si è concluso con un appello alla caduta del regime di Bachar el-Assad.

Recentemente, un certo numero di paesi arabi ha espresso la reale inquietudine nel caso di eventuali “passi falsi” contro la Siria. Ma è interessante notare che queste riserve sono state rifiutate da Nabil Arabi e dallo sceicco Hamed, e che gli emendamenti al “protocollo” proposti dall’Algeria non siano stati presi in considerazione. Alcuni suggeriscono che i tentativi per infiammare la situazione in Egitto siano in relazione diretta con altri dossier arabi e internazionali. Del resto la dichiarazione ufficiale dell’Egitto non rifletteva un grande entusiasmo, né per accogliere il CNS, né per un’intervento internazionale negli affari interni della Siria.

I pessimisti arrivano a credere che il Mondo arabo stia vivendo una tappa di disintegrazione della Lega Araba o la sua sottomissione ai diktat dei paesi del Golfo, che avrebbero bisogno dell’indebolimento del ruolo dell’Egitto, per cominciare.

Altri pensano che la battaglia regionale/internazionale abbia raggiunto il suo culmine fornendo un’occasione favorevole per attaccare la Siria come preludio all’accerchiamento dell’Iran. Ma questo supporrebbe che lo schieramento opposto, vale a dire l’Iran, la Siria, Hezbollah, la Russia, fossero pronti a uno scontro, in aggiunta alla complessità e alla durata della crisi siriana. A meno che non si verifichi un avvenimento interno inatteso, e che la situazione non degeneri in un conflitto con la Turchia, la Giordania, o…

Nel mezzo di tutte queste problematiche, il Libano dovrà probabilmente confrontarsi con una serie di sconvolgimenti della propria politica e sicurezza, poiché la maggior parte dei suoi politici definisce la propria politica in funzione della propria posizione sulla crisi siriana.

Sami Kleib
As –Safir, 25 novembre 2011.

Sami Kleib, giornalista libanese di nazionalità francese, è diplomato in Comunicazione, Filosofia del Linguaggio e del Discorso Politico. È stato direttore del giornale libanese As-Safir, a Parigi, e caporedattore del Giornale di RMC-Moyen Orient. Responsabile del programma “Visita speciale” su Al-Jazeera, ha dato le dimissioni per protesta contro il nuovo orientamento politico del canale televisivo.
Commento della traduttrice in francese

La guerra contro il popolo siriano non è di certo una “guerra dichiarata”, in quanto sprona l’opinione pubblica a interessarsi alla sua sorte in nome della pretesa “responsabilità di proteggere”, che sembra emergere come il mezzo ideale non per evitare la sua malriuscita, ma per fuorviare la nostra comprensione dei problemi reali. Poco importa che il popolo si mobiliti instancabilmente per mesi, per manifestare nella sua maggioranza il proprio sostegno al Presidente, lasciando da parte le richieste di riforme, divenute secondarie a fronte di un pericolo che l’ha messo a gran prova. Poco importa che esso rifiuti ogni ingerenza o intervento straniero, e che affermi il suo rifiuto di cedere all’escalation di violenza e agli squadroni della morte teleguidati e finanziati dall’estero. Poco importa la verità dei fatti a coloro che li snaturano, tanto che la nostra opinione pubblica continua a credere che il popolo siriano sia vittima dei suoi dirigenti, invece che obiettivo delle potenze straniere.

Ancora una volta la grande maggioranza dei giornalisti gioca sul conflitto tra il Bene e il Male. Le loro menzogne sono delle armi ben più dannose e soprattutto “umanamente” più accettabili di un intervento militare, reso momentaneamente impossibile per “ragioni tecniche” come ci spiega Sami Kleib; alcuni giornalisti che praticano contro il popolo siriano una strategia che potremmo qualificare come di “terrorismo mediatico”, con l’utilizzo di informazioni errate e non verificate, di video evidentemente modificati, e di reportage totalmente menzogneri. Ciò si è visto con la diffusione del reportage di Sofia Amara, che “Arte” e la “Television Suisse Romande” hanno diffuso e ridiffuso, malgrado il fatto che la sua mancanza di credibilità non sia potuta passare loro inosservata, tenendo conto delle proteste tempestive venute da persone direttamente coinvolte.

Ma qualcosa sta per cambiare. Sembra che non sia più assolutamente indispensabile consultare siti internet non infettati da manipolatori di ogni genere. In effetti, alcuni redattori dei nostri media “tradizionali” cominciano ad alzare un angolo del velo gettato sulle nostre coscienze, senza perlò rinunciare alla diffusione di informazioni false o tendenziose che provengono da fonti più che dubbie, come l’OSDH, il presunto “Osservatore Siriano dei Diritti dell’Uomo” con base a Londra, e che fa una relazione quotidiana di un numero di vittime, senza che si sappia nè chi ha contato i morti, nè la loro identità, nè soprattutto chi li ha uccisi.

Testimone di questo cambiamento? Un articolo edificante, apparso nel settimanale satirico “Le Canard enchainé” del 23 novembre, intitolato: “Une intervention “limitée” préparée par l’Otan en Syrie. En projet, una formation à la guérilla des déserteurs syriens par les services secrets français”! Gli estratti, qui ricopiati, la dicono lunga su questa invenzione dall’esterno:

[…]
“I Turchi propongono d’instaurare una zona d’”interdizione aerea” ed una zona tampone all’interno della Siria, destinata ad accogliere i civili che fuggono dalla repressione e i militari disertori (stimati a 8000, ufficiali superiori compresi, dai servizi informativi francesi). Non è facile da realizzare, poiché necessiterebbe che le basi aeree turche accogliessero gli aerei francesi e britannici”.

“Prima della realizzazione di questi progetti strategici, definiti dal ministero della Difesa, i servizi segreti hanno avuto molto da fare”. Nel Nord del Libano e in Turchia, dove si rifugiano molti disertori siriani, gli ufficiali francesi della DGSE e britanncisi di MI 6 hanno come missione la costituzione dei primi contingenti dell’Armata siriana libera, ancora embrionale”.
[…]
“Disertori da mobilitare.
Una guerra anti-Bachar come intermediario, dunque? “Non si tratta di ricominciare con ciò che è accaduto in Libia”, conferma un officiale d’alto rango alla Direzione dell’informazione militare. “Ma sono i Francesi e i Britannici che hanno preso i primi contatti con i ribelli”. Contatti politici, con gli esuli rifugiati a Parigi o a Londra, e militari, con i disertori, al fine di valutare l’importanza relativa della loro Armata siriana libera, che ha già attaccato numerosi edifici ufficiali”.

L’ASL, l’”Armata siriana libera”!? Non esiste questa armata che ha rivendicato l’uccisione di sette piloti militari siriani nell’autobus che li trasportava?

È necessario comprendere che è questa, vale a dire l’Armata siriana libera, che elimina i fiori all’occhiello dei “difensori della patria” (nome ufficiale dell’Armata siriana); è la stessa che la Lega Araba vorrebbe promuovere esigendo che il governo siriano allontani i soldati dell’Armata Nazionale dalle città e dai quartieri abitati? Un’Armata che ha già perduto più di mille soldati. In ogni caso è quel che sembra suggerire François Zimeray, Ambascatore francese per i diritti dell’Uomo e commilitone di Bernard-Henri Lévy, quando cerca disperatamente di convincerci, su “Europa 1”, “della dimensione della crudeltà della repressione siriana”. Non si perde più in dettagli per comunicarci le proprie fonti, ma gioca piuttosto su di una fibra sensibile di cui sembra egli stesso carente, tutto semplicemente perché non può ignorare chi commette queste crudeltà.

Infine è irragionevole considerare che il problema non sia “in” Siria ma sia “causato” dalla Siria, colpita dal fuoco di mire egemoniche contraddittorie e scettica sul mettersi in ginocchio, quando il suo popolo ha deciso di restare in piedi? E ci riuscirà? Osiamo crederci.

Mouna Alno-Nakhal
29 novembre 2011.

Tradotto dall’arabo daMouna Alno-Nakhal, il 29 novembre 2011
Fonte:
http://www.assafir.com/Article.aspx ?EditionId=2011&ChannelId=47654&ArticleId=2482&Author=سامي%20كليب

Traduzione a cura di Alessandro Parodi

[1] Si veda il contro-documentario, in 8 parti, che mette gravemente in questione la credibilità del reportage: “Syrie, dans l’enfer de la répression”, realizzato da Sofia Amara, diffuso su Arte l’11 ottobre 2011. http://www.silviacattori.net/article2441.html
[2] http://www.mondialisation.ca/index.php ?context=va&aid=27865
[3] http://www.lefigaro.fr/flash-actu/2011/11/24/97001-20111124FILWWW00663-syrie-7-pilotes-militaires-tues.php

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Note sul discorso di Nigel Farage

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Nelle scorse settimane un nuovo astro ha brillato nel firmamento del web: Nigel Farage, il cui discusso intervento al Parlamento Europeo è stato fatto rimbalzare innumerevoli volte da un capo all’altro della rete.
Prima di riproporre il testo integrale del discorso di Farage, e di aggiungervi qualche considerazione a margine (ma forse non marginale), vediamo un po’ chi è questo personaggio.
 
Un leghista per la Regina

La sua biografia è disponibile sulla solita Wikipedia, quindi non mette conto riassumerla qui. Più interessante, invece, è sapere che Farage è copresidente del Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia (in inglese The Europe of Freedom and Democracy Group, EFD; in francese Groupe Europe Libertés Démocratie, ELD — i francesi, sempre desiderosi di distinguersi, hanno le libertà al plurale). Il gruppo è di recente costituzione, essendo nato il 1° luglio 2009, ed è formato da diversi partiti politici provenienti da otto Stati membri: Gran Bretagna, Italia, Grecia, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Finlandia e Slovacchia. Il suo programma politico è in generale di opposizione al centralismo burocratico dell’Unione Europea, e si articola in quattro punti fondamentali: 1) libertà e cooperazione fra i popoli dei diversi Stati; 2) maggiore democrazia e rispetto per la volontà popolare; 3) rispetto per la storia, le tradizioni e i valori culturali dell’Europa; 4) rispetto per le differenze e gli interessi nazionali. (Per correttezza, rendo noto di aver ripreso il programma dal sito ufficiale del Gruppo, che è in inglese: non sembra esistano versioni nelle diverse lingue nazionali degli altri membri, o almeno io non sono riuscita a trovarle — ciò che, mi pare, renderebbe legittimo il sorgere di qualche dubbio sull’effettivo senso dei punti 3 e 4 del programma citato).
Tornando a Farage, si è visto che è copresidente del Gruppo; questo implica che ci sia almeno un’altra persona a capo dello stesso. E infatti un’altra persona c’è: è l’italiano Francesco Speroni, membro della Lega Nord. Vale la pena di ricordare che la Gran Bretagna è quella nazione da sempre impegnata a contrastare l’unità del blocco europeo occidentale; e la Lega Nord è quel partito da sempre impegnato a contrastare l’unità italiana — l’art. 1 (“Finalità”) del suo Statuto recita testualmente: «Il Movimento politico denominato “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania” […] ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana»). Insomma Dio li fa e poi li accoppia.

Così parlò Farage

Come annunciato, ecco il testo integrale del discorso tenuto da Nigel Farage al Parlamento europeo, il 16 novembre 2011:
«Eccoci qui, sull’orlo del disastro economico e sociale, e in questa stanza oggi abbiamo quattro uomini che dovrebbero essere responsabili. Eppure abbiamo ascoltato i discorsi più insipidi e tecnocratici di sempre: state tutti negando. L’euro è un fallimento sotto tutti i punti di vista. Di chi è la colpa? Chi è che ha in mano il vostro destino? Ovviamente la risposta è: nessuno di voi. Perché nessuno di voi è stato eletto. Nessuno di voi ha avuto la legittimazione democratica necessaria per arrivare ai ruoli che state attualmente ricoprendo. E in questo vuoto è arrivata Angela Merkel. Viviamo in un’Europa dominata dalla Germania, qualcosa che il progetto di Europa unita avrebbe dovuto effettivamente impedire. Qualcosa che chi venne prima di noi ha impedito, pagando con il suo sangue. Io non voglio vivere in un’Europa dominata dalla Germania e neanche i cittadini europei lo vogliono. Ma ragazzi, siete voi che lo avete permesso. Perché quando Papandreu decise di chiedere un referendum, lei, signor Rehn, parlò di “violazione della fiducia”, e i suoi amici si sono riuniti qui come un branco di iene, hanno circondato Papandreu, lo hanno cacciato via e rimpiazzato con un governo fantoccio. Che spettacolo disgustoso. E non ancora soddisfatti, avete deciso che Berlusconi se ne doveva andare. Quindi fu cacciato e rimpiazzato con il signor Monti, ex commissario europeo, anch’esso architetto di questo euro-disastro. Un uomo che non era neanche membro del Parlamento. Sta diventando come un romanzo di Agatha Christie, dove cerchiamo di indovinare chi sarà il prossimo ad essere fatto fuori. La differenza è che sappiamo benissimo chi sono gli assassini: dovreste essere ritenuti responsabili per ciò che avete fatto. Dovreste essere tutti licenziati. E devo dire, signor Van Rompuy, che 18 mesi fa, quando la incontrai per la prima volta, mi sbagliai sul suo conto. Dissi che avrebbe ucciso silenziosamente la democrazia degli stati-nazione, ma non è più così, lo sta facendo molto rumorosamente. Lei, un uomo non eletto, è andato in Italia a dire: “non è il momento di votare, è il momento di agire”. Cosa, in nome di Dio, le dà il diritto di dire al popolo italiano cosa fare?».

Parole-chiave

Curiosamente, tutti sono rimasti così abbacinati dalla totalità del discorso di Farage da non prestare la minima attenzione a poche frasi tutt’altro che di secondaria importanza. E queste frasi sono precisamente: «Viviamo in un’Europa dominata dalla Germania, qualcosa che il progetto di Europa unita avrebbe dovuto effettivamente impedire. Qualcosa che chi venne prima di noi ha impedito, pagando con il suo sangue. Io non voglio vivere in un’Europa dominata dalla Germania».
Pur senza voler entrare nel merito delle posizioni del duo Merkel-Sarkozy, tuttavia è impossibile non ricordare che Francia e Germania sono acerrime rivali da molto prima di costituirsi in Stati-nazione: è praticamente la prima cosa che apprendiamo da Giulio Cesare, il quale all’inizio del suo De bello Gallico (libro I, cap. I) ci informa che dei tre popoli che abitano la Gallia «i più valorosi sono i Belgi, perché sono i più lontani dalla raffinatezza e dalla civiltà della provincia, cosicché molto raramente i mercanti si recano da loro a portarvi quei prodotti che servono ad effeminare gli animi, e sono al contempo i più vicini ai Germani che abitano oltre Reno, con i quali sono ininterrottamente in guerra. Questa è la ragione per cui anche gli Elvezi superano nel valore gli altri Galli, perché quasi ogni giorno combattono contro i Germani, o tenendoli fuori dal proprio territorio o portando essi la guerra nel territorio di quelli». Materia del contendere, allora come adesso — e stiamo parlando di duemila anni fa —, la supremazia sul continente europeo: i sorrisi e lo scambio di cortesie fanno parte dell’etichetta diplomatica e non bisognerebbe farsene trarre in inganno.
Infatti fu proprio la volontà di superare questo antagonismo che diede la spinta decisiva alla costituzione della CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, proclamata il 18 maggio 1951 col Trattato di Parigi. A dichiararlo senza mezzi termini era stato, un anno prima, Robert Schuman, ministro degli esteri francese dal 1948 al 1952 e promotore del processo di integrazione europea. Nel suo discorso del 9 maggio 1950, Schuman si espresse come segue: «La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. […] L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l’azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania. A tal fine, il governo francese propone di […] mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei. La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime. La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà si che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile. La creazione di questa potente unità di produzione, aperta a tutti i paesi che vorranno aderirvi e intesa a fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi di base della produzione industriale a condizioni uguali, getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica. […] Sarà così effettuata, rapidamente e con mezzi semplici, la fusione di interessi necessari all’instaurazione di una comunità economica e si introdurrà il fermento di una comunità più profonda tra paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni. Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace».

Se la Germania diventa über alles

Il fatto è che un’effettiva unità dell’Europa a guida tedesca ha sempre rappresentato, e ancora rappresenterebbe, una seria preoccupazione per l’unipolarismo di matrice anglosassone: lo spiega assai bene Charles A. Kupchan, uno dei massimi esperti americani di relazioni transatlantiche e di studi europei. Docente di relazioni internazionali presso la Georgetown University di Washington, direttore degli affari europei all’interno del National Security Council-NSA durante la prima amministrazione Clinton e attualmente Senior Fellow di studi europei presso il Council on Foreign Relations-CFR, Kupchan è fra l’altro autore di un interessante saggio — The End of the American Era: U.S. Foreign Policy and the Geopolitics of the twenty-first Century (2002), pubblicato in italiano nel 2003 col titolo La fine dell’era americana. Politica estera americana e geopolitica nel ventunesimo secolo. Per la cronaca, l’editore italiano è Vita&Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore; e il volume è curato dall’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali-ASERI, nata «nel 1995 dalla collaborazione tra l’Università Cattolica e la Camera di Commercio di Milano quale centro di formazione e ricerca sui fattori e le dinamiche economico-politiche della globalizzazione. Direttore dell’ASERI è Lorenzo Ornaghi»: Ornaghi, magnifico rettore dell’Università Cattolica di Milano e attuale ministro per i Beni e le attività culturali nel governo Monti.
Scrive dunque Kupchan: «L’unificazione della Germania nel 1871 riunì comunità che per secoli erano state feudi, principati e ducati indipendenti. […] La creazione di una Germania unita, anche senza l’Austria, non poteva non alterare la mappa geopolitica d’Europa. […] La vittoria nella Guerra franco-prussiana, la popolazione e le risorse poi disponibili per il nuovo Stato confermarono che la Germania aveva eclissato tutti gli sfidanti, inclusa la Francia, come nazione dominante sul continente. […] L’unificazione tedesca sferrò alla Francia il colpo più immediato — la sconfitta e l’umiliazione per mano della Prussia — ma anche per la Gran Bretagna le conseguenze furono sinistre. Una Germania unificata e la sua conseguente ascesa significarono la fine dell’egemonia britannica e avrebbero in ultima istanza reso obsoleta la sua grande strategia consistente nel perseguire il dominio navale globale evitando contemporaneamente impegni militari rilevanti sul continente europeo. La Gran Bretagna non dominò mai l’Europa come fece Roma. Ma non farlo fu il colpo di genio della sua grande strategia. La Gran Bretagna intervenne sul continente solo quando necessario per mantenere un equilibrio stabile. Con potenziali rivali che si tenevano reciprocamente in scacco, la Gran Bretagna fu libera di concentrarsi sullo sviluppo e la difesa del proprio impero d’oltremare. Non così dopo l’unificazione tedesca. Venne ufficialmente proclamato un Reich tedesco federato il 18 gennaio 1871 […]. I leader inglesi ne compresero subito le implicazioni. Dopo solo tre settimane, Benjamin Disraeli, il leader conservatore che di lì a poco diventò Primo ministro, disse alla Camera dei Comuni che l’unificazione della Germania “rappresenta la Rivoluzione tedesca, un evento politico più importante della Rivoluzione francese del secolo scorso. […] cosa è successo realmente in Europa? L’equilibrio di potenza è stato completamente distrutto” [B. Disraeli, 9 febbraio 1871, cit. in J.C.G. Rohl, From Bismarck to Hitler: The Problem of Continuity in German History, Barnes & Noble, New York 1970, p. 23]. L’unione del popolo tedesco in un solo Stato, temeva Disraeli, avrebbe stravolto irreversibilmente l’equilibrio europeo, erodendo per sempre il fondamento della grande strategia britannica, e preparando il campo per la fine del suo dominio globale» (op. cit., pp. 149-150). Settant’anni dopo, in pieno XX secolo, «se non fosse stato per l’eccessiva ambizione di Hitler — la sua decisione di aprire un secondo fronte contro la Russia nel 1941 logorò le risorse tedesche — e la volontà americana di mettere fine una volta per tutte alla macchina da guerra nazista, la Germania avrebbe potuto guadagnare un controllo duraturo sull’Europa centro-orientale. […] Alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Alleati […] occuparono la Germania e divisero il Paese in unità amministrative, assicurandosi che la sua forza unificata non potesse più precipitare l’Europa in guerra. Quando iniziò la guerra fredda, la Germania fu formalmente separata in due Paesi: la metà occidentale entrò nella NATO e quella orientale nel Patto di Varsavia. Gli Alleati permisero ben presto alla Germania occidentale di riarmarsi e ricostruire la sua economia per contribuire a opporsi alla minaccia sovietica. Ma il ritorno della potenza tedesca fu tollerato solo all’interno del contesto vincolante della NATO e della Comunità Europea. In nessun caso l’America e i suoi Alleati avrebbero permesso alla Germania di seguire la sua strada» (op. cit., pp. 152-153).

Dio deve ancora stramaledire gli inglesi?

La citazione di Kupchan, lunga e in neo-lingua, ha il merito di essere sufficientemente chiara ed esaustiva. Come chiaro ed esaustivo, a leggerlo fra le righe, è il senso dell’intervento di Nigel Farage, che ha fatto innamorare tanti italiani a destra e a sinistra — non è un modo di dire, bensì un riferimento ideologico preciso e un po’ inquietante: l’esterofilia italica è una piaga trasversale.
Ma Farage, e credo che non lo si dovrebbe dimenticare, è un inglese purosangue (benché inviso a tanti suoi compatrioti): antieuropeista fino al midollo, si capisce che non ha perso l’atavico vizio di dividere et imperare, affinché Britannia rules. Ah, il fardello dell’uomo bianco…

 

* Alessandra Colla, giornalista, è frequente contributrice a “Eurasia”

 

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