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Intervista a Marco Bagozzi, autore de “Con lo Spirito Chollima”

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Marco Bagozzi, autore de “Con lo Spirito Chollima” libro sul calcio nordcoreano è stato intervistato da Matteo Pistilli, redattore di Eurasia.

Un libro sul calcio nordcoreano: come è nata l’idea di pubblicare un testo su un argomento così particolare?

 

Ho scritto un libro su un argomento così di nicchia perché credo che sia una storia che merita essere raccontata. La stragrande maggioranza delle storie che leggiamo sul mondo del calcio sono questioni superflue, inutili: dichiarazioni dell’uno o dell’altro campione, infortuni, trasmissioni interminabili su errori arbitrali, ore a parlare di calciomercato. Riempiono i quotidiani sportivi e fanno vendere, ma, secondo la mia opinione, sviliscono il ruolo dello sport e del calcio, in particolare.

La passione per il calcio nordcoreano nasce prima del Mondiale sudafricano, quando ho cominciato a seguire la nazionale, spinto dalla curiosità che mi è nata leggendo i “non reportage” dei giornali sportivi: nessuno aveva nemmeno provato a cercare informazioni sui giocatori e su quel calcio. Mi sono domandato: ma è possibile che non si sa nulla dei coreani? Ho quindi aperto un blog, che ormai ha raggiunto l’anno di vita e quasi 10 mila visite, per seguire il calcio “Chollima”. Ho scoperto che ci sono giocatori coreani che hanno giocato e giocano in Europa, seppur in campionati minori e ho scoperto che esistono altri appassionati che seguono con partecipazione il blog. E’ nata quindi l’idea di comporre un almanacco per raccogliere tutti i risultati della nazionale, con l’intenzione di proporlo in ebook da far girare tra gli appassionati e gli statistici del calcio. L’idea è tramontata ad almanacco quasi concluso, quando ho cominciato a scrivere il saggio. Inizialmente pensavo di scrivere poche pagine, presentandolo magari a qualche rivista specializzata. Quando ho visto che le pagine cominciavano a diventare “troppe”, ho partorito il libro. Ho avuto la possibilità di consultare le raccolte di alcuni quotidiani italiani, per ricostruire la storia del Mondiale del 1966 e mi sono confrontato con alcuni specialisti, tra cui in particolare ricordo Nick Bonner, regista del bellissimo film sulla nazionale del 1966 The Games of Their Live, e il dottor Giovanni Armillotta, uno degli storici del calcio italiani più preparati.

Il libro è auto-prodotto, ha quindi le molte pecche e i pochi vantaggi di una pubblicazione “non ufficiale”, ma in questo modo posso presentare al lettore un lavoro non condizionato da logiche politiche ed editoriali.

 

Scrivendo il libro ti sarai appassionato od entusiasmato per un vittoria, una partita o un episodio in particolare. Ce lo puoi raccontare?

 

Sarebbe facile rispondere la vittoria contro l’Italia del 1966 o l’ottima prestazione contro il Brasile nel 2010, ma preferisco scegliere altri due momenti “particolari” entrambi sconosciuti al grande pubblico, ma molto importanti per chi ha a cuore la Corea unita: nel 1978 le due nazionali coreane raggiungono la finale dei Giochi Asiatici. Lo scontro fratricida finisce a reti bianche e le due squadre salgono congiuntamente in festa sul gradino più alto del podio; nel 1991 al Mondiale under-20 partecipa, per la prima ed unica volta nella storia, una squadra unita coreana, che strappa una favolosa vittoria contro l’Argentina prima di venir battuta dal Portogallo di Figo e Rui Costa e dal Brasile di Roberto Carlos ed Elber.

 

Cosa rappresenta per la Corea Popolare il calcio e più in generale lo sport?

 

In Corea lo sport non ha raggiunto il livello di mercificazione dell’atleta che c’è in occidente. Rispondendo ad un giornalista italiano Pak Doo-Ik disse “Venderei un mio calciatore ad una squadra italiana? Da noi non si vendono le persone”. Essendo ancora un paese socialista, il dilettantismo degli atleti è ancora un punto fermo e il carattere formativo ed educativo dello sport è preponderante rispetto alla ricerca del spettacolo e del mero risultato finale. Una cosa mi piace evidenziare: fra le notizie sportive che la KCNA, l’agenzia di stampa ufficiale di Pyongyang, rilascia in Occidente ci sono, ovviamente, i risultati di prestigio ottenuti dagli atleti nazionali, ma non solo: spesso leggiamo celebrazioni dei “maestri dello sport”, allenatori di squadre giovanili e squadre minori, tecnici federali, ai quali vengono riconosciuti i meriti nella formazione dei giovani talenti. Queste notizie, confrontate a quelle che passano sui giornali sportivi italiani, dominati da sole celebrazioni dei grandi campioni e dei grandi allenatori, evidenziano chiaramente la differenza che intercorre fra la nostra e la loro concezione dello sport.

 

Quando si sente parlare di calcio coreano in Occidente si sentono spesso toni machiettistici e propagandistici: Ad esempio, dopo i Mondiali abbiamo letto di una punizione ai giocatori e all’allenatore dopo l’eliminazione. Cosa c’è di vero?

 

Di vero c’è poco. Nel libro ricostruisco smentendo le più famose notizie “diffamatorie” sul calcio coreano: in particolare le presunte punizioni che hanno colpito i giocatori dopo le eliminazioni del 1966 e del 2010. In realtà basterebbe un giornalista serio per smentire quelle che sono semplicemente “dichiarazioni di anonimi imprenditori cinesi” che dicono di “aver riconosciuto” Kim Jong-Hun in un cantiere edile. Io ho raccolto le dichiarazioni dei giocatori, ho trovato immagini e video, oltre che la smentita ufficiale della KCNA e della FIFA. E vi assicuro che ho fatto semplicemente una ricerca su internet, senza nessuna “imbeccata” interessata. Ma qui entriamo in un terreno minato: l’attendibilità delle notizie che ci vengono proposte, che si mescolano con diceria, propaganda, poteri politici ed economici.

 

Secondo una definizione di Pascal Boniface, il Calcio è l’ultimo stadio della mondializzazione. Concordi?

 

Non conoscono le tesi di Boniface, quindi non ho la possibilità di confutarle o accettarle con precisione. Entro solo nel merito della frase citata. Per mondializzazione si intende la massificazione dell’Uomo, l’assenza di confini, di identità, di differenze, il villaggio globale. In questo processo lo sport e il calcio, in particolare, si pone con una doppia e opposta valenza. Su un piano il calcio è certamente uno degli ultimi stadi della mondializzazione (non è l’ultimo, perché ritengo che esistano “armi” ben più efficaci per gli agenti della mondializzazione, cinema, televisione ed internet, ad esempio): il fattore economico è preponderante, se spendi tanto vinci tanto. La compravendita dei giocatori di tutto il mondo, la nuova tratta degli schiavi, con l’acquisto di giovanissimi talenti africani e asiatici che arrivano in Europa anche prima dell’adolescenza, sono alcuni degli aspetti più drammatici del mondo del calcio. E sono simboli di una “mondializzazione” del calcio. Ma nel calcio rimangono alcuni valori che lo pongono in direzione diametralmente opposta al processo di mondializzazione: il fattore di appartenenza identitaria ad una squadra cittadina o ad una nazione, l’importanza del talento individuale e del lavoro di squadra, in cui tutto è deciso, organizzato, pianificato, gerarchizzato, si pongono in contrasto al progetto di massificazione.

In fin dei conti, lo sport “puro” è sempre un fattore positivo. Tutto quello che gli gira attorno (in particolare, l’aspetto finanziario e la mediatizzazione) può usarlo per scopi “negativi”.

 

*Marco Bagozzi, analista, collabora a Eurasia Rivista di studi geopolitici, ha scritto: “Con lo Spirito Chollima”.Introduzione e informazioni sul libro: http://www.eurasia-rivista.org/con-lo-spirito-chollima/12343/

 

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Media, “soft power” e prassi geopolitica tra Europa e Russia

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Quello che segue è il testo dell’intervento di Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”, alla conferenza internazionale Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism svoltasi a Parigi il 24 e 25 novembre scorsi. La conferenza è stata organizzata dal Ministero degli Affari Esteri e dall’Agenzia Federale delle Comunicazioni della Federazione Russa, in collaborazione con “Eurasia”, IFIMES e “The 4th Media”.

Il direttore Graziani è intervenuto nell’ambito della terza sessione, dedicata al ruolo dei media di massa nelle relazioni internazionali.

 

Come è universalmente accettato i mezzi di comunicazione di massa costituiscono un importante strumento per lo scambio di informazioni tra persone, industrie, nazioni, ai fini del raggiungimento di alcuni rilevanti obiettivi, tra cui soprattutto la conoscenza reciproca relativamente agli ambiti culturale, economico, politico, sociale e la formazione della cosiddetta opinione pubblica.

D’altra parte, dobbiamo anche riconoscere l’intrusione dei mezzi di comunicazione di massa nella vita quotidiana degli individui per quanto riguarda gli ambiti sopra citati. Il principale effetto della pervasività dei mezzi di comunicazione può essere valutata col cambiamento del comportante sociale avvenuto negli ultimi sessanta anni nelle Nazioni europee, specialmente in quelle caratterizzate dalla cultura cattolica.

Oggi, possiamo affermare che, rispetto al comportamento sociale, ci troviamo di fronte non più a un Paradigma culturale europeo, bensì di fronte a un generico modello “ occidentale” (o per meglio dire occidentalizzato), modulato sui valori statunitensi.

Lo spostamento da una paradigma culturale europeo ad uno occidentale dipende, fra l’altro, da precise cause geopolitiche.

Dallo specifico punto di vista geopolitico, l’Europa, cioè la penisola eurasiatica che chiamiamo Europa, costituisce – a partire dalla fine della seconda Guerra Mondiale -, la periferia del sistema occidentale guidato dagli Stati Uniti. Mentre dal punto di vista geostrategico, a causa dell’Alleanza egemonica NATO, essa costituisce la testa di ponte atlantica gettata sulla massa eurasiatica.

Riferendoci all’argomento di questa sessione, cioè al ruolo svolto dai mezzi di comunicazione di massa nell’ambito delle “Relazioni internazionali”, e adottando l’analisi geopolitica, possiamo facilmente osservare che i mezzi di comunicazione sono generalmente “piegati” o strumentalizzati ai fini delle prassi geopolitiche dei principali attori globali. Ad esempio, i mezzi di comunicazione di massa “occidentali” – vale a dire i mezzi di comunicazione del sistema geopolitico guidato dagli USA – contribuisce alla “esportazione” del modello e dei valori occidentali (quali la particolare interpretazione della democrazia, la prospettiva neoliberale, la neoreligione dei cosiddetti diritti umani, etc. etc.), senza alcuna considerazione riguardo alle altre culture (asiatiche, africane, ed europee, etc.).

Sotto questo particolare aspetto, i mezzi di comunicazione costituiscono un particolare e decisivo elemento delle prassi relative al soft power elaborate dagli attori geopolitici.

La relazione tra Informazione – Potere e Finalità geopolitiche è dunque molto stretta.

 

I Mass Media hanno pertanto una grande responsabilità. Essi possono concorrere alla comprensione reciproca tra le nazioni e i popoli, ma anche a distruggerne l’amicizia.

La relazione tra la Russia e i Paesi dell’UE ha bisogno di essere consolidata. Il problema principale che potrebbe ostacolare l’importante e geopoliticamente naturale processo di consolidamento, con rilevante beneficio delle popolazioni che vivono nella massa continentale eurasiatica, è costituito dal ruolo svolto dagli USA in Europa e dalle politiche transatlantiche di Bruxelles.

Un giusto uso dei Mezzi di comunicazione può concorrere al miglioramento delle relazioni tra l’Europa e la Russia con mutuo beneficio.

Generalmente, l’informazione sulla Russia, diffusa dai Mass Media europei, fornisce una rappresentazione “non realistica” della vita politica e delle giuste aspettative della Federazione. In particolare, l’informazione europea sugli aspetti politici della Russia sembra essere ideologicamente orientata. In altre parole, i mezzi di comunicazione dell’UE diffondono una interpretazione – e non una descrizione – delle questioni politiche russe, in accordo ai valori occidentali ed agli interessi transatlantici. La conseguenza di tale marcata interpretazione pro-occidentale si riflette nella formazione e nell’orientamento della “pubblica opinione europea”, rendendola particolarmente diffidente verso la Russia; tale comportamento ci mostra che i mezzi di comunicazione europei svolgono un ruolo fondamentale nell’ambito della soft power strategy adottata dal sistema occidentale guidato dagli USA.

 

Al fine di fornire all’opinione pubblica europea una descrizione più realistica della Russia, occorre migliorare lo scambio di informazioni adottando alcuni criteri comuni.

È desiderabile una minore dipendenza dei mass Media europei dagli interessi statunitensi. I mezzi di comunicazione europei dovrebbero favorire, con senso critico, le relazioni tra i popoli che abitano la parte occidentale dell’Eurasia (cioè l’Europa) e il popolo russo.

 

I mezzi di comunicazione di massa giocheranno un ruolo sempre più importante e crescente nella costituzione del nuovo ordine multipolare.

L’Europa, nel suo insieme, dovrebbe decidere, nel breve tempo, il proprio futuro geopolitico: essere la periferia del sistema occidentale o diventare un attore nel quadro dello scenario multipolare. L’Europa potrebbe superare l’attuale crisi finanziaria ed economica consolidando le relazioni (politiche, economiche, infrastrutturali e sociali) con la Russia, l’India e la Cina, le più importanti nazioni eurasiatiche. In tale contesto i mezzi di comunicazione europei possono svolgere una funzione determinante.

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L’enigma del Qatar: un gigante del gas dalla spada nana

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  Fonte: Mondialisation 22 novembre 2011

Perché guardi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello, e non noti la trave nel tuo occhio?” Vangelo di Luca, 6, 41

Questa parabola di Cristo ci aiuterà ad articolare la nostra tesi circa la cattiva condotta, immorale, di una famiglia che ha dirottato una nazione, vale a dire il Qatar. Il mondo ha certamente concetti e valori che si pensava scolpiti nella pietra, come un buon lavoro, il sacrificio, il sudore, che vengono superati dalla ricchezza acquisita in modo improprio, non col frutto del proprio sudore, ma col prestito del denaro e lo scandalo della speculazione finanziaria costruita sul vento e sull’ingannare dell’altro, da divorare se perde il passo, ciò che il linguaggio neoliberista definisce OPA. Sia da una rendita immeritata, come nel caso dei paesi petroliferi arabi, bloccati nei tempi morti, e che prendono in ostaggio il loro popolo, condannandoli a guardare correre a piena velocità il treno del progresso, mentre rimuginano sul marciapiede della stazione sulla loro frustrazione. Si può capire il disprezzo in cui sono tenuti questi potenti, grossi, grassi e ben nutriti, mentre la povertà sembra essere la calamità più ampiamente condivisa da centinaia di milioni, addirittura da miliardi, di bisognosi, indipendentemente dalla latitudine. No, gli arabi non sono così! C’è stato un tempo in cui rappresentavano la speranza dell’umanità.

Il Qatar: un epifenomeno o un fastidio permanente?

Mi va di raccontare di un enigma, un piccolo paese per superficie, ma dalla attuale enorme capacità di fare danni, che è sorto dal nulla, allo stesso modo in cui petrolio e gas sgorgano dal sottosuolo consegnandogli una malvagia rendita immeritata. Il Qatar è un emirato del Medio Oriente con una superficie di 11427 kmq per 300000 indigeni e un milione di stranieri che hanno uno status poco invidiabile, soprattutto se non sono occidentali. Piccolo produttore di petrolio, è anche il terzo produttore di gas naturale nel mondo, dopo l’Iran e la Russia. Dopo la dominazione dai Persiani per migliaia di anni sul Bahrein, poi gli ottomani o ancora gli inglesi, il Qatar è diventato uno Stato indipendente il 3 settembre 1971. E’ diretto con pugno di ferro dalla famiglia al-Thani da quaranta anni, come il regno di Gheddafi. L’attuale emiro ha rovesciato – c’è da meravigliarsi di queste abitudini per le lusinghe del potere? – suo padre nel 1995. Il governo del Qatar mantiene le restrizioni alla libertà di espressione e i movimenti per l’uguaglianza. La famiglia sovrana al-Thani continua a detenere un potere esclusivo. La nuova Costituzione non autorizza la formazione di partiti politici e questo da 40 anni. Dove è la libertà di espressione e l’alternanza al potere? La stazione televisiva al-Jazeera ha acquisito notorietà come fonte di informazioni non censurate, riguardo gli altri paesi arabi, provocando le ire di questi ultimi.

I giornalisti, piuttosto ordinari, provenienti da altri paesi arabi, sono attratti dal miraggio dei soldi e non dalla libertà di espressione, si sono eretti a censori aggressivi nei loro programmi, dove demonizzano al massimo gli altri regimi arabi. A nostro avviso vi sono due tabù, la famiglia dell’emirato e paesi occidentali venerati nella più pura tradizione del vassallaggio, quasi … Inoltre, nella guerra contro l’Iraq, il paese ha agito da base dello stato maggiore statunitense. L’11 dicembre 2002, ha firmato con gli Stati Uniti un accordo sull’uso della base aerea di al-Eideid. Siamo consapevoli che il Qatar è intoccabile. Si stimava che le riserve di petrolio del paese arrivino a 26,8 miliardi di barili, alla fine del 2009. Il Qatar ha attualmente la terza riserve di gas (25,37 miliardi di metri cubi nel 2009) dopo la Russia e l’Iran. Il Qatar è anche il più grande emettitore di CO2 pro capite, con emissioni pro capite tre volte superiore a quelle degli Stati Uniti, ossia 60 tonnellate di CO2/abitante/anno. È una fortuna per il mondo che i qatarioti non siano numerosi. Nel frattempo, un arabo somalo “fratello”, ne emette mezza tonnellata/anno. Chiaramente, quest’ultimo consuma in un anno ciò che un qatariota spreca in tre giorni! Ecco lo sviluppo sostenibile auspicato da questo emirato. Il PIL del Qatar ha raggiunto 52,7 miliardi dollari di dollari nel 2006. Il PIL pro capite ha raggiunto i 78.260 di dollari nel 2009, superiore a quello degli europei e degli statunitensi. Quest’ultimo è il risultato di una lunga tradizione scientifica, tecnologica e culturale, non uno spreco di multidimensionale di denaro immeritato, generata dalle stesse frustrazioni legittime o dal disprezzo di coloro che si barcamenano.

Per Hassan Moala: “Il Qatar non è, ovviamente, frequentabile per la sua “democrazia” contenuta all’interno degli studi di al-Jazeera. Questo emirato possiede il più grande fondo sovrano al mondo, il Qatar Investment Authority, il cui patrimonio è stimato in circa 700 miliardi di dollari! E’ qui che sta la grande forza di questo piccolo … gigante. Tanto più che il Qatar è a disposizione dei padroni del mondo per finanziare e rifornire delle spedizioni militari, come è avvenuto in Libia. Sarebbe stato più glorificante vedere l’emirato sul tetto del mondo, se si trattasse di un modello di democrazia. (…) Essi sono quasi d’accordo con Stati Uniti, Francia e Regno Unito in merito ai conflitti nel mondo, anche quando si trattava di ‘spezzare’ gli arabi. Sostengono la causa palestinese non esitando a ricevere i leader israeliani. (…) In questo paese, la preoccupazione esistenziale permette ogni tipo di alleanze, comprese quelle contro natura. I soldati della base militare statunitense vegliano. Per quanto tempo ancora?“(1)

Degli occhi più grandi del ventre

Olivier da Lage definisce la diplomazia del Qatar con l’espressione “Gli occhi più grandi dello stomaco“.

Dire, scrive, che il Qatar infastidisce i suoi vicini nella penisola arabica è un eufemismo. Fino ai primi anni novanta, il Qatar ha adottato un basso profilo, in politica estera. (…) La sfida del Qatar alla sovranità del Bahrein, sugli isolotti di Fasht al-Dibel, sembrava essere la sua unica priorità estera.(…) Quando depose il padre, lo sceicco Hamad decise di affermare l’originalità del Qatar in tutti i campi, anche urtando altri monarchi. Questi ultimi, come si può immaginare, non hanno apprezzato il pessimo precedente che può rappresentare un principe ereditario che rovescia il padre. Da dove viene questa assicurazione che permette al Qatar, un piccolo paese di circa 400.000 abitanti, di cui circa 150.000 nazionali, di resistere ai suoi vicini e, a sua volta, di intromettersi nella maggior parte dei paesi arabi? Non si insisterà mai abbastanza si fatto che gli Stati Uniti sono il primo paese a riconoscere il potere di Sheikh Hamad .(…) Allo stesso modo, l’accordo di mutua difesa che lega Washington e Doha, nel giugno 1992, è una realtà.” (2)

Oggi, continua Da Lage, il Qatar ospita il più grande deposito di armi degli Stati Uniti nel mondo, al di fuori del territorio degli Stati Uniti. (…) (…) Eppure, ciò che è stato a volte visto come una eccentricità della politica estera dell’emirato, ha continuato a beneficiare dell’indulgenza statunitense. Per quanto riguarda l’Iran, il collegamento tra Doha e Teheran non è che politicamente motivato. La sacca del gas del North Dome, il cui sfruttamento rappresenta tutta la futura ricchezza del Qatar, si estende nel Golfo oltre il confine con l’Iran. Sheikh Hamad bin Jassem (…) ha incontrato a New York Shimon Peres, poi al vertice economico di Amman, nell’ottobre 1995, ci fu la firma di un memorandum con Israele per la fornitura di gas naturale dal Qatar. Un ufficio commerciale israeliano fu aperto a Doha, inaugurato nel settembre 1996. Il pieno sostegno degli Stati Uniti spiega, in gran parte, la sicurezza che il piccolo emirato ha mostrato di fronte alle critiche dei suoi vicini. (…) al-Jazeera appare come un braccio non ufficiale della diplomazia di Doha, e la verve della sua scrittura si esercita raramente contro la politica ufficiale del Qatar“, spiega Malbrunot, riguardo l’atmosfera in Qatar e perché non c’è una ribellione.

Il Qatar, scrive, si distingue non solo per l’attivismo della sua diplomazia conciliante o per la ricchezza quasi insolente.” E’ anche l’unico stato della regione ad essere risparmiata, finora, dall’ondata di proteste che ha scosso il resto del mondo arabo. “Qui la manna viene distribuita solo a 200.000 cittadini del Qatar, che non hanno alcuna vera ragione di lamentarsi“, dice un diplomatico occidentale. “Francamente, non abbiamo bisogno di avere la Coppa del Mondo,” critica a mezza voce Hassan al-Ansari, capo redattore del Qatar Tribune. “Perché spendere 55 miliardi dollari per delle strutture da rimuovere il mese dopo?” dice un altro funzionario. Inondati dalle informazioni sulle rivolte arabe da al-Jazeera, i suoi abitanti, però, non hanno nulla da mettere in bocca quando guardano il canale del Qatar, muto sulle notizie locali. Tuttavia, “abbiamo anche richieste politiche, spiega il professor al-Misser. Per ora, esiste solo una Majlis al-Shura, ma i membri di questa Assemblea sono nominati dal governo e hanno solo un ruolo consultivo.“(3)

Un ruolo diabolico

Se le persone sono state ingannate dalla pseudo-rivoluzione libica, supportato dai ben noti “rivoluzionari” Nicolas Sarkozy, Bernard-Botul-Henri Lévy e David Cameron, ecco chi potrebbe aprirgli gli occhi … Per la prima volta, il Qatar dichiara di aver partecipato alle operazioni sul campo, insieme ai ribelli libici. (…) Tre giorni dopo la proclamazione da parte del CNT della “liberazione” totale della Libia, i capi di stato maggiore dei paesi coinvolti militarmente in Libia si riuniscono per un incontro a Doha, in Qatar. In questa occasione, il Capo di Stato Maggiore del Qatar, il generale Hamad bin Ali al-Attiya, ha rivelato che centinaia di soldati del Qatar hanno partecipato alle operazioni militari a fianco dei ribelli in Libia. Apprendiamo che anche il presidente Omar al-Bashir del Sudan, ha fornito armi in quantità ai cosiddetti “ribelli” (4).

Sembra anche, scrive Ian Black, che sia il Qatar a guidare gli sforzi internazionali per addestrare l’esercito libico, raccogliendo le armi e integrando le unità ribelli, spesso autonome, nel nuovo esercito e nelle nuove istituzioni di sicurezza (…) e durante l’assalto finale contro il quartier generale di Gheddafi a Tripoli, alla fine di agosto, le forze speciali del Qatar erano in prima linea. Il Qatar ha anche fornito 400 milioni dollari ai ribelli, li ha aiutati ad esportare petrolio da Bengasi e a creare una stazione televisiva a Doha. (…) Per alcuni, la strategia dell’emiro è sostenere selettivamente le forze democratiche nel mondo arabo, in parte per migliorare la reputazione internazionale del paese, mentre distoglie l’attenzione dal Golfo dove le proteste anti-regime erano schiacciate in Bahrein e comprate in Arabia Saudita.

Parlando della “manipolazione della Lega Araba”, Robert Fisk spiega come il Qatar stia cercando di riprodurre lo scenario libico:

La Lega Araba – una delle organizzazioni più stupide, più impotenti e assurde nella storia del mondo arabo – improvvisamente si è trasformata da topo a leone, ruggendo che la Siria sarà sospesa mercoledì, a meno che non metterà fine alle violenze contro i manifestanti, ritira l’esercito delle città, non rilascia i prigionieri politici e comincia a parlare con l’opposizione. Damasco ha ruggito in risposta, che la Siria aveva già attuato il piano di pace della Lega – si può dubitare – che la decisione era “illegale e una violazione della Carta della Lega” (forse vero) e che l’eventuale sospensione della Siria, è stato un tentativo di “provocare l’intervento straniero in Siria, come è stato fatto in Libia.” Il Qatar – che è, con la sua al-Jazeera, il nemico attuale della Siria – era dietro il voto, promettendo e supplicando e, si dice, comprando alla grande quelli che potevano avere dei dubbi. La potenza del Qatar nel mondo arabo, ha cominciato a prendere una piega marcatamente imperiale. Con i suoi soldi e i suoi raid aerei, ha contribuito a far cadere il regime di Gheddafi. Ora, il Qatar è l’avanguardia della Lega araba contro la Siria. (…) E senza che un solo arabo voglia una guerra civile come quella della Libia, incendia la Siria. Inoltre, Leon Panetta, il capo della CIA, ha già escluso un coinvolgimento militare degli Stati Uniti.”(6)

Opportunismo

La diplomazia del dollaro influisce anche sulla cultura. Il denaro non ha odore, sulla base dell’assegno si può dire tutto e il suo contrario. Il Qatar rimarrà nella storia come una perversione, un generatore di corruzione a cui è apparentemente difficile resistere. Lena Lutaud ce ne dà un esempio:

Sua Eccellenza Mohamed al-Kuwari ha decorato i designer Jean Plantu e Amirouche Laidi, presidente del club Averroè, col premio “Doha Capitale Culturale Araba”. Stasera, l’Ambasciatore decorerà i poeti André Miquel, Bernard Noel e Adonis. Da Jack Lang a Jean Daniel, passando per Dominique Baudis, Edmonde Charles-Roux, Renaud Donnedieu de Vabres e Anne Roumanoff, un totale di 66 personaggi della cultura francese è stato premiato dal Qatar nel 2010. Tutti sono ripartiti con un assegno di 10.000 euro“. (7) Non si vede che il mondo bello. Si va oltre, con prestigiose istituzioni decentrare e l’aura scientifica che si esporta. Questo è il caso della Sorbona. Robert de Sorbon si rivolterebbe nella tomba! C’è anche un Louvre delocalizzato in Medio Oriente. I qatarioti possono guardare tra sbuffi di narghilè e il resto, i pezzi migliori, frutto della rapina che seguivano le spedizioni coloniali per portare la civiltà nei paesi barbari. Non c’è dubbio che l’Occidente, per i momento, punta su un Qatar seduto pigramente su un giacimento di gas, di cui ha bisogno. Ma arriverà un momento, quando fischierà la fine della ricreazione per tutti questi non-stati, che si accaparrerà, senza scrupoli, l’energia di cui ha bisogno. Per non aver puntato sulla conoscenza, per non mettere in pratica la democrazia alternata, gli arabi diventeranno una scoria della storia. Tra un migliaio di anni verrà ricordato, malgrado tutto, che Gheddafi aveva, con il suo credo “Zenga, Zenga“, una certa idea della “cha’ama“, la dignità che manca ai potentati scrocconi assisi sui tempi morti.

La parabola di Cristo dovrebbe essere spiegata all’emiro del Qatar…

Note

1. Hassan Moali La puissance surfaite du Qatar, El Watan, 15.11.11

2. Olivier Da Lage http://mapage.noos.fr/odalage/autres/qat.html

3. Georges Malbrunot: Le Qatar, le contrepied du printemps arabe Le Figaro 04 2011

4. http://www.mathaba.net/news/?x=629178

5. Ian Black http://www.guardian.co.uk/world/2011/oct/26/qatar-troops-lib

6. Robert Fisk: Ligue arabe: comment le Qatar tire les ficelles The Independent 17.11.2011

7. Lena Lutaud: L’offensive culturelle du Qatar, Le Figaro. 20.12.2010

(Traduzione di Alessandro Lattanzio http://aurorasito.wordpress.com)

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L’Intelligence turca informa i siriani del piano di assassinare Assad

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Fonte: MKERone 25 novembre 2011

Fonti siriane ben informate hanno rivelato che ufficiali turchi hanno detto ai loro omologhi siriani che gli statunitensi avevano un piano per assassinare il presidente siriano Bashar al-Assad. La fonte ha detto al sito web di al-Manar che i siriani sono stati informati di questo piano degli Stati Uniti nel marzo scorso. La caduta di al-Assad sarebbe una grande vittoria per gli USA. La fonte ha anche detto che i funzionari della amministrazione degli Stati Uniti avevano valutato l’importanza dell’eliminazione di al-Assad.

Eliot Abrams, Consigliere della Sicurezza Nazionale USA, ha pubblicato un articolo il 24 novembre, sulla rivista Foreign Policy, in cui parlava dell’assassinio, considerandolo uno dei possibili principali modi per porre fine al regime di al-Assad“, ha aggiunto.

Abrams ha dichiarato, nel suo articolo, che “La fine del regime di Assad sarebbe una grande vittoria per gli Stati Uniti… ospitando Hamas e altri gruppi palestinesi, ed essendo l’unico alleato arabo dell’Iran, il percorso attraverso il quale l’Iran invia armi ad Hezbollah” e ha indicato che il regime di al-Assad ha avuto un ruolo importante nell’assistere il campo contrario all’occupazione USA in Iraq, così come è un complice dell’uccisione e del ferimento di molti soldati statunitensi.

Scenario n. 2: L’uccisione di al-Assad

La fonte ha confermato le informazioni precedentemente rivelate dall’ex ministro libanese Michel Samaha, nella sua intervista ad al-Manar TV, in cui ha parlato di un piano franco-qatariota per assassinare il presidente al-Assad, aggiungendo che la fonte del piano erano gli Stati Uniti, ma l’esecuzione era francese e qatariota. Ha inoltre citato una delegazione statunitense che aveva visitato in precedenza la Siria, che avrebbe detto che “l’amministrazione statunitense stava lavorando su tre scenari, e gli eventi che hanno avuto luogo rientrano nello scenario numero 3, che parla di istigare l’opinione pubblica“. “Ci sono due altri scenari: il primo è una guerra lampo e il secondo è uccidere il presidente“, ha aggiunto la fonte. “La situazione si trasformerebbe in un disastro, se tali scenari venissero stati attuati, e una guerra civile potrebbe scoppiare, questa è probabilmente la loro intenzione“, ha continuato.

Noureddin: Mirare alla Siria è mirare al regime

Da parte sua, il giornalista libanese ed esperto di questioni turche, Dr. Mohammad Noureddin, ha detto che queste informazioni sono molto probabilmente vere, se sono state consegnati ai siriani prima del 10 Aprile, perché allora i rapporti tra i due paesi erano buoni. In un’intervista con il sito web di al-Manar, il Dott. Noureddin ha fatto notare che la dichiarazione del ministro degli esteri turco, Ahmet Devutoglou, che aveva dato una conferenza stampa il 5 novembre, in cui anticipava il colpo di stato militare in Siria, dicendo: “Anche noi siamo in questa regione, e la nostra intelligence è molto forte“. L’analista ha aggiunto che “i turchi hanno questo approccio, lo stanno cercando e vi lavorano giorno e notte.”

“Abbiamo assistito a un’escalation dalla Lega Araba, che è giunta a sospendere l’appartenenza della Siria alla Lega, imponendole sanzioni economiche… questo perché l’opzione militare è fuori questione, in quanto è inefficace”, ha detto il dott. Noureddin. Poi ha detto che l’imminente nuova fase sarà caratterizzata da pressioni politiche ed economiche accompagnate con il supporto a qualsiasi movimento che intenda cacciare il regime dall’interno, il dott. Noureddin ha inoltre chiarito, che i turchi hanno rivelato questo in una dichiarazione del loro ministro degli esteri, che aveva annunciato che il suo paese aveva deliberato con la Lega Araba, prima di rilasciare l’ultima decisione sulla sospensione della Siria. “Stanno ancora coordinando su tutti i passi futuri che verranno intrapresi riguardo la Siria“, ha aggiunto.

Mentre si ritiene che la posizione araba sia un aiuto alla Turchia, per aver trovato un partner nella sua ostilità al regime siriano, Noureddin ha dichiarato: “E’ evidente che la crisi in Siria non è legata alle riforme … dopo le prese di posizione araba, francese e turca, è ovvio che l’obiettivo è il regime, e tutti i sistemi ad esso correlati, come Iran e Hezbollah. Abbattere la Siria significa abbattere tutti questi sistemi, cosa non facile, a meno che un evento imprevisto si verifichi.

La scena regionale indica delle guerre

L’analisi del dr. Noureddin può essere sostenuta. Il giornalista arabo di primo piano, Abdul Bari Atwan (del quotidiano al-Quds al-Arabi) ritiene che la regione, oggi, affronti una feroce guerra regionale che potrebbe cambiare la mappa politica, così come quella demografica. Ritiene che “l‘obiettivo di questa guerra sia cambiare due regimi che ancora resistono al sistema“, indicando la Siria e l’Iran.

In un suo articolo pubblicato in arabo, Atwan ha affermato che “la decisione dei ministri degli esteri arabi, che è stata presa in fretta, apre la porta alle interferenze militari straniere in Siria, con il pretesto di proteggere il popolo siriano. Negli ultimi 20 anni, il ruolo della Lega Araba si è limitato a fornire una copertura araba, a prescindere dalla sua legittimità o meno, a questi interventi. Questo ruolo è iniziato in Iraq, poi in Libia e la Siria sembra essere la terza stazione… e solo Dio e gli Stati Uniti sanno chi sarà il quarto.” Questa stessa analisi è stata fatta dall’analista politico libanese Nasri as-Sayegh, che ha ritenuto che “la scena regionale indica l’incubo della guerra“.

In un suo articolo pubblicato in arabo sul giornale libanese as-Safir, col titolo “chi viene prima … la rivoluzione siriana o la Resistenza libanese” As-Sayegh ha dichiarato:

– Una guerra civile in Siria.

– Una guerra feroce contro il regime da parte di forze armate protette dalle potenze regionali e armato da quelle internazionali.

– Guerra politica che potrebbe richiedere un qualche tipo di intervento di sicurezza e militare, accompagnato da un assedio economico.

– Il trasferimento della guerra dall’interno della Siria alla regione: il Libano sarà probabilmente parte di questa, nei suoi Sud e Nord, e la posizione dell’UNIFIL sarà suddivisa in base alla posizione della nazionalità di ogni brigata.

– La violenza si espanderà fino a raggiungere il Golfo, che è significativamente influenzata dalle dichiarazioni anti-nucleari dell’Iran. 

Fonte: al-Manar

(Traduzione di Alessandro Lattanzio http://aurorasito.wordpress.com)

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La porta della luce

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Brevettato il dispositivo che permetterà il passaggio delle informazioni quantistiche nei pc del futuro. La scoperta, realizzata da ricercatori dell’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Consiglio nazionale delle ricerche (Ifn-Cnr), La Sapienza Università di Roma e Politecnico di Milano, sarà presentata sulla rivista Nature Communications

Si chiama Cnot ed è il cuore dell’informazione quantistica, la porta logica del computer del futuro che per funzionare userà i fotoni, cioè la luce invece degli elettroni. A realizzarla una collaborazione fra l’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Consiglio nazionale delle ricerche (Ifn-Cnr), il gruppo di ottica quantistica della Sapienza e il Politecnico di Milano.

Il dispositivo, di cui è stato depositato il brevetto, è costituito da un chip di vetro delle dimensioni di un paio di centimetri sul quale viene scritto un circuito integrato che guida la luce rendendo possibile il passaggio dei quanti di informazione quantistica (qu-bit). La fabbricazione della porta logica nel vetro è stata realizzata grazie a una tecnica innovativa che utilizza impulsi laser di brevissima durata (circa 100 milionesimi di miliardesimi di secondo) come “penna ottica” per scrivere direttamente nel chip i circuiti ottici necessari per l’elaborazione dei qubit.

“Questa sofisticata tecnologia – afferma Roberto Osellame, primo ricercatore dell’Ifn-Cnr – permette di realizzare circuiti ottici a sviluppo tridimensionale, non ottenibili con altre tecnologie, che consentono di implementare architetture innovative e di integrare in un singolo dispositivo sistemi di complessità sempre maggiore”. Viene così realizzato un componente essenziale e miniaturizzato dell’hardware dei futuri computer quantistici, che saranno caratterizzati dalla capacità di effettuare con grande velocità di calcolo operazioni di complessità inaccessibile ai computer classici.

“La manipolazione dell’informazione quantistica attraverso i fotoni – afferma Paolo Mataloni, docente di ottica quantistica alla Sapienza – rappresenta un’importante sfida tecnologica poiché richiede la capacità di controllare ciascun sistema quantistico con estrema precisione. A questo scopo sono necessari sistemi ottici di crescente complessità, formati da un grande numero di interferometri, che rappresentano l’elemento base della tecnologia ottica. L’uso di sistemi miniaturizzati integrati in guida d’onda permette di lavorare con perfetta stabilità di fase, con un enorme vantaggio rispetto ai sistemi tradizionali basati su specchi e altri elementi ottici convenzionali”.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Communications, apre prospettive promettenti non solo nel campo dell’informazione e della computazione quantistica ma anche in quello della simulazione quantistica: questi dispositivi infatti possono essere utilizzati per simulare in laboratorio il comportamento di determinati fenomeni fisici difficilmente accessibili alla sperimentazione diretta.

Le implicazioni della simulazione quantistica vanno dallo studio del trasporto e transizioni di fase in sistemi a stato solido, allo studio della dinamica del processo di fotosintesi, alla simulazione delle interazioni fra le particelle elementari.

“Utilizzando la tecnologia integrata – sostiene Fabio Sciarrino del team di ricerca e docente di Informazione quantistica – abbiamo molto recentemente studiato il moto di due particelle, bosoni o fermioni, in un reticolo: un fenomeno denominato ‘quantum walk’. Questo è un primo passo verso scenari più complessi, il nostro obiettivo è quello di investigare entro pochi anni problemi che non siano simulabili con un computer di tipo classico”.

La ricerca è stata finanziata da un progetto nazionale Prin del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (Circuiti integrati per l’informazione quantistica) e dal progetto europeo Quasar (Quantum states: analysis and realizations).

Roma, 29 novembre 2011

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Il BRICS in aiuto dell’Europa: Tiberio Graziani intervistato da RT

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Oggi 29 novembre 2011 la televisione satellitare russa in lingua inglese RT ha trasmesso un servizio dal titolo “Eastern Promise”, all’interno del quale sono stati proposti gl’interventi d’alcuni esperti, tra cui quello di Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”. Proponiamo di seguito il video del servizio, concernente i possibili investimenti strategici dei BRICS in Europa, e la traduzione della sintesi pubblicata da RT sul proprio sito.

 

Mentre le economie occidentali annaspano, l’Oriente ha visto una rapida crescita finanziaria. La presenza della Cina in Europa si può sentire più che mai, con Pechino intenta a fare investimenti strategici, sebbene sia ancora cauta sull’opportunità di comprare il debito del continente.
Con l’attuale turbolenza economica, non c’è momento migliore per paesi come la Cina per strappare accordi come quello per la recente acquisizione del noto marchio italiano della moda “Cerruti” da parte d’un venditore di vestiti di lusso cinese, proprietà del gruppo commerciale d’Hong Kong “Li&Fung”.
“La Cina è interessata ad investire in Italia, e nei paesi europei in generale. Credo sia una buona opportunità”, dichiara Tiberio Graziani, analista della rivista trimestrale “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”.
Non c’è solo la Cina a fare affari: per i paesi la cui economia gira bene, comprare i patrimoni europei è un ottimo investimento. Mentre l’Occidente annaspa, è il gruppo emergente BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) a portarsi in testa.
“Questo può essere il momento a cui si guarderà indietro e si dirà: ecco quando i mercati emergenti ebbero la loro opportunità d’essere attori più grossi, e potenze più grosse nel mondo”, crede il cronista economico del “Wall Street Journal” Sudeep Reddy.
Ma se gli affari cinesi danno prova di grande competizione, la Cina ha mostrato cautela quando si è trattato d’acquistare il debito europeo. Vuole piuttosto partecipare in grandi progetti infrastrutturali in Europa e negli USA – e non solo come appaltatore, ma anche investitore, sviluppatore ed operatore. Così ha sostenuto Lou Jiwei, dirigente del fondo sovrano cinese, in un articolo domenicale sul “Financial Times”.
“Al CIC – ha argomentato – crediamo che un simile investimento, guidato dai principi commerciali, offra l’opportunità d’una soluzione vantaggiosa per tutta”.
Liu Baocheng, professore all’Università degli Affari ed Economia Internazionali, afferma che la Cina non pomperà denaro alla cieca nelle economie in difficoltà, senza avere parola su come saranno utilizzati.
“La Cina dovrebbe vederlo come un investimento, non un aiuto finanziario. L’investimento dovrebbe indirizzarsi verso i cespiti di valore, per aiutare le industrie, piuttosto che funzionare da assegno in bianco”.
Al crescere degl’investimenti cinesi nelle compagnie ed infrastrutture occidentali, crescono anche il controllo e l’influenza della Cina, non solo nella moda, ma nell’intera economia europea. Una delegazione di mercanti ed investitori cinesi visiterà l’Europa il prossimo anno: sono estremamente probabili ulteriori investimenti.
“L’aggregazione geoeconomica che chiamiamo BRICS può essere un interlocutore molto interessante per superare l’attuale crisi finanziaria”, si augura Tiberio Graziani.
Mentre la crisi continua a riarrangiare le avanguardie economie sulla scena economica, le economie emergenti come la Cina cercano di mantenersi saldamente sotto il riflettore.

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Dopo la “Primavera”. Dalle rivolte arabe ai nuovi assetti globali

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Presentiamo di seguito l’intervento pronunciato da Giacomo Guarini [primo a sinistra nella foto], ricercatore presso l’IsAG, alla conferenza “Dopo la Primavera: dalle rivolte arabe ai nuovi assetti globali”, svoltasi a Fontenuova (RM) il 26 novembre scorso presso la Biblioteca Provinciale. L’evento è stato organizzato dall’associazione culturale Millennium in collaborazione con l’IsAG e Fuoco Edizioni.

 

Buonasera a tutti,

 

ringrazio anzitutto gli organizzatori per avermi dato possibilità di essere qui con voi a discutere della tematica proposta: lo sviluppo delle cosiddette Primavere arabe e i nuovi assetti globali che ne derivano.

Proverò a dividere la mia esposizione in tre parti:

 

– una panoramica descrittiva delle rivolte nell’area mediterranea, che è quella che ha goduto di grande attenzione mediatica in ‘Occidente’ con i rivolgimenti in Tunisia ed Egitto prima, i disordini libici cui ha fatto seguito il ben noto intervento militare esterno nel paese, la crisi siriana che va evolvendosi in forme sempre più acute;

– cenni a quelle ‘Primavere’ quasi del tutto ignorate dalle nostre parti, che hanno coinvolto i paesi della penisola araba;

  • cenni ai nuovi possibili assetti regionali e globali, anche alla luce dell’atteggiamento che le grandi potenze vanno assumendo nell’area.

Una prima precisazione: la decisione di trattare separatamente i rivolgimenti in corso nell’area mediterranea e nella penisola araba non scaturisce da mero criterio geografico ma nasce da più profonde implicazioni. Di fatto, le rivolte dell’area mediterranea sono state oggetto di grande attenzione mediatica e incisive risposte politiche; i rivolgimenti della penisola non hanno invece avuto pressoché alcuna eco significativa né sul piano mediatico né sul piano politico internazionale.

 

Primavere” mediterranee

 

Comincio dunque con alcuni cenni agli sviluppi delle rivolte nei paesi mediterranei, trattando di Tunisia, Egitto e Siria (il caso libico sarà di specifica pertinenza del correlatore Di Ernesto).

 

Tunisia: è stato il primo paese nel quale il malcontento popolare è esploso in forme incontenibili. Estesosi dall’entroterra verso la capitale costiera Tunisi, renderà vane le violente repressioni di Ben Alì, presidente del paese dal 1987, che sarà infine costretto alla fuga in Arabia Saudita. Alla sua dipartita seguiranno ancora scontri di piazza a più riprese, dovuti soprattutto all’insofferenza del popolo per governi provvisori caratterizzati ancora da una forte presenza di membri del vecchio establishment. Nuove elezioni avranno luogo il 23 Ottobre, inizialmente previste per la fine di Luglio.
L’esito elettorale porterà ad una vittoria quasi scontata del partito definito “islamico-moderato” Ennahda che conquisterà 90 seggi su 217 con circa il 41% delle preferenze espresse. Rachid Gannouchi è il leader della forza politica uscita vincitrice dalla competizione.

Il paese all’indomani delle competizioni elettorali: Gannouchi sembrerebbe al momento assumere funzione equilibratrice fra le istanze più radicalmente islamiste e quelle più laiche del paese. Da un lato ha riconosciuto legittimità politica alla formazione islamista radicale Ettahir, la cui partecipazione alla competizione elettorale era stata esclusa dal governo di transizione. D’altro canto, l’assetto istituzionale si è consolidato sulla base del legame con partiti di estrazione laica quali l’Ettakatol e il Congresso per la Repubblica (in merito alla designazione rispettivamente del presidente dell’Assemblea costituente e del Capo dello Stato ad interim) e di rilievo è stato l’ammiccare al modello turco ed alla figura di Erdoğan, la cui formazione politica richiama chiaramente le radici islamiche ma ripudia quello che definiremmo “fondamentalismo”. Indicativo della volontà di Gannouchi di emergere come leader moderato dalla competizione è stato anche l’aver posto l’accento sulla grande partecipazione politica femminile nelle stesse file di Ennhada, nonché il ripudio di provvedimenti proibizionisti nella vita civile ispirati a ragioni confessionali.

 

Egitto: l’11 Febbraio Mubarak, dopo aver tentato alcune riforme cosmetiche in seno all’establishment, si vedrà costretto a lasciare il potere in seguito ad indomabili proteste, nonostante – anche qui – l’intervento di forze di repressione governative e para-governative. Il potere è delegato provvisoriamente al Consiglio supremo delle forze armate. Attualmente, anche a seguito dell’approvazione di modifiche costituzionali, l’art. 56 della costituzione provvisoria prevede la prerogativa eccezionale per le stesse forze armate di adottare atti normativi. E possiamo dire che proprio il potere del Consiglio militare rappresenta ancora oggi un forte fattore di impedimento alla pacificazione sociale (non l’unico, per la verità, considerando i casi di violenza inter-religiosa che continuano a manifestarsi nel paese) dal momento che Piazza Tahrir al Cairo, assurta a simbolo della mobilitazione popolare contro Mubarak, ha continuato anche dopo la caduta dello stesso ad essere popolata in segno di protesta e proprio in questi giorni assistiamo a manifestazioni ‘oceaniche’ come quelle di Febbraio. Elezioni non hanno ancora avuto luogo (il primo turno si svolgerà il 28 Novembre), ma il fermento socio-politico di questi mesi non ha fatto che dimostrare la grande forza di cui gode un movimento come quello dei Fratelli Musulmani, confermata anche dalla capacità di mobilitazione nelle proteste di cui abbiamo fatto cenno. Dovrà dunque passare del tempo, prima di poter assistere ad una più chiara ridefinizione dei rapporti di forza fra i soggetti politico-sociali provenienti “dal basso” (presso i quali, le componenti islamiste assumono grande peso) e “dall’alto” (il Consiglio militare, la cui presenza nelle istituzioni è ancora forte).

 

I rivolgimenti in Egitto e Tunisia, elementi comuni di riflessione:

 

Abbiamo assistito alla caduta di regimi pluridecennali, autocratici, ‘laici’ (1), appoggiati dall’ ‘Occidente’.

– In entrambi i paesi forti spinte alla rivolta sono nate da malcontento sociale. Disoccupazione, aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (fenomeno per il quale si è diffusamente denunciata l’influenza delle speculazioni finanziarie), cleptocrazia sono stati tutti elementi che hanno giocato un importante ruolo come scintilla dei fenomeni di destabilizzazione.

– La caduta dei regimi ha lasciato il posto ad un fermento politico dalle forti connotazioni religiose, già carsicamente radicato nel tessuto sociale. Un elemento – la componente islamista – che pure se in forme diverse ritroveremo anche nella crisi siriana di cui andremo a parlare e in quella libica di cui dirà Di Ernesto.

– Si è detto come i governi di Ben Alì e Mubarak godessero di solidi rapporti con i paesi occidentali, per quanto le stesse relazioni fossero soggette ad alti e bassi. Tuttavia non può tacersi il ruolo che ha giocato nelle rivolte un fattore controverso quale la presenza di attivisti ed ong caratterizzati da legami diretti o indiretti con l’ ‘Occidente’ e con gli USA in particolare. Si pensi a quelle rivelazioni di Wikileaks diffuse nei giorni dell’infiammare delle proteste egiziane, le quali facevano riferimento a legami fra diplomazia USA e attivisti egiziani volti a favorire un regime change nel paese. Vi sarebbe molto altro da dire su questi legami, per alleggerire la trattazione preferisco farlo per immagini più che per parole:

Egiziani dissidenti accolti a Washington presso la Freedom House (2008)

Attivisti per i diritti umani egiziani accolti presso il Dipartimento di Stato (2009)

Simbolo di Otpor, organizzazione serba per i diritti civili, sostenuta e finanziata da Freedom House il cui ruolo è stato determinante nella caduta del presidente Milosevic

Nelle proteste egiziane, il movimento 6 Aprile fa largo uso di simboli che richiamano Otpor; esponenti dell’organiz- zazione stessa e fonti giornalistiche hanno fatto riferimento agli intensi legami fra le due organizzazioni

 

 

I legami diretti o indiretti fra movimenti ed ong di protesta e governo USA sembrano dunque rispettare la strategia delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, applicata in particolare nei Balcani, nell’Est Europa ed in Centro Asia e consistente nel promuovere cambi di regime favorevoli a Washington proprio mediante il massiccio finanziamento di gruppi e movimenti locali finalizzati al sovvertimento non-violento di governi autocratici o presunti tali. Certamente vi è nel contesto ‘egizio-tunisino’ una grande anomalia, data dal fatto che qui non si è agito contro governi ostili agli USA, tutt’altro. Tenteremo in conclusione di accennare ai possibili motivi di simili scelte strategiche.

 

Siria: rappresenta sicuramente lo scenario più delicato al momento nell’area mediterranea, suscettibile di brusche e sconvolgenti evoluzioni nel breve periodo. Si è cominciato a parlare di Siria in relazione alle rivolte arabe nel mese di Marzo, con i primi disordini di Deraa. Per lungo tempo i principali media panarabi (Al-Jazeera e Al-Arabiya) ed occidentali hanno esclusivamente trattato delle violente repressioni governative, spesso in verità anche riportando notizie e testimonianze audiovisive di dubbia – quando non nulla – attendibilità. Con questo non si vuole negare la violenza delle repressioni governative, soprattutto in particolari frangenti, ma si vuole mettere in luce un aspetto della crisi parecchio trascurato dai media nel corso dei mesi e solo ora parzialmente emerso. A fare da contraltare alle notizie di violenze arbitrarie su pacifici manifestanti, infatti, vi è la versione del governo siriano, che ha denunciato sin dall’inizio un “complotto dall’estero” e l’azione di terroristi autori di attentati contro i militari e contro i civili. Diverse testimonianze audiovisive sono state riportate al riguardo dalle tv di Stato. Negli ultimi giorni, invece sta acquisendo certa visibilità l’ “Esercito Siriano Libero”, che ha rivendicato diversi attentati a luoghi di rilevanza politica e militare. Per simili fatti, dunque, anche la stampa occidentale è giunta infine a fare riferimento esplicito alla realtà di una guerra civile nel paese. Da rilevare anche che il governo ha proposto e promulgato diversi provvedimenti di riforma sin dall’inizio della crisi (apertura del web, riforme istituzionali finalizzate al pluripartitismo, amnistia per gli autori di disordini, fine dello stato di emergenza in vigore da decenni, etc.) ma questi non sono mai stati posti alla base di un dialogo fra le parti, a causa del rifiuto pregiudiziale dei ‘ribelli’ che hanno presto alzato la posta, chiedendo non più determinate riforme, ma un immediato ed incondizionato regime change. Ultimo elemento che vorrei mettere in luce è il sostanziale sostegno di cui Assad sembra di fatto godere presso larghe fasce della popolazione e – elemento degno di nota – presso le minoranze religiose, fra cui quella cristiana. Il timore espresso da diversi esponenti di quest’ultima è che l’attuale pace confessionale e rispetto religioso garantiti politicamente, verrebbero meno a causa del forte radicamento islamista degli oppositori governativi.

La crisi siriana nel contesto internazionale: la crisi in corso vede il governo in serie difficoltà e semi-isolato internazionalmente. Con accuse basate su una condotta repressiva del governo contro le istanze del popolo, le prime dure critiche sono arrivate dall’ ‘Occidente’. La Turchia – negli ultimi tempi impegnata in un riavvicinamento a Damasco, sancito da importanti forme di cooperazione strategica – ha avuto negli ultimi mesi un atteggiamento di crescente ostilità, sfociato nella minaccia di intervento ‘umanitario’ degli scorsi giorni, per di più accolta favorevolmente da esponenti dei Fratelli Musulmani siriani, anche qui in opposizione al governo costituito. Abbiamo poi la Lega Araba, che si è visto aver agito politicamente contro la Siria con la sospensione della membership nell’organizzazione ed elaborando sanzioni da applicare. A difendere il governo di Assad resta la Russia, per la quale la Siria ha una funzione strategica troppo importante come sbocco sempre ricercato nei “mari caldi”, dal momento che le è garantito l’accesso al porto di Tartus. Anche la Cina avrebbe interesse a difendere il paese da un eventuale intervento ‘umanitario’, soprattutto dopo che la risoluzione ONU 1973 per la Libia è stata interpretata a puro arbitrio delle forze intervenute. Per ora però le sue reazioni sono parse abbastanza tiepide. L’Iran resta infine uno strenuo difensore della Siria, trovando in essa un alleato vitale, un punto di riferimento fondamentale nella regione, come lo è d’altronde anche per la milizia islamico-sciita libanese di Hezbollah, nonché come elemento di raccordo fra quest’ultima e lo stesso Iran.

 

Le ‘Primavere’ ignorate: la penisola araba

 

Anche la penisola araba è stato centro di disordini di non indifferente portata, eppure questi sono stati sistematicamente ignorati dai nostri media, a parte forse certi riferimenti allo Yemen. In Arabia Saudita vi sono state tensioni soprattutto nella parte orientale del paese, a maggioranza sciita (della stessa confessione religiosa dell’Iran, a differenza dell’establishment saudita radicato nella tradizione del sunnismo wahabita) e particolarmente tesa è stata ed è la situazione in Bahrein; è noto a chi ha seguito con più attenzione i fenomeni in corso nel mondo arabo che il governo saudita è intervenuto con carri armati nella piccola isola per facilitare la repressione delle proteste pacifiche di civili disarmati. Da rilevare che in questi due scenari la rivolta coinvolge sostanzialmente la popolazione di confessione sciita in paesi dove l’assetto istituzionale è di forte ispirazione sunnita e l’orientamento confessionale si riflette anche nella vita civile e sociale, causando forti discriminazioni. La Repubblica Islamica dell’Iran ha fortemente simpatizzato con simili proteste, per comunanza confessionale, ma anche perché si tratta di spine nel fianco del regime saudita e dei suoi alleati, con i quali l’Iran è in competizione per l’egemonia regionale.

Occidente’ e monarchie del Golfo: un progetto strategico comune? Perché, tuttavia, queste proteste non hanno avuto la stessa risonanza ed impatto di quelle ‘mediterranee’ precedentemente trattate? Proviamo a rispondere. Le cosiddetta petro-monarchie del Golfo costituiscono un fondamentale serbatoio energetico per l’ ‘occidente’, USA in primis e per questi ultimi vi è anche una valenza strategica fondamentale. Si pensi alle varie basi militari USA ivi dislocate (si parla di più di 40.000 truppe statunitensi presenti nel Golfo), le quali hanno anche una importante funzione di accerchiamento dell’Iran, nemico comune agli USA e ai paesi peninsulari. Insomma, simili esigenze di grande interesse strategico hanno evidentemente portato ad allontanare l’attenzione dalle rivolte in corso in questi scenari; tuttavia dobbiamo far riferimento anche ad altre esigenze strategiche di più immediata contingenza e –aggiungo – cruciali per comprendere l’evolvere dei sommovimenti in corso. Mi riferisco ad una sostanziale convergenza strategica – pur fra inevitabili divergenze di second’ordine – fra i più influenti paesi dell’area (Arabia Saudita e Qatar in primis) da un lato e gli USA (seguiti a ruota dagli altri paesi occidentali) dall’altro, nel promuovere la caduta dei governi costituiti nel Mediterraneo o quantomeno nel sostenere le forze politiche successivamente insediatesi. L’aiuto sostanziale di questi paesi arabi in tal senso si è avuto su più fronti:

– Copertura mediatica: Al-Jazeera ed Al-Arabiya sono due emittenti rispettivamente facenti capo all’emiro del Qatar e alla famiglia dei Saud, al potere in Arabia Saudita (anche se la sede dell’emittente è negli E.A.U.). E’ noto ormai come simili emittenti abbiano letteralmente taciuto i pur rilevanti sommovimenti in corso nella penisola araba mentre abbiano intensamente sponsorizzato quelli nell’area mediterranea, arrivando spesso a storture – quando non a vere e proprie menzogne – per promuovere la caduta dei regimi mediterranei.

– Sostegno finanziario: concretizzatosi in più forme, soprattutto da parte saudita e qatariota; si pensi all’impulso agli investimenti e ai prestiti al ‘nuovo’ Egitto e alla ‘nuova’ Libia. Ma meriterebbe una trattazione a parte la questione del sostegno agli stessi movimenti politico-religiosi sunniti operanti nell’area. Per inciso, si noti come massicci fondi siano stati invece stanziati per finalità inverse (garantire la sopravvivenza dei regimi politici al potere) nel Golfo ed in paesi alleati. L’Arabia Saudita, ad esempio, si è impegnata a stanziare una quantità enorme di denaro (130 miliardi di dollari, pari al 36% del suo pil) per promuovere riforme sociali interne e salvare sé stessa, ma anche ingenti risorse destinate ai governi amici destabilizzati dalle rivolte grazie al Consiglio di Cooperazione del Golfo.

– Appoggio militare e para-militare: Qatar e E.A.U. hanno dato il loro sostegno all’operazione militare in Libia. In particolare il Qatar ha anche lavorato nelle operazioni più delicate, quale la dislocazione di truppe speciali a terra che ha permesso la presa di Tripoli. Riguardo alla destabilizzazione in corso in Siria, anche analisti occidentali – tutt’altro che sospetti di simpatie baathiste – ipotizzano il sostegno indiretto dei sauditi ai gruppi armati antigovernativi, contando sull’appoggio di Hariri dal Libano e sulle frontiere porose dell’Iraq, nonché sulla collaborazione dell’alleato giordano.

  • Attività politica: la Lega Araba ha mostrato piena ostilità nei confronti di Gheddafi ed Assad mentre – ovviamente – nessun provvedimento di sanzione è stato preso nei confronti dei governi della penisola a causa delle repressioni attuate (in base ai rapporti di forza in seno alla Lega, la cosa avrebbe significato accusare sé stessi).

Conclusioni

 

Abbiamo visto come i sommovimenti nell’area mediterranea (Egitto, Tunisia, Libia e Siria) stiano vedendo come attori protagonisti in primo luogo forze islamiste (tendenti all’oltranzismo o a posizioni moderate a seconda dei luoghi); fra queste, i Fratelli Musulmani parrebbero rappresentare la forza più dirompente, che emerge in paesi ‘laici’ dove aveva sempre subìto forti forme di contenimento o effettiva repressione.

I paesi del Golfo hanno dato un sostanziale sostegno a simili fermenti, scommettendo sul forte ascendente politico che potranno avere sulle forze politiche emergenti ispirate all’islamismo sunnita. Hanno invece taciuto, contenuto e represso ogni forma di dissenso nella propria area di riferimento.

I paesi occidentali, USA in testa, hanno contribuito alla caduta di regimi pure ad essi legati (Tunisia, Egitto) e promosso parimenti un cambio politico di regimi ad essi ostili (Libia, Siria in corso).

La domanda che sorge spontanea è: perché l’egemone USA ha assecondato un generale stravolgimento degli assetti mediterranei, anche quando questo ha coinvolto governi tutto sommato affidabili e ad essi legati?

Diverse risposte possono provarsi a dare sulle finalità di tale scelta e possiamo individuare scopi strategici a valenza regionale e globale:

1. A livello regionale: l’appoggio alle “Primavere” ha portato alla caduta di regimi ‘fidati’, i quali però erano causa di forte malcontento presso la popolazione e di certa preoccupazione presso gli stessi USA (vedi i crescenti legami con la Cina). La loro caduta ha portato ad un rilancio d’immagine, con il quale gli USA hanno potuto presentarsi come sensibili alle istanze democratiche delle popolazioni; l’instabilità ivi creatasi ha inoltre permesso di rendere le frontiere di Tunisia ed Egitto con la Libia ancora più porose, favorendo operazioni militari contro le forze di Gheddafi nel conflitto libico; infine il ‘caos’ propagatosi ha irrimediabilmente turbato importanti processi di autonoma integrazione mediterranea che rischiavano di estromettere pericolosamente gli stessi USA dall’area (partnership italo-libica, fronte Roma-Ankara-Mosca, progetto di gasdotto Iran-Iraq-Siria).

2. La particolarità della crisi siriana: abbiamo visto in queste settimane la Siria e l’Iran nel mirino. La caduta del regime di Assad rappresenterebbe nell’area sicuramente un evento dagli effetti imprevedibili. E tuttavia rappresenterebbe un colpo fortissimo inferto all’Iran (di cui è saldo alleato) e di un certo fastidio anche per la Russia. Inoltre – come accennato – è proprio la possibilità che forze sunnite islamiste rimpiazzino il Baath al potere ad allettare le mire dei sauditi e dei loro alleati nella lotta regionale per l’egemonia contro il bastione sciita di Persia. La caduta del regime siriano è in effetti un obiettivo più vicino e probabile che non lo scontro diretto con l’Iran, il quale rappresenta in ogni caso il nemico ultimo nell’area per sauditi e statunitensi (2).

3. Finalità a valenza globale: i fenomeni di destabilizzazione in corso compromettono sicuramente la forza della penetrazione di nuovi attori globali emergenti, Cina in primis, nel Vicino Oriente e possono collocarsi in un contesto di ricercata ostruzione da parte USA dell’accesso alle più importanti aree strategiche del globo ai nuovi competitori internazionali; si veda l’attività del comando militare statunitense per l’Africa (Africom), per la quale anche diversi analisti occidentali sottolineano l’importante funzione di contenimento e sbarramento della emergente presenza cinese nel continente africano; così come i recenti moniti di Obama alla Cina, durante la sua visita in Australia, in merito alla presenza nel Pacifico.

Abbiamo visto come il cerchio si stia stringendo sul grande nemico iraniano con pressioni contestuali e ancor più pericolose sull’alleato siriano. L’indebolimento della potenza iraniana potrebbe dare nei progetti USA linfa vitale alla loro penetrazione eurasiatica, a scapito grandi rivali continentali cinese e russo. La porta per una simile avanzata sarebbe costituita dall’area centroasiatica; identificata dal grande stratega statunitense Brzezinski (attuale consigliere dell’amministrazione Obama) come “Balcani eurasiatici”. Trattasi di un’area ricca di risorse e tuttavia lungi dall’essere sotto pieno controllo delle grandi potenze continentali (Russia e Cina, appunto), nonché polveriera di conflitti etnico-religiosi suscettibili di esplosione (non a caso è stata creata un’organizzazione di cooperazione – quella di Shanghai – che ha come primo scopo la sicurezza e la stabilità dell’area). In un simile scenario, un forte impegno degli USA volto a far leva sul fattore islamista nonché su frizioni etniche, potrebbe portare a creare una vasta zona di frattura nell’area centroasiatica, in grado di colpire duramente la stabilità dei due giganti asiatici anche perché suscettibile di facili sconfinamenti entro i loro confini interni (vedi le aree di crisi russa a considerevole presenza musulmana e lo Xinjiang cinese). Una lunga fascia di destabilizzazione che darebbe dunque non pochi pensieri ai grandi rivali eurasiatici degli USA.

In ogni caso, tornando al contingente e al nostro scenario di riferimento, vi sono al momento l’incognita siriana e quella iraniana. Un intervento armato in Iran vorrebbe dire scatenare un conflitto di imprevedibili proporzioni e conseguenze ma in effetti i recenti rumors su di un intervento militare sono stati talmente amplificati da far pensare più ad una volontà di fare pressione su Cina e Russia che non a reale volontà bellica, almeno nel breve periodo. Tuttavia anche l’intervento in Siria sarebbe probabilmente foriero di conseguenze e reazioni tutt’altro che circoscritte entro i suoi confini come – in un certo senso – può essere stato nel caso libico; non ha torto Assad quando paventa conseguenze disastrose per tutto il Vicino Oriente in caso di attacco al proprio paese. Vi è da constatare che l’establishment occidentale ha dimostrato in questi mesi tutto fuorché senso della misura e quindi un conflitto a breve, soprattutto in Siria, non può totalmente escludersi, tanto più se sulla questione siriana ci si potrà avvalere di una ‘procura’ turca. Determinante sarà la reazione di Russia e Cina, che già hanno fatto abortire tentativi di risoluzione al riguardo in sede ONU. I due paesi hanno spesso dimostrato molta cautela, evitando di fare “muro contro muro” con gli USA su questioni che non riguardavano le proprie immediate pertinenze territoriali o interessi vitali. La Cina, in particolare, cerca di potenziare al massimo il proprio sviluppo economico, rimandando nel tempo uno sforzo più strettamente politico a livello internazionale. Sinora, l’atteggiamento di Pechino è stato dunque di attesa: si è ritenuto da parte sua non proficuo sviluppare contrapposizioni frontali con gli USA, sulla base del fatto che la superpotenza è in fase di declino evidente. Inutile dunque rispondere in maniera frontale, quando il tempo potrà da solo portare ulteriori frutti amari al grande rivale americano.

Tuttavia, si fa vicino il momento in cui diventa necessario che un pur saggio atteggiamento attendista venga a confrontarsi in misura politicamente più assertiva contro l’aggressivo attivismo militare, politico e finanziario della potenza egemone. Sulla questione siriana la Russia sembra pronta a questo e ha già dato dei segnali con una serie di atti politici e ‘para-politici’. Vedremo allora quanto sarà forte la volontà degli USA e dei paesi ostili alla Siria (Turchia in primis) ad intraprendere nuove tragiche avventure belliche nella regione – o anche solo ad alzare in maniera indiretta il livello di destabilizzazione e conflittualità interne – e se nel caso la Cina e la Russia saranno disposte a lasciare di nuovo carta bianca alla sclerotica aggressività di una potenza incapace di accettare la crisi strutturale che l’attraversa e il conseguente declino.

 

NOTE

  1. Simili contesti culturali sono caratterizzati da un forte permeare dell’espressione religiosa nella vita civile e sociale. Per questo, se si parla di “regime laico”, non si intende di certo un modello istituzionalmente ispirato al laicismo francese, ma in ogni caso delle realtà politiche che hanno contenuto – quando non violentemente soppresso – le espressioni politico-sociali più radicalmente legate all’ispirazione confessionale.
  2. In merito a i punti 1) e 2) il tempo limitato non ci permette di analizzare approfonditamente la questione dei “giri di valzer” diplomatici che hanno caratterizzato la Turchia con l’incalzare degli avvenimenti, così come l’ancor più complessa e delicata posizione di Israele nei fenomeni in corso, meritevole di autonoma trattazione.

INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE

Si rimanda per approfondimenti a “Capire le rivolte arabe” di Pietro Longo e Daniele Scalea (Edizioni Avatar, 2011), prima pubblicazione dell’Istituto di studi geopolitici ISAG.

 

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Tutte le mani sull’Africa: il caso della Costa d’Avorio

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Tutte le mani sull’Africa: il caso della Costa d’Avorio (Bologna, 3-12-2011)

Faremondo invita a discutere Boga Sako Gervais, giurista ivoriano esule in Europa dopo il colpo di stato con cui la Francia di Sarkozy, facendo da apripista nell’era dei nuovi crimini necessari al Piano dell’elite globale, sta cercando di affossare le speranze di futuro della Costa d’Avorio e dell’Africa intera…

Faremondo presenta
Tutte le mani sull’Africa: il caso della Costa d’Avorio

Senza dimenticare nemmeno un angolo di un intero continente sotto saccheggio

Incontro con Boga Sako Gervais

Bologna, sabato 3 dicembre 2011 ore 15-19
Centro Giorgio Costa
via Azzo Gardino 48
(zona Porta Lame, vicino al cinema Lumière)

Nel disegno a lungo termine dell’elite dominante l’intera Africa è destinata al saccheggio permanente delle sue riserve di materie prime e all’esportazione forzata dei prodotti alimentari per il consumo di tipo occidentale. Questo disegno è talmente trasversale che tutti gli attori dello scontro geopolitico, pur con la differenza di ruoli esibita finora, lo condividono: Usa, Francia e Cina stanno soltanto giocando più sul davanti della scena rispetto agli altri (Russia, Gran Bretagna e Germania anzitutto), ma tutti sono coinvolti nel piano, tutti hanno le loro mani sull’Africa.
Questo dovrebbero anzitutto comprendere tutti i popoli del continente. Quelli che si dovessero opporre a tale piano sanno già che dovranno affrontare una violenza peggiore rispetto a quella del primo colonialismo: il potere di corruzione delle menti dei dominati e il monopolio assoluto dei Megamedia da parte dell’elite conferisce a quest’ultima una capacità di devastazione inedita, incomparabilmente più terrificante rispetto a quella dei vecchi arnesi del colonialismo europeo.
Quasi tutto è cambiato, da questo punto di vista: se non si ha presente la qualità e la “potenza di fuoco” proprie del piano dell’elite – il cui punto cruciale è la fabbricazione della realtà data in pasto così formata alle plebi planetarie – non si può capire ciò che sta succedendo in Africa. Con questa chiave di lettura, invece, si può leggere l’aggressione alla Libia e le rivoluzioni colorate in Nord Africa passando per il colpo di stato ordito dalla Francia in Costa d’Avorio, per lo smembramento del Sudan, per l’accerchiamento di Somalia ed Eritrea, per l’escalation contro la resistente Siria e contro quel gran pezzo di Iran che non vuole saperne di bere veleno dal calice occidentale…
L’undici aprile 2011 è stato di nuovo confiscato un paese, la Costa d’Avorio, che negli ultimi tempi stava cercando in diversi modi una propria via di sopravvivenza e di autogoverno: proprio come la Jamahiriyya libica. L’esempio e l’eroica dignità nella resistenza da parte del presidente Laurent Gbagbo, da quella data nelle mani degli scherani locali di Sarkozy, può diventare una luce in mezzo al buio del continente: perché è la resistenza non solo di un popolo, ma dell’intera umanità africana che sa di poter vivere diversamente da come i dominanti hanno pianificato. Gheddafi e prima di lui Nasser, Sankara e adesso Gbagbo… Con il messaggio che essi rappresentano e veicolano sono le basi stesse del Potere occidentale ad essere messe in questione: il saccheggio delle risorse e il “sistema del debito”.
Ecco perché i dominanti si comportano in modo così platealmente criminale.
Il caso della Costa d’Avorio, del quale discuteremo ampiamente con Boka Sako Gervais, è per diversi aspetti paradigmatico di tutto ciò perché contiene in fondo tutti gli elementi dell’odierno attacco dell’elite globale alle possibilità di cambiare questo modo di vivere.

Boga Sako Gervais, giurista ivoriano già docente universitario di diritto e di lettere moderne, è presidente della FIDHOP (Fondazione ivoriana per i diritti dell’uomo e la vita politica). In seguito al golpe dell’11 aprile ha lasciato la Costa d’Avorio e vive da esule in Europa dove è impegnato in prima persona nella campagna per la liberazione di Laurent Gbagbo.

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Preparare la Scacchiera allo “scontro di civiltà”: dividere, conquistare e dominare il “Nuovo Medio Oriente”

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Il nome di “primavera araba” è uno slogan inventato in uffici lontani, a Washington, Londra, Parigi e Bruxelles, da individui e gruppi che, oltre ad avere qualche conoscenza superficiale della regione, sanno molto poco degli arabi. Cosa sta accadendo tra i popoli arabi è naturalmente un fatto pacchetto misto. L’insurrezione fa parte di questo pacchetto quale opportunismo. Dove c’è la rivoluzione, c’è sempre la contro-rivoluzione.

Gli sconvolgimenti nel mondo arabo non sono un “risveglio” arabo, una tale termine implica che gli arabi abbiano sempre dormito mentre la dittatura e l’ingiustizia li circondavano. In realtà, il mondo arabo, che fa parte del più ampio mondo turco-arabo-iranico, è stato attraversato da frequenti rivolte che hanno abbattuto dittatori arabi, in coordinamento con paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. E’ stata l’interferenza di queste potenze, che ha sempre agito come contro-bilanciamento alla democrazia e continueranno a farlo.

Divide et impera: come la prima “Primavera araba” è stata manipolata
I piani per la riconfigurazione del Medio Oriente, iniziarono diversi anni prima della Prima Guerra Mondiale. E’ stato durante la prima guerra mondiale, tuttavia, che la manifestazione di questi disegni coloniali poterono rendersi visibili con la “Grande Rivolta Araba” contro l’Impero Ottomano.
Nonostante il fatto che italiani, inglesi e francesi fossero le potenze coloniali che avevano impedito agli arabi di godere di una qualsiasi libertà in paesi come Algeria, Libia, Egitto e Sudan, queste potenze coloniali riuscirono a ritrarre se stesse come amiche e alleate della liberazione araba.
Durante la “Grande Rivolta Araba”, gli inglesi e i francesi effettivamente utilizzarono gli arabi come soldati di fanteria contro gli ottomani per promuovere i propri schemi geo-politici. L’accordo segreto Sykes-Picot tra Londra e Parigi ne è un esempio calzante. Francia e Gran Bretagna riuscirono solo ad utilizzare e manipolare gli arabi vendendogli l’idea della liberazione araba dalla cosiddetta “repressione” degli ottomani.
In realtà, l’Impero Ottomano era un impero multietnico. Ha dato l’autonomia locale e culturale a tutti i suoi popoli, ma fu manipolata per divenire una entità turca. Anche il genocidio armeno che ne deriverò nell’Anatolia ottomana, deve essere analizzato nel contesto stesso della contemporanea aggressione ai cristiani in Iraq, come parte di una esplosione settaria scatenata da attori esterni per dividere l’impero Ottomano, l’Anatolia e i cittadini dell’Impero Ottomano.
Dopo il crollo dell’Impero Ottomano, Londra e Parigi, mentre negarono la libertà agli arabi, sparsero i semi della discordia tra i popoli arabi. I corrotti leader locali arabi furono anche i partner del piano e molti di loro erano assai felici di diventare clienti di Gran Bretagna e Francia. Nello stesso senso, la “primavera araba” viene oggi manipolata. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e altri lavorano con l’aiuto dei leader e personaggi arabi corrotti a ristrutturare il mondo arabo e l’Africa.

Il Piano Yinon: Ordine dal Caos …
Il Piano Yinon, che è una continuazione dello stratagemma britannico in Medio Oriente, è un piano strategico di Israele per garantire la superiorità regionale israeliana. Insiste e stabilisce che Israele deve riconfigurare la sua area geo-politica attraverso la balcanizzazione degli stati arabi circostanti, in stati più piccoli e più deboli.
Gli strateghi israeliani vedevano l’Iraq come la loro più grande sfida strategica da uno stato arabo. Ed è per questo che l’Iraq è stato delineato come il fulcro per la balcanizzazione del Medio Oriente e del mondo arabo. In Iraq, sulla base dei concetti del Piano Yinon, gli strateghi israeliani hanno chiesto la divisione dell’Iraq in uno stato curdo e due stati arabi, uno per i musulmani sciiti e l’altro per i musulmani sunniti. Il primo passo verso la creazione di ciò, fu la guerra tra Iraq e Iran, che il Piano Yinon discusse.
The Atlantic, nel 2008, e l’Armed Forces Journal dell’esercito statunitense, nel 2006, pubblicarono le mappe ampiamente diffuse che seguivano da vicino lo schema del Piano Yinon. A parte un Iraq diviso, che anche il Piano Biden chiede, il Piano Yinon prevede Libano, Egitto e Siria divise. La divisione di Iran, Turchia, Somalia e anche Pakistan ricadono tutti nella linea di questi punti di vista. Il Piano Yinon chiede anche la dissoluzione del Nord Africa e prevede di iniziare da Egitto per poi scendere su Sudan, Libia e il resto della regione.

Consolidare il Regno: Ridefinire il mondo arabo
Anche se ottimizzato, il Piano Yinon è in movimento e prese vita sotto il “Clean Break”. Questo avviene attraverso un documento politico scritto nel 1996 da Richard Perle e dal Gruppo di Studio per “Una nuova strategia israeliana verso il 2000” per Benjamin Netanyahu, il primo ministro di Israele in quel momento. Perle è stato un ex sottosegretario del Pentagono al tempo di Roland Reagan e poi consigliere militare di George W. Bush Jr. e della Casa Bianca. A parte Perle, il resto dei membri del Gruppo di Studio su “Una nuova strategia israeliana verso il 2000” era composta da James Colbert (Istituto Ebraico per gli Affari di Sicurezza Nazionale), Charles Fairbanks Jr. (Johns Hopkins University), Douglas Feith (Feith and Zell Associates), Robert Loewenberg (Istituto per gli Studi Strategici e Politici Avanzati), Jonathan Torop (‘Istituto di Washington per la Politica nel Vicino Oriente), David Wurmser (Istituto per gli Studi Strategici e Politici Avanzati), e Meyrav Wurmser (Johns Hopkins University). A Clean Break: Una nuova strategia per la Protezione del Regno è il nome completo di questo documento del 1996 sulla politica di Israele. Per molti aspetti, gli Stati Uniti persegue gli obiettivi delineati nel documento politico di Tel Aviv del 1996, per garantire il “regno”. Inoltre, il termine “regno” implica la mentalità strategica degli autori. Un regno si riferisce sia al territorio governato da un monarca o a territori che ricadono sotto il regno di un monarca, ma non sono fisicamente sotto il loro controllo poiché hanno i vassalli che lo gestiscono. In questo contesto, la parola regno viene usata per indicare il Medio Oriente come il regno di Tel Aviv. Il fatto che Perle, sia qualcuno che fu essenzialmente un funzionario di carriera del Pentagono, ha aiutato l’autore del testo israeliano a chiedersi se il sovrano del regno concettualizzato sia Israele o gli Stati Uniti, o entrambi?

Consolidare il Regno: i progetti di Israele per destabilizzare Damasco

Il documento israeliano del 1996 chiede il “rollback della Siria”, già intorno al 2000 e successivamente, respingendo i siriani fuori dal Libano e destabilizzando la Repubblica araba siriana, con l’aiuto di Giordania e Turchia. Questo ha avuto luogo rispettivamente nel 2005 e nel 2011. Il documento del 1996 afferma: “Israele può plasmare il suo contesto strategico, in cooperazione con la Turchia e la Giordania, indebolendo, contenendo e anche respingendo la Siria, Questo sforzo può concentrarsi sulla rimozione di Saddam Hussein dal potere in Iraq – un importante obiettivo strategico israeliano di diritto – come mezzo per sventare le ambizioni regionali della Siria”. [1]
Come primo passo verso la creazione di un “Nuovo Medio Oriente” dominato da Israele e per circondare la Siria, il documento del 1996 chiede la rimozione del presidente Saddam Hussein dal potere a Baghdad, e allude anche alla balcanizzazione dell’Iraq e di forgiare un’alleanza strategica regionale contro Damasco, che includa un “Iraq Centrale” musulmano sunnita. Gli autori scrivono: “Ma la Siria entra in questo conflitto con potenziali punti deboli: Damasco è troppo preoccupata di trattare con la minacciata nuova equazione regionale, per permettersi distrazioni nel fianco libanese, e Damasco teme che il ‘asse naturale’ con Israele da un lato, con l’Iraq centrale e la Turchia dall’altra, e la Giordania, nel centro, stringerebbe e staccherebbe la Siria dalla penisola saudita. Per la Siria, questo potrebbe essere il preludio ad una ridefinizione della mappa del Medio Oriente, che potrebbe minacciare l’integrità territoriale della Siria”. [2]
Perle e il Gruppo di Studio su “Una nuova strategia israeliana verso il 2000” chiedono anche di cacciare i siriani dal Libano e di destabilizzare la Siria, utilizzando gli esponenti dell’opposizione libanese. Il documento afferma: “[Israele deve distogliere] l’attenzione della Siria usando elementi dell’opposizione libanese per destabilizzare il controllo siriano del Libano” [3] Questo è ciò che sarebbe accaduto nel 2005 dopo l’assassinio di Hariri, che ha contribuito a lanciare la cosiddetta “rivoluzione dei cedri” e a creare la veemente anti-siriana Alleanza del 14 Marzo, controllata dal corrotto Said Hariri.
Il documento invita inoltre a Tel Aviv a “cogliere [l’] occasione per ricordare al mondo la natura del regime siriano”. [4] Questo rientra chiaramente nella strategia israeliana di demonizzazione dei suoi avversari attraverso l’uso delle campagne di pubbliche relazioni (PR). Nel 2009, i media israeliani ammisero apertamente che Tel Aviv, attraverso le sue ambasciate e missioni diplomatiche, aveva lanciato una campagna globale per screditare le elezioni presidenziali iraniane, prima ancora che si svolgesse, attraverso una campagna mediatica, e ad organizzare proteste davanti alle ambasciate iraniane. [5]
Il documento menziona anche qualcosa che assomiglia a ciò che è attualmente in corso in Siria. Esso afferma: “La cosa più importante, è comprensibile che Israele abbia interesse nel sostegno diplomatico, militare e operativo della Turchia e della Giordania nelle azioni contro la Siria, ad esempio garantire alleanze tribali con le tribù arabe che attraversano il territorio siriano e sono ostili all’élite al potere siriana.” [6] Con gli eventi del 2011 in Siria, il movimento dei ribelli e il contrabbando di armi attraverso i confini giordano e turco, sono diventati un grave problema per Damasco.
In questo contesto, non sorprende che Ariel Sharon e Israele dicessero a Washington di attaccare la Siria, la Libia e l’Iran, dopo che l’invasione anglo-statunitense dell’Iraq. [7] Infine, è utile sapere che il documento israeliano ha anche sostenuto la guerra preventiva per formare il contesto geostrategico di Israele e ritagliarsi il “Nuovo Medio Oriente”. [8] Questa è una politica che gli Stati Uniti avrebbero anche adottato nel 2001.

L’eliminazione delle Comunità cristiane del Medio Oriente

Non è un caso che i cristiani egiziani siano stati attaccati nello stesso momento del Referendum nel Sud Sudan e prima della crisi in Libia. Né è un caso che i cristiani iracheni, una delle più antiche comunità cristiane del mondo, siano costretti all’esilio, lasciando le loro terre ancestrali in Iraq. In coincidenza con l’esodo dei cristiani iracheni, avvenuto sotto gli occhi attenti degli Stati Uniti e delle forze militari britanniche, i quartieri di Baghdad divennero settari mentre musulmani sciiti e sunniti furono costretti dagli squadroni della violenza e della morte a formare enclave settarie. Tutto questo è legato al Piano Yinon e alla riconfigurazione della regione come parte di un obiettivo più ampio.
In Iran, gli israeliani hanno cercato invano di ottenere cje la comunità ebraica iraniana se ne andasse. La popolazione ebraica iraniana è in realtà la seconda più grande del Medio Oriente e probabilmente la più antica comunità ebraica indisturbati in tutto il mondo. Gli ebrei iraniani si considerano iraniani legati all’Iran come loro patria, proprio come i musulmani e cristiani iraniani, e per loro il concetto di doversi trasferire in Israele, perché sono ebrei, è ridicolo.
In Libano, Israele ha lavorato ad esacerbare le tensioni settarie tra le varie fazioni cristiane e musulmane, così come i drusi. Il Libano è un trampolino di lancio verso la Siria e la divisione del Libano in diversi stati, è anche visto come un mezzo per balcanizzare la Siria in piccoli diversi stati arabi settari. Gli obiettivi del Piano Yinon sono dividere il Libano e la Siria in stati diversi, sulla base delle identità religiose e settarie, musulmani sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Ci potrebbe anche essere l’obiettivo dell’esodo dei cristiani in Siria.
Il nuovo capo della Chiesa siro-cattolica maronita di Antiochia, la più grande delle autonome Chiese orientali cattoliche, ha espresso i suoi timori circa una epurazione dei cristiani arabi dal Levante e dal Medio Oriente. Il Patriarca Mar Beshara Boutros al-Rahi e molti altri leader cristiani in Libano e Siria, hanno paura dell’avvento dei Fratelli Musulmani in Siria. Come l’Iraq, gruppi misteriosi stanno attaccando le comunità cristiane in Siria. I leader della Chiesa cristiana ortodossa orientale, tra cui il patriarca ortodosso di Gerusalemme Est, hanno tutti espresso pubblicamente le loro gravi preoccupazioni. A parte gli arabi cristiani, questi timori sono condivisi anche dalla comunità assira e armena, che sono per lo più cristiane.
Sheikh al-Rahi è stato recentemente a Parigi, dove ha incontrato il presidente Nicolas Sarkozy. È stato riferito che il patriarca maronita e Sarkozy avevano disaccordi circa la Siria, cosa che ha spinto Sarkozy a dire che il regime siriano crollerà. La posizione del patriarca al-Rahi era che la Siria deve essere lasciata sola e permetterle la riforma. Il patriarca maronita ha anche detto a Sarkozy, che Israele doveva essere trattata come una minaccia, se la Francia vuole legittimamente che Hezbollah disarmi.
A causa della sua posizione in Francia, al-Rahi è stato immediatamente ringraziato dai leader religiosi cristiani e musulmani della Repubblica araba siriana, che lo hanno visitato in Libano. Hezbollah e i suoi alleati politici in Libano, che comprende la maggior parte i parlamentari cristiano nel parlamento libanese, ha anche lodato il Patriarca maronita, che poi fatto un tour nel Sud del Libano.
Sheikh al-Rahi è ora politicamente attaccato dall’Alleanza del 14 Marzo di Hariri, a causa della sua posizione su Hezbollah e il suo rifiuto a sostenere il rovesciamento del regime siriano. Una conferenza di figure cristiane è in realtà programmata da Hariri per opporsi al patriarca al-Rahi e alla posizione della Chiesa maronita. Dal momento che al-Rahi ha annunciato la sua posizione, il Partito Tahrir, che è attivo sia in Libano che in Siria, ha iniziato a bersagliarlo con le critiche. E’ anche stato riportato che alti funzionari statunitensi hanno anche cancellato i loro incontri con il patriarca maronita, come segno del loro disappunto circa le sue posizioni su Hezbollah e la Siria.
L’Alleanza del 14 Marzo in Libano di Hariri, che è sempre stata una minoranza popolare (anche quando si trattava di una maggioranza parlamentare), ha lavorato mano nella mano con Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita, Giordania, e gruppi che utilizzano la violenza e il terrorismo in Siria. I Fratelli Musulmani e altri cosiddetti gruppi salafiti provenienti dalla Siria, sonno coordinato ed hanno colloqui segreti con Hariri e i partiti politici cristiani in seno all’Alleanza del 14 Marzo. Questo è il motivo per cui Hariri e i suoi alleati hanno attaccato il Cardinale al-Rahi. Hariri e l’Alleanza del 14 Marzo che hanno anche portato Fatah al-Islam in Libano e hanno aiutato alcuni dei suoi membri a fuggire per andare a combattere in Siria.
Ci sono cecchini sconosciuti che stanno prendendo di mira i civili siriani e l’esercito siriano, al fine di causare caos e conflitti interni. Le comunità cristiana in Siria è anch’essa presi di mira da gruppi di sconosciuti. E’ molto probabile che gli aggressori siano una coalizione di forze di Stati Uniti, Francia, Giordania, Israele, Turchia, Arabia, e Khalij (Golfo) che collaborano con alcuni siriani al suo interno.
Un esodo cristiano è in programma per il Medio Oriente per volontà di Washington, Tel Aviv e Bruxelles. E’ stato riferito che a Sheikh al-Rahi è stato detto a Parigi, dal presidente Nicolas Sarkozy, che le comunità cristiane del Levante e del Medio Oriente possono stabilirsi nell’Unione europea. Questo non è un’offerta generosa. E’ uno schiaffo in faccia dalle stessi potenze che hanno deliberatamente creato le condizioni per sradicare le antiche comunità cristiane del Medio Oriente. Lo scopo sembra essere il reinsediamento delle comunità cristiane al di fuori della regione o a delimitarle in enclavi. Entrambe le cose potrebbero essere degli obiettivi.
Questo progetto ha lo scopo di delineare le nazioni arabe lungo le linee nazioni esclusivamente musulmane ed è in conformità con il Piano Yinon e gli obiettivi geopolitici degli Stati Uniti per il controllo dell’Eurasia. Una grande guerra potrebbe esserne l’esito. Gli arabi cristiani oggi hanno molto in comune con gli arabi di pelle nera.

Ri-Divisione dell’Africa: Il Piano Yinon è molto vivo e opera sul posto…

Per quanto riguarda l’Africa, Tel Aviv vede assicurarsi l’Africa come parte della sua periferia più ampia. Questa ampia cosiddetta “nuova periferia”. è diventata una base geo-strategica di Tel Aviv dal 1979, quando la “vecchia periferia” contro gli arabi che comprendeva l’Iran, che era uno dei più stretti alleati di Israele durante il periodo Pahlavi, cedette e crollò con la rivoluzione iraniana del 1979. In questo contesto, la “nuova periferia” di Israele è stata concepita con l’inclusione di paesi come Etiopia, Uganda e Kenya contro gli stati arabi e la Repubblica islamica dell’Iran. È per questo che Israele è stato così profondamente coinvolto nella balcanizzazione del Sudan.
Nello stesso contesto, come con le divisioni settarie in Medio Oriente, gli israeliani hanno illustrato i programmi per riconfigurare l’Africa. Il Piano Yinon cerca di delineare l’Africa sulla base di tre aspetti: (1) etno-linguistica, (2) colore della pelle e, infine, (3) religione. Per proteggere il regno, succede anche che l’Istituto di Alti Studi Strategici e Politici (IASPS), il think-tank israeliano che comprendeva Perle, ha anche spinto per la creazione da parte del Pentagono dell’Africa Command (AFRICOM) degli Stati Uniti.
Un tentativo di separare il punto di fusione delle identità araba e africana è in corso. Si cerca di tracciare le linee di divisione in Africa, tra una cosiddetta “Africa Nera” e un presunto Nord Africa “non nero”. Questo fa parte di uno schema per creare uno scisma in Africa, tra ciò che si presume sia “arabo” e i cosiddetti “neri”.
Questo obiettivo è il motivo per cui l’identità ridicola di un “Sud Sudan africano” e un “Nord Sudan arabo” è stata favorita e promossa. È anche per questo i libici di pelle nera sono stati oggetto di una campagna per “ripulire il colore” della Libia. L’identità araba del Nord Africa si sta slegando dalla sua identità africana. Contemporaneamente vi è un tentativo di sradicare le grandi popolazioni di “pelle nera araba” in modo che vi sia una chiara demarcazione tra “Africa nera” e un nuovo Nord Africa “non nero”, che sarà trasformato in un terreno di lotta tra i rimanenti berberi e arabi “non neri”.
Nello stesso contesto, le tensioni vengono alimentate tra musulmani e cristiani in Africa, in posti come il Sudan e la Nigeria, per creare ulteriori linee e punti di frattura. Alimentare queste divisioni sulla base del colore della pelle, della religione, etnia e lingua, ha lo scopo di alimentare la dissociazione e la disunione in Africa. Tutto questo fa parte di una strategia più ampia per staccare l’Africa del Nord dal resto del continente africano.

Preparare la Scacchiera allo “scontro di civiltà”

E’ a questo punto che tutti i pezzi devono essere messi insieme ed i punti devono essere collegati.
La scacchiera è stata organizzata per un “scontro di civiltà” e tutti i pezzi degli scacchi sono stati piazzati. Il mondo arabo è in procinto di essere chiuso e le linee di demarcazione netta si stanno creando. Queste linee di demarcazione stanno sostituendo le linee di transizione senza soluzione di continuità tra i diversi gruppi etno-linguistici, di colore della pelle e religiosi.
Nell’ambito di questo regime, non può più esserci una transizione alla fusione tra società e paesi. È per questo che i cristiani in Medio Oriente e Nord Africa, come i copti, sono presi di mira. È anche per questo che arabi e berberi di pelle nera, così come altri gruppi di popolazione del Nord Africa, che sono neri di pelle, si trovano ad affrontare il genocidio in Nord Africa.
Dopo l’Iraq e l’Egitto, la Libia e la Repubblica araba siriana sono entrambe rispettivamente importanti punti di destabilizzazione regionale in Nord Africa e Sud-Ovest asiatico. Ciò che succede in Libia avrà conseguenze per l’Africa, come quello che accade in Siria avrà effetti sul sud-ovest asiatico e oltre. Sia l’Iraq che l’Egitto, in connessione con quanto afferma il Piano Yinon, hanno agito come starter per la destabilizzazione di entrambi questi stati arabi.
Ciò che viene messo in scena è la creazione di un “Medio Oriente esclusivamente musulmano”, un’area (escluso Israele) che sarà in agitazione a causa degli scontri sciiti-sunniti. Uno scenario simile è stato attuato per un “Nord Africa non nero”, zona che sarà caratterizzata dallo scontro tra arabi e berberi. Allo stesso tempo, secondo il modello di “scontro di civiltà”, il Medio Oriente e il Nord Africa sono candidati ad essere contemporaneamente in conflitto con il cosiddetto “Occidente” e l'”Africa Nera”.
Questo è il motivo per cui sia Nicolas Sarzoky, in Francia, che David Cameron, in Gran Bretagna, in mutue dichiarazioni, durante l’inizio del conflitto in Libia, secondo cui il multiculturalismo è morto nelle loro rispettive società occidentali europee. [9] Il multiculturalismo reale minaccia la legittimità del programma di guerra della NATO. Esso costituisce anche un ostacolo alla realizzazione dello “scontro di civiltà”, che costituisce la pietra angolare della politica estera degli Stati Uniti.
A questo proposito, Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, spiega perché il multiculturalismo è una minaccia per Washington e i suoi alleati: “L’America diventa una società sempre più multiculturale, e può risultare più difficile costruire un consenso sulla politica estera [ad esempio, la guerra contro il mondo arabo, la Cina, l’Iran o la Russia e l’ex Unione Sovietica], tranne che nelle circostanze di una minaccia esterna diretta veramente grande e ampiamente percepita. Tale consenso generale, esisteva tutta la seconda guerra mondiale e anche durante la guerra fredda [e ora esiste a causa della ‘Guerra Globale al Terrore’].” [10] La frase successiva di Brzezinski qualifica il motivo per cui le popolazioni si sarebbero opposte nel sostenere le guerre: “[Il consenso] era radicato, però, non solo in profondità nei valori democratici condivisi, quali il pubblico percepiva esser minacciati, ma anche in una cultura e affinità etniche per le vittime prevalentemente europee dei totalitarismi ostili”. [11]
Rischiando di essere ridondante, è da ricordare ancora una volta che è proprio con l’intenzione di rompere queste affinità culturali tra il Medio Oriente-Nord Africa (MENA) e il cosiddetto “mondo occidentale” e sub-sahariano, che i cristiani e i popoli di pelle nera sono presi di mira.

Etnocentrismo e ideologia: Giustificare oggi le “guerre giuste”

In passato, le potenze coloniali dell’Europa occidentale avrebbero indottrinato i loro popoli. Il loro obiettivo era quello di acquisire il sostegno popolare per la conquista coloniale. Questo ha preso la forma della diffusione del cristianesimo e promuovere dei valori cristiani, con l’appoggio di mercanti armati ed eserciti coloniali.
Allo stesso tempo, le ideologie razziste sono state messe avanti. I popoli le cui terre furono colonizzate furono descritti come “sub-umani”, inferiori o senz’anima. Infine, il “fardello dell’uomo bianco”, l’assumere una missione di civilizzazione dei cosiddetti “popoli incivili del mondo” venne utilizzato. Questo quadro ideologico coerente è stato utilizzato per ritrarre il colonialismo come una “giusta causa”. Quest’ultima, a sua volta, è stata utilizzata per fornire legittimità nel condurre “guerre giuste” come mezzo per conquistare e “civilizzare” terre straniere.
Oggi, i disegni imperialisti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania non sono cambiati. Ciò che è cambiato è il pretesto e la giustificazione per scatenare le loro guerre di conquista neo-coloniali. Durante il periodo coloniale, le narrazioni e le giustificazioni per a guerra sono state accettate dall’opinione pubblica dei paesi colonizzatori, come Gran Bretagna e Francia. Oggi “guerre giuste” e “giuste cause” sono in corso sotto le insegne dei diritti delle donne, diritti umani, dell’umanitarismo e della democrazia.

Mahdi Darius Nazemroaya è un pluripremiato scrittore da Ottawa, Canada. È un sociologo e ricercatore associato presso il Centro per la Ricerca sulla Globalizzazione (CRG), Montreal. Era un testimone della “primavera araba” in azione nel Nord Africa. Mentre era presente in Libia durante la campagna di bombardamenti della NATO, è stato inviato speciale per il sindacato investigativo del programma KPFA Flashpoints, che va in onda da Berkeley, California.

NOTE
[1] Richard Perle et al., A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm (Washington, DC and Tel Aviv: Institute for Advanced Strategic and Political Studies), 1996.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Barak Ravid, “Israeli diplomats told to take offensive in PR war against Iran,” Haaretz, 1 giugno 2009.
[6] Perle et al., Clean Break, op. cit.
[7] Aluf Benn, “Sharon says US should also disarm Iran, Libya and Syria,” Haaretz, 30 settembre 2009.
[8] Richard Perle et al., Clean Break, op. cit.
[9] Robert Marquand, “Why Europe is turning away from multiculturalism,” Christian Science Monitor, 4 marzo 2011.
[10] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives (New York: Basic Books October 1997), p.211.
[11] Ibidem.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

Global Research, 26 novembre 2011
http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=27786

http://aurorasito.wordpress.com/2011/11/29/preparare-la-scacchiera-allo-scontro-di-civilta-dividere-conquistare-e-dominare-il-nuovo-medio-oriente/

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Il rapporto IAEA, l’Iran ed il dossier nucleare

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Nel rapporto recentemente pubblicato, l’Agenzia ONU per il nucleare ha espresso grande preoccupazione in merito all’espansione del programma nucleare iraniano ed in particolare alle possibili applicazioni in ambito militare della tecnologia nucleare sviluppata dalla Repubblica islamica. Sebbene non ne esista ancora chiara evidenza, secondo la IAEA il governo iraniano avrebbe sviluppato attività finalizzate alla creazione di armi nucleari, applicabili solo in maniera limitata all’ambito civile o al settore militare convenzionale. Pur avendo ricevuto pesanti critiche, il rapporto ha suscitato la preoccupazione di molti attori internazionali, intimoriti dalle implicazioni che un Iran nucleare determinerebbe.

Gli sviluppi recenti della controversia sul programma nucleare iraniano

La contesa diplomatica ha riguardato principalmente l’arricchimento dell’uranio, procedimento necessario sia alla produzione di energia sia alla fabbricazione di ordigni nucleari. Il TNP riconosce agli Stati membri la possibilità di arricchire uranio per scopi civili. Tuttavia l’accordo di garanzia e il protocollo aggiuntivo, siglati dall’Iran, obbligano il Paese a sottoporsi a controlli e ispezioni (anche intrusive) da parte della IAEA. Non avendo notificato all’IAEA sensibili attività nucleari ed avendo rifiutato di sottoporsi alle ispezioni previste dagli obblighi internazionali sottoscritti, l’Iran è già incappato in numerose sanzioni ed è stato richiamato dalla comunità internazionale , che ha più volte chiesto la sospensione delle attività nucleari più sensibili e il ripristino di un rapporto di piena collaborazione con la IAEA.

Alla base del rapporto, informazioni indicanti lo sviluppo di attività strutturate in un preciso programma nucleare fino alla fine del 2003. Secondo l’Agenzia “alcune attività attinenti lo sviluppo di armi nucleari potrebbero essere continuate dopo il 2003 ed essere tuttora in corso” .

Ad alimentare le preoccupazioni dell’Agenzia le notizie indicanti, già dal 2005, contatti tra il governo iraniano e reti clandestine che avrebbero fornito all’Iran il know-how necessario a potenziare le attività di conversione e arricchimento dell’uranio (già oltre la soglia critica del 20%). Oltre a non aver sospeso le attività di arricchimento, Tehran sarebbe recentemente entrata in possesso di tecnologia laser e avrebbe proceduto alla costruzione di nuovi siti nucleari, impianti termici e centrifughe, senza fornire adeguata documentazione. Dubbi permangono in merito allo stato delle attività di ritrattamento (considerate a più alto rischio di “proliferazione nucleare”), già vietate dalla IAEA.

Tehran smentisce le accuse, ribadendo le finalità civili delle ricerche in atto. La posizione iraniana potrebbe risultare tuttavia meno credibile, data anche la struttura macro-economica del Paese: un “rentier state”, ricco di gas e petrolio, che non avrebbe apparentemente motivo di costruire costose e pericolose centrali elettriche a fusione nucleare. L’agognata ricerca di un’autosufficienza energetica è dunque alla base del tentativo iraniano di nuclearizzazione.

Il fatto che il rapporto IAEA sia basato in larga misura su materiale posseduto, ormai da diversi anni, da governi e organizzazioni di intelligence occidentali, insinua un dubbio: quali sono i Paesi che hanno esercitato pressioni affinché la IAEA incorporasse questo materiale all’interno del proprio report ufficiale? Perché? Per rispondere a queste domande è indispensabile andare oltre il mero contenuto del report. Oltre alle ovvie implicazioni relative alla possibilità di violazione del TNP da parte dell’Iran, è fondamentale considerare il conflitto mai sopito tra Iran e Stati Uniti e le dinamiche regionali che coinvolgono Israele e Arabia Saudita.

Il conflitto Washington-Tehran

Le ostilità tra Washington e Tehran risalgono al 1979, quando la rivoluzione Khomeinista mise fine al governo filo-americano dello Shah Reza Pahlavi. Sostanzialmente motivate da rivalità politica, tali ostilità furono alimentate dall’appoggio fornito dall’Iran a gruppi armati di resistenza palestinesi e libanesi (Hamas ed Hezbollah) e dalle capacità iraniane di influenza in Afghanistan e Iraq. L’invasione dell’Iraq da parte degli USA e la conseguente caduta del regime di Saddam Hussein, nemico per antonomasia della Repubblica islamica, hanno favorito l’espansione della sfera di influenza iraniana nella regione. Nel periodo post-Saddam l’Iran è riuscito a raccogliere il consenso di parte della popolazione irachena, sempre più ostile al governo americano. In questo senso, è stata determinante la capacità di interazione con la componente sciita della popolazione (circa il 60% dei cittadini) e l’appoggio accordato dal governo di Tehran a gruppi armati dichiaratamente anti-americani (quali l’Esercito del Mahdi Muqtada al-Sadr). In Afghanistan, l’Iran ha saputo sfruttare il vuoto determinato dal crollo del regime del Mullah Omar, facendo sentire la propria influenza soprattutto tra la popolazione hazara, di confessione sciita, residente nell’ovest del Paese.

Fino ad oggi la politica statunitense nei confronti del governo iraniano si è mossa lungo tre direttrici, volte alla tutela dell’egemonia americana nella regione: esplicito e dichiarato sostegno alle forze politiche di opposizione, indisponibilità a trattare in merito alla questione dell’arricchimento, non-dichiarata minaccia di intervento militare. Conformemente a questa collaudata linea politica, in seguito alla pubblicazione del Rapporto IAEA la posizione statunitense sembra essersi consolidata al punto da spingere Obama a dichiarare che “nessuna posizione viene esclusa” .

I rapporti irano-israeliani

Le ostilità iraniane nei confronti di Israele sono iniziate nel 1979. Rimanendo più che altro confinate all’ambito declaratorio, hanno raggiunto l’apice nel 2005, con alcune presunte dichiarazioni di Ahmadinejad. L’unico episodio di intesa tra Israele e Iran risale agli anni precedenti la prima guerra del Golfo ed in chiave anti-irachena. Con lo scoppio della guerra del Golfo del 1991, che ha messo fine ai tentativi espansionistici del governo di Saddam, questa possibilità di intesa è presto venuta meno.

La politica israeliana nella regione è da sempre regolata dall’imperativo della “sicurezza nazionale”. Attenuatasi la minaccia irachena, dopo il 1991, la Repubblica islamica dell’Iran è assurta tra le principali preoccupazioni israeliane. Nel 1981 Israele, desideroso di mantenere la propria supremazia militare nella regione, arrivò a bombardare e distruggere il reattore nucleare iracheno Osirak. L’intransigenza mostrata da Israele verso l’Iraq di Saddam si ripropone nei confronti dell’Iran, tanto da spingere Netanyahu a dichiarare la possibilità di un attacco armato volto alla distruzione dei siti nucleari iraniani.

Le relazioni con Arabia Saudita e Paesi del CCG

L’Arabia Saudita è il rivale naturale della Repubblica Islamica, alla quale si contrappone innanzitutto per confessione (sunnita la prima, sciita la seconda ) e per etnia (araba la prima, persiana la seconda). Nonostante le differenze, nei vent’anni che precedettero la rivoluzione Khomeinista, gli interessi delle due monarchie si allinearono sia sul piano geopolitico (contenimento dell’Iraq), sia su quello ideologico (contrasto del nasserismo e del panarabismo).

La rivoluzione del 1979 andò a stravolgere gli equilibri esistenti. Da allora, l’Arabia Saudita risente dei tentativi egemonici iraniani (l’Iran rivoluzionario si propone infatti come modello per tutto il mondo islamico, non solo sciita). Oltre a temere il venir meno delle proprie ambizioni egemoniche nel Golfo, l’Arabia Saudita è intimorita dalla possibilità che la rivoluzione destabilizzi gli equilibri interni al Paese, esercitando la propria influenza nella regione orientale, maggiormente popolata da cittadini di confessione sciita e più ricca di idrocarburi.

Le ambizioni di potenza dell’Iran intimoriscono anche gli altri Paesi sunniti del Golfo, riunitisi nel Consiglio di Cooperazione (CCG). Oltre a temere, come l’Arabia Saudita, che l’allargamento della sfera di influenza iraniana possa stimolare la ribellione dei cittadini sciiti dei propri regni (problema particolarmente evidente per il Bahrein, data l’elevata percentuale di cittadini sciiti), i Paesi del CCG (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrein, EAU e Oman) temono che nuovi equilibri regionali incidano sulla capacità di esportazione di idrocarburi. In questo senso, il principale elemento di conflittualità ha riguardato la minaccia iraniana di bloccare lo stretto di Hormuz in caso di attacco ai propri siti nucleari. A tal fine, l’Iran ha allestito una base navale nel porto di Jask, aumentando enormemente le proprie capacità di interdizione marittima sullo stretto, attraverso cui transita circa il 40% del commercio marittimo di idrocarburi del mondo e la maggior parte delle esportazioni del CCG.

Sebbene il CCG sia stato creato con il preciso intento di contenere l’espansione della sfera di influenza iraniana nel Golfo, in questi anni i Paesi membri non hanno saputo far fronte comune contro l’Iran, preferendo tutelare interessi particolaristici: regni di piccole dimensioni hanno adottato posizioni moderate affinché i propri interessi non venissero soverchiati da quelli del grande e popoloso Stato saudita, gli Emirati Arabi Uniti hanno mantenuto relazioni estremamente lucrose con l’Iran (Dubai tratta circa il 60% delle esportazioni iraniane) ed il Qatar ha gestito, in condivisione con l’Iran, un ricco giacimento sottomarino di gas, cercando di mettere un freno alla potenza saudita nella speranza di accreditarsi come diplomazia egemone nella regione . Lo sconforto provocato dal mancato accoglimento delle rimostranze mosse all’amministrazione Bush in merito alla guerra in Iraq è stato un ulteriore elemento di stacco dalle posizioni americano-saudite. Gli arabi del Golfo temono inoltre che, in caso di conflitto, l’Iran possa essere intenzionato a colpire le basi militari americane nei propri Paesi, prevedendo disastrose conseguenze in termini economici ed umanitari.

Attacco armato o sanzioni?

Le voci di un possibile attacco militare israeliano su Teheran sono state nelle ultime settimane piuttosto insistenti. È vero però che l’eventualità di un attacco armato non incontrerebbe il consenso delle potenze internazionali. Lo stesso Obama, che pur aveva promesso sanzioni durissime destinate ad isolare l’Iran non sembrerebbe disposto ad avvallare tale eventualità. A distogliere gli Stati Uniti dal sostegno a Israele pesano le elezioni ormai prossime e l’impossibilità ad aprire un terzo fronte dopo quelli iracheno ed afghano. La visita in Israele di David Cohen, sottosegretario al tesoro per la lotta al terrorismo e incaricato in merito a possibili sanzioni contro l’Iran, e di Thomas Nides, vice-segretario di Stato, confermano questa ipotesi. Secondo varie analisi, Israele disporrebbe di una quantità di armamenti sufficienti a distruggere siti protetti come quelli di Nataz, Isfahan e Arak. Sembra da escludersi tuttavia l’eventualità di un attacco che non goda del sostegno statunitense, visti quantomeno i limiti israeliani relativi alla capacità di rifornimento autonomo in volo. Un duro “no” alla possibilità di un attacco armato giunge anche da una parte dell’opinione pubblica che si è dichiarata contraria all’aggressione. In una situazione già precaria per lo Stato ebraico (dovuta anche ai risvolti anti-israeliani delle rivoluzioni arabe, esemplificate dall’attacco all’ambasciata israeliana in Egitto) l’efficacia di un intervento militare sarebbe dubbia. I siti nucleari iraniani sarebbero infatti sparsi in tutto il Paese, spesso si troverebbero sottoterra o nelle immediate vicinanze di centri abitati. Oltre a comportare un alto numero di potenziali vittime civili iraniane, un attacco armato esporrebbe lo Stato ebraico agli attacchi da parte dell’Iran o dei movimenti filo-iraniani negli Stati arabi confinanti (Hezbollah libanesi, milizie militari sciite irachene, Hamas palestinesi).

Nell’improbabilità di un attacco armato, resta aperta la possibilità che nuove e dure sanzioni vengano imposte all’Iran. A sostenere la politica delle sanzioni, l’Unione europea mentre in senso contrario pesa il veto di Russia e Cina, membri permanenti del Cds. La Russia ha interesse a restare tra le “poche “ potenze nucleari al mondo, tuttavia non è intenzionata a guastare i rapporti con il governo di Tehran, dal momento che l’Iran si trova a ridosso dei suoi già instabili confini meridionali. Mosca è inoltre interessata a favorire la potenza iraniana in chiave anti-americana, al fine di arginare l’espansione statunitense e occidentale nelle aree strategiche di Golfo Persico e Medio Oriente. Seppur abbia cercato di persuadere il governo iraniano a fermare il programma nucleare, le motivazioni sopra citate hanno spinto il Paese a dichiarare la propria contrarietà a eventuali sanzioni, ribadendo il diritto di Tehran all’arricchimento . La posizione cinese è stata, in questi anni, molto simile a quella russa. Simile posizione, motivazioni differenti: bloccando le sanzioni imposte al governo iraniano, Pechino ha dato priorità alla salvaguardia dei propri approvvigionamenti energetici. L’Iran è infatti il primo fornitore di energia della Cina (la quale non possiede le riserve naturali della Russia).

Ciò che questi due Paesi sono disposti a fare non rientra affatto nelle possibilità di Israele, per il quale il nucleare iraniano rappresenta una minaccia esistenziale. Questa considerazione apre un’ultima questione: nell’impossibilità di un attacco armato, lo Stato ebraico si accontenterà dell’imposizione di sanzioni, seppur dure, nei confronti dell’Iran? I più timorosi sottolineano la possibilità che gli Stati Uniti barattino il loro “no” ad un attacco armato con una linea più possibilista nei confronti della politica israeliana, avvallando ad esempio la costruzione di nuovi insediamenti nei Territori Occupati palestinesi. Lungi dal giovare alla causa palestinese, i rapporti di forza esistenti potrebbero incidere sugli sviluppi del conflitto israelo-palestinese, determinando il ritorcersi della minaccia nucleare iraniana a svantaggio del popolo palestinese.

Nijmi Edres è dottoranda presso l’Università di Roma “La Sapienza”.

 

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È arrivata l’ora del Sud

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Durante gli ultimi 10 anni, almeno per quanto concerne l’Argentina, si è cercato d’imporre alla società civile l’opinione che il paese si trovasse fuori dall’agenda USA, addirittura, che l’America latina e, fondamentalmente l’America meridionale, fossero escluse dall’agenda degli interessi strategici nordamericani, i quali continuano ad essere presenti solo nei particolari casi di continuità alla lotta contro il terrorismo internazionale e l’insicurezza che porta con sé, contro il rinvigorimento armato dei cartelli della droga e la corruzione che li accompagna e contro i “regimi” che non sono graditi dagli americani, verbigratia: Chávez, Castro, Correa e Morales. A ciò si riduce la politica estera nordamericana nei confronti del Sud. 

Ma i rapporti economici e internazionali hanno sperimentato una svolta trascendentale negli ultimi dieci anni, insieme alla crisi del cosiddetto “blocco occidentale USA e UE”, l’irruzione della Cina nel suo “cortile posteriore”, così come quello dell’India e della Russia, i quali dopo 200 anni li hanno spiazzati come principali soci commerciali nella regione, e questo non è un semplice dato e tantomeno qualcosa di contingente.
Per secoli i rapporti internazionali si sono concentrati nell’emisfero Nord, al Sud gli si assegnò solo il ruolo di fornitore per sostenere economicamente il benessere del Nord, ricordiamo che il primo obiettivo della geopolitica è quello dell’accesso alle risorse, di cui l’America del Sud ne ha in abbondanza.

In questo scenario, contraddistinto da un mondo che si dimena in mezzo a forti turbolenze, che agitano soprattutto l’Eurasia e l’Africa e, nello specifico, il tema energetico, il quale per le principali potenze tradizionali ed emergenti (tranne il caso della Russia), costituisce un tallone d’Achille, e sottolinea l’importanza della nostra America (grandi scoperte di petrolio nell’Artico, Canada, sacche di gas negli USA, nei Caraibi, ampliamento delle riserve in Venezuela, Brasile e Argentina). Tutto ciò offre allo spazio americano la capacità d’indipendenza energetica che è fondamentale nel momento in cui si presenta come regione rilevante, giacché possiede uno degli strumenti fondamentali per il suo potenziamento e a ciò aggiungiamo che la nostra America del Sud concentra il 30% della biocapacità totale del mondo. Inoltre, il continente costituisce anche il granaio del mondo.

La maggior parte dell’offerta mondiale di banane, zucchero, arance, caffe, soia e salmone, così come una parte considerevole di carne ovina e di maiale, proviene dall’America meridionale. La quale possiede, oltre a ciò, immense riserve di minerali: argento, rame, piombo, stagno, zinco, minerale di ferro e litio, che sono essenziali per le potenze mondiali al momento di definire le loro alleanze.

Per questa ragione noi latinoamericani e sudamericani dobbiamo fissare opportune strategie con le potenze tradizionali e con quelle emergenti per il raggiungimento della nostra autosufficienza energetica e alimentare. Signori, non stiamo fuori da nessuna agenda come ci hanno voluto far credere.
Per questa ragione, la costruzione di un’economia su scala continentale è fondamentale affinché all’indipendenza energetica si possa aggiungere lo sviluppo di un’industria specializzata con tecnologia e sviluppo autonomi che ci consenta di irrobustirci. I latinoamericani siamo il 12% della popolazione mondiale, rappresentiamo un’economia di US$6 miliardi –con una grandezza uguale a quella cinese-. L’America latina è più giovane ed è più urbanizzata dell’Asia, è arrivato il momento con il quale per mezzo degli organismi creati dai sudamericani iniziamo a consolidare questi vantaggi e stabiliamo vincoli di negoziazione con il mondo in ricostruzione, verso il quale stiamo assistendo non più come spettatori, bensì come parti di quella ristrutturazione.

La Cina rappresenta un socio strategico nella nostra regione (il quale ha consentito lo staccamento dal vecchio sistema basato sugli acquisti di materie prime), ma ha anche inondato i mercati della regione con praticamente tutto, dalla biancheria ai telefoni cellulari, minacciando il 90% delle esportazioni manifatturiere dell’America latina (che rappresenta il 40% delle sue esportazioni) e questo fatto obbliga i nostri dirigenti politici, economici e sociali ad un ampliamento dei criteri e alla cancellazione di vecchi schemi che non funzionano più (in politica economica mondiale e rapporti internazionali) per stabilire nuovi accordi che consentano alla nostra America di non cambiare di padrone, ma d’imporsi come un nuovo spazio continentale industriale, che consenta di negoziare con tutti a condizioni utili e favorevoli per i suoi abitanti.

Attualmente, centinaia di multinazionali europee e nordamericane ridisegnano i propri obiettivi quando vedono minacciata la loro posizione per così controbilanciare la presenza del mondo asiatico. Sono da considerare dei giocatori forti con i quali dobbiamo anche negoziare e stabilire dei vincoli strategici per controbilanciare la tendenza.

È arrivata l’ora del Sud, adesso tutto dipende da noi latinoamericani se vogliamo forgiare i sogni dei nostri padri fondatori, l’Integrazione è la nostra arma strategica, la negoziazione a parità di condizioni con i poteri mondiali la nostra arma per raggiunger l’obiettivo finale, che altro non è che quello della felicità dei nostri popoli, tante volte rimandata.

Fonte: Análisis Geopolítico desde Suramérica www.DossierGeopolitico.com

(trad. di V. Paglione)

Nell’immagine soprariportata i punti marroni indicano i porti con la presenza di aziende cinesi, la linea continua le linee ferroviarie esistenti, mentre la linea segmentata i percorsi ferroviari in fase di progettazione.

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I forum economici in Russia: dialogo e investimenti

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Mosca cerca di attrarre sempre più investitori stranieri per modernizzare e irrobustire la sua economia. Il vasto panorama di forum economici internazionali che si tengono ogni anno sul territorio russo ben rappresentano come, pur partendo da logiche differenti, gli operatori economici occidentali (ed europei soprattutto) riescano ad inserirsi e a comprendere il paese meglio di quanto riescano a fare le rispettive élite politiche.

 

La Russia si conferma sempre più un partner economico irrinunciabile. Nonostante la crisi economica internazionale abbia costretto Mosca a rivedere le stime di crescita dell’anno in corso, le autorità hanno avviato una politica di riforme finalizzata ad agevolare gli investimenti degli operatori nazionali: la stessa Banca Mondiale si è positivamente pronunciata in merito, sottolineando come nell’ultimo biennio la Federazione Russa si sia distinta per la creazione di un clima maggiormente favorevole agli investimenti, agendo sull’imposizione fiscale, sulle modalità di rilascio delle licenze edilizie e sull’accesso al credito.

Sul fronte dell’interscambio con l’estero, la crescita è ancora decisamente vincolata all’andamento del mercato energetico e alla volatilità del prezzo delle materie prime. Ad ogni modo, la struttura dell’economia russa fa sì che gli operatori internazionali guardino ad essa con estremo interesse: il vantaggio comparato russo in termini di materie prime e costi di produzione attrae i paesi che, in cambio, possono offrire capitali e tecnologie.

Soprattutto per l’Europa, la Russia costituisce un partner economico “naturale”, non solo per l’interdipendenza energetica che caratterizza le loro relazioni, ma anche per la prossimità geografica che facilita l’interscambio di beni e capitali.

Se si osservano, in particolar modo, i dati relativi agli investimenti esteri sul territorio russo, otto tra i primi dieci paesi investitori sono europei ad eccezione di Cina e Giappone, che nella prima metà del 2011 si sono collocate rispettivamente al quinto e ottavo postoi.

Questo breve quadro può essere utile per dare una spiegazione di come negli ultimi anni nella Federazione stiano crescendo in maniera esponenziale le occasioni di incontro e di dibattito su come e perché investire nei diversi segmenti dell’economia russa: questi forum economici stanno diventando un appuntamento fondamentale tra i rappresentanti del mondo politico, amministrativo e imprenditoriale russi con gli operatori internazionali del settore privato.

Altrettanto interessante è porre l’attenzione sugli ambiti di cui si occupano i forum più importanti, poiché ci forniscono un’indicazione di quali siano i settori più appetibili per gli investitori stranieri, anche solo in via potenziale.

 

Non solo idrocarburi: le innumerevoli opportunità di investimento in Russia

Lo scenario si presenta davvero vasto: basta consultare un qualsiasi sito internet che si occupi di investimenti in Russia per reperire liste infinite di incontri, conferenze, fiere e forum internazionali nei quali si discute di pressoché qualsiasi frammento di mercato. A partire dal mercato energetico, si passa attraverso il mercato alimentare, quello del lusso, quello farmaceutico (l’importazione di farmaci copre attualmente circa il 75% del mercato e solo di recente molti produttori stranieri stanno avviando produzioni proprie sul territorio russo), quello dell’edilizia, dell’arredamento, fino a giungere a settori più innovativi come quello del risparmio energetico e delle fonti alternative.

La panoramica dei forum più importanti sul suolo russo non può che partire dal Forum Economico Internazionale di S. Pietroburgo, il quale, giunto ormai alla quindicesima edizione, può considerarsi una delle più illustri occasioni di incontro tra mondo politico, accademico ed imprenditoriale a livello mondiale, tanto da meritarsi l’appellativo di “Davos russa”.

Organizzato sotto l’alto patronato del Presidente della Federazione Russa e per opera di un comitato che affianca agli esponenti politici che si occupano di sviluppo economico le alte personalità del mondo imprenditoriale e finanziario, il forum ha lo scopo di proporre le tematiche e le sfide chiave che l’economia russa e internazionale deve affrontare con l’intento di trovare una strategia comune per affrontarle. I dibattiti hanno toccato argomenti salienti come la salvaguardia della crescita economica, la costruzione del capitale creativo in Russia e l’espansione degli orizzonti tecnologici, tutti estremamente importanti per lo sviluppo russo.

Tuttavia, ciò che occorre evidenziare è costituito da due elementi che ci aiutano ad interpretare la direzione in cui va l’economia russa e il ruolo che essa sta assumendo sullo scenario internazionale: le dichiarazioni del Presidente Dmitrij Medvedev e le partnership siglate a conclusione del forum. Per quanto concerne il primo aspetto, il Presidente si è espresso a favore di una progressiva marginalizzazione del ruolo statale nel settore imprenditoriale, finalizzata ad una maggiore competitività, che ha suscitato la positiva reazione degli investitori stranieri presenti. Lo stesso colosso statunitense Goldman Sachs, scelto da Mosca come consulente per il processo di privatizzazione degli asset statali (tra cui il 7,58% della SberBank), sta vivamente raccomandando di investire quanto prima nel territorio russo, prima ancora delle elezioni presidenziali del 2012.

Allo stesso modo, è di rilievo notare che il forum si è concluso con il perfezionamento di oltre cinquanta contratti, per un valore complessivo di più di cinque miliardi di euro, a coronamento della consapevolezza dell’importanza strategica della Russia come partner economico.

Anche nel corso del Russia Forum 2011 le parole chiave sono state crescita, investimenti e privatizzazione: questo meeting, ancorché nato solo nel 2008, accoglie ogni anno i leader della finanza e dell’imprenditoria internazionali, alti esponenti del mondo politico e accademici del calibro di Roudini e Stiglitz, solo per citarne alcuni. Lo scopo è comprendere le potenzialità dell’economia russa nel mutevole contesto economico internazionale all’indomani della crisi. Lo sviluppo di tali potenzialità passa attraverso alcuni nodi fondamentali: capire, ad esempio, che il traino della crescita economica non sarà più il consumo statunitense ma quello delle economie emergenti (constatazione però non completamente condivisa, a causa dell’incognita demografica che potrebbe influire pesantemente sul potere d’acquisto) è essenziale per indirizzare la produzione. Allo stesso modo, una modernizzazione ad ampio spettro, che coinvolga cioè tanto le infrastrutture e la tecnologia quanto l’istruzione e l’amministrazione, è l’occasione che la Russia deve cogliere al volo per aumentare la competitività e stimolare l’economia; le esportazioni di idrocarburi e materie prime sono importanti (basti pensare ai consumi europei o al fabbisogno delle economie emergenti), ma lasciare che da esse dipenda lo sviluppo rende il paese vulnerabile al loro andamento, laddove la chiave sta nel far crescere parallelamente il mercato e gli investimenti domestici.

L’energia, d’altro canto, non può non essere oggetto di importanti incontri internazionali: i forum e le fiere ad essa dedicate sono davvero numerosi.

Solo la Moscow Annual Oil & Gas Conferences organizza ogni anno almeno cinque conferenze, riguardanti ogni sfaccettatura del mercato energetico: catena produttiva, costruzioni, modernizzazione degli impianti, reclutamento del personale, servizi, attrezzature per le trivellazioni in mare aperto. A confrontarsi, in questo caso, sono le compagnie russe e straniere, con l’intento di stringere contatti d’affari e condividere le rispettive esperienze sul campo. Le ditte russe, in particolare, sono interessate all’acquisizione di conoscenze soprattutto nel campo della gestione di progetti particolarmente ampi, implicanti la selezione e la gestione di appaltatori, l’ottimizzazione dei costi, le nuove tecnologie e nuovi modelli di implementazione dei progetti di investimento.

Tuttavia, è la Moscow International Energy Forum l’occasione di più ampio respiro nel campo energetico, nel corso della quale la discussione delle tematiche chiave per lo sviluppo del settore, tra le quali merita menzione la creazione di una base legale idonea a rendere efficiente il mercato e ad attrarre capitali, si avvale del parere dei più alti esponenti del mondo politico, scientifico e imprenditoriale provenienti da 34 paesi. Il forum si è chiuso con una dichiarazione conclusiva nella quale si enucleano le azioni da intraprendere per contrastare i pericoli di recessione, riformare le istituzioni finanziarie e creare i presupposti per uno sviluppo equilibrato e sostenibile.

Il dibattito attorno al concetto di sviluppo sostenibile e di sostenibilità ambientale delle attività economiche si sta facendo largo anche in Russia. Nonostante l’export di idrocarburi rappresenti uno dei pilastri dell’economia russa, o forse proprio per questo, la possibilità di sfruttare fonti di energia alternative è presa sempre più in considerazione.

Al momento solo l’1% dell’energia prodotta in Russia proviene da fonti “verdi”, ma la politica di incentivi e aiuti varata dal governo prevede che tale quota arrivi al 10% entro il 2020, creando un mercato stimabile intorno ai cinque miliardi di euro: un’occasione da non perdere per gli investitori stranieri, soprattutto per paesi, come l’Italia ad esempio, che godono di un vantaggio comparato in termini di flussi di scambio, rapporti consolidati ed expertise da impiegare sul territorio. Si tratta di un mercato dalle potenzialità ancora inespresse, ma che potrebbe attrarre notevoli capitali: non è quindi un caso che l’italiana Enel abbia già stretto importanti accordi con la prima produttrice di energia elettrica russa, la Rushidro, per lo sviluppo di progetti sulle energie rinnovabili e che Gazprom, Eurotechnika, BioGazEnergostroy abbiano da poco firmato con l’olandese Gasunie un memorandum per la distribuzione in Europa del biodiesel prodotto nella Federazione. Questi sono solo due esempi di un settore che sembra essere in fermento in Russia, nella quale, a tale scopo, si stanno organizzando diversi incontri a livello internazionale affinché gli operatori esteri vengano messi a conoscenza delle potenzialità del mercato russo. Una di queste è il CIS Sustainable Energy Forum, nato solo nel 2010, nel corso del quale vengono soprattutto messe in luce le riforme in campo legale, amministrativo e burocratico che i governi della CSI hanno intrapreso per agevolare gli investimenti e la produzione, senza tralasciare le opportune analisi economiche e l’esposizione dei progetti già in fase di implementazione.

Come accennato, i forum che si succedono sul territorio russo abbracciano pressoché qualsiasi campo. Le Olimpiadi invernali del 2014, ad esempio, sono per Sochi e per tutta la regione di Krasnodar un’opportunità imperdibile di sviluppo: dal 2002 qui ha luogo il Kuban Economic Forum, rinominato dal 2007 Sochi International Investment Forum, che si focalizza sulle opportunità di investimento nella regione, soprattutto nel settore turistico, agroalimentare e dell’efficienza e sostenibilità della produzione energetica, senza trascurare i progetti infrastrutturali e l’edilizia. Le cifre del forum del settembre 2011 non sono ancora state rese note, ma confrontando quelle degli anni precedenti esse sono in costante aumento e il numero e il valore dei progetti di investimento conclusi assume proporzioni sempre più importanti: nel 2010 sono stati firmati oltre 370 accordi, per un valore totale di circa 768 miliardi di rubli.

Economia e politica: le due facce dell’approccio alla Russia

I forum economici russi rappresentano, con buona approssimazione, la cartina tornasole dello stato dell’economia russa e la dimostrazione di come le relazioni economiche internazionali riescano sempre più a rendere conto solo a se stesse. L’analisi di questo aspetto richiederebbe un approfondimento ben più strutturato, ma non sono pochi i casi in cui si può riscontrare una disarmonia tra lo status dei rapporti politici e quello dei flussi economici e finanziari.

Prescindendo dall’area russa, i principali paesi verso i quali la Russia esporta i suoi prodotti sono europei (Olanda, Italia e Germania), seguiti dalla Cina e, poco oltre, dagli Stati Uniti (in ottava posizione). Allo stesso modo i primi tre paesi da cui provengono le importazioni russe sono Cina, Germania e Stati Uniti (l’Italia è in sesta posizione)ii.

In altre parole, i maggiori rapporti di interscambio si hanno proprio con gli stati con i quali i rapporti politici sono storicamente complicati: l’obiettivo, mai completamente sopito, di potersi contrapporre all’unilateralismo americano, resosi più evidente dal secondo mandato di Putin in poi, è solo una faccia della medaglia dei rapporti russo-statunitensi. Allo stesso modo, l’ambivalenza del rapporto tra Mosca e Pechino, ben rappresentato anche all’interno della Shanghai Cooperation Organization, deve sempre fare i conti con l’interdipendenza che essi hanno nel settore energetico.

L’Europa, infine, rappresenta l’epitome di questo rapporto contraddittorio, che sembra ancora non aver trovato una soluzione: la prossimità geografica e la complementarietà delle rispettive economie sono solo alcuni degli aspetti che potrebbero portare ad una maggiore cooperazione, che tuttavia continua ancora a scontrarsi con un profondo scetticismo. In attesa di vedere una Russia più democratica e più vicina ai valori occidentali, l’Europa continua a tenere politicamente al margine Mosca, alternando tentativi di cooperazione ad altri di incomprensione, ma così facendo rischia di buttarla sempre più tra le braccia di Pechino.

 

* Francesca Malizia, laureata in Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

 

 

i Fonti Rosstat, Federal State Statistics Service: http://www.gks.ru/bgd/regl/b11_06/IssWWW.exe/Stg/d03/14-07.htm

ii Fonti Rosstat, Federal State Statistics Service: http://www.gks.ru/bgd/regl/b11_12/IssWWW.exe/stg/d02/26-05.htm

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La sfida dell’India: nascita di una superpotenza?

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Si è tenuta a Trieste giovedì 1 dicembre 2011 alle ore 17.30, presso l’aula D1 della Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università degli Studi di Trieste (sita in Via Filzi 14), la conferenza La sfida dell’India.
Sono intervenuti come relatori Francesco Brunello Zanitti (ricercatore all’IsAG, autore di Progetti di egemonia), Vincenzo Mungo (redazione esteri di Radio RAI, autore de La sfida dell’India) e Arduino Paniccia (docente di Studi strategici all’Università degli Studi di Trieste).
L’organizzazione è stata a cura dell’Associazione “Strade d’Europa” in collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) ed il contributo dell’Università degli Studi di Trieste. L’evento rientra nel Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia.
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«Узбекистан – своеобразный и неповторимый центр туризма на Великом шелковом пути»

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Jahonnews.uz

17.11.2011 09:34
ИА «Жахон», Италия, Модена – В эти дни в ряде регионов Италии Посольством Республики Узбекистан при содействии местных администраций проводятся мероприятия, посвященные 20-летию Государственной независимости нашей страны.

В частности, в городе Модена региона Эмилия-Романья состоялась презентация экономического и туристического потенциала Республики Узбекистан.

В ней приняли участие представители Совета провинции Модена, крупных туристических агентств региона, деловых, академических кругов города и СМИ.

Вниманию участников презентации была представлена подробная информация о политическом и социально-экономическом развитии Узбекистана за годы независимости, достижениях в области государственного и общественного строительства, парламентской и законотворческой деятельности.

Высоко оценив успехи республики на самостоятельном пути развития, заместитель председателя Совета провинции Модена Мауро Сигинолфи отметил, что «Узбекистан входит в число немногих государств мира, которые посредством своевременно принятых мер смогли не только предотвратить кризис в стране, но и достичь устойчивого экономического роста. Это является важным фактором привлекательности и перспективности узбекской экономики для притока зарубежных инвестиций».

По мнению М.Сигинолфи, высокий промышленный потенциал, повышенное внимание правительства к развитию малых и средних предприятий и производство высокотехнологичной продукции позволит Узбекистану достичь в самое ближайшее время больших объемов экспорта и обеспечить мощную поддержку для реализации новых инновационных проектов.

Как считает редактор итальянского информационно-аналитического журнала «Евразия. Обозрение геополитических исследований» Тиберио Грациани, одним из главных достижений  Узбекистана являются динамично развивающаяся экономика с высоким потенциалом и большой международный авторитет. По его словам, «в молодой и независимой стране в результате грамотной политики нынешнее поколение получило возможность определять свою судьбу, избрало самостоятельный путь развития».

Т.Грациани особо отметил, что сегодня среди наиболее эффективных моделей реформирования и модернизации экономики, доказавших свою состоятельность в условиях продолжающегося мирового финансового и экономического кризиса, а также широкое признание на международном уровне, получила «узбекская модель» развития, разработанная под руководством Президента Республики Узбекистан Ислама Каримова.

В ходе мероприятия состоялось слайд-шоу «Жемчужины Узбекистана», ознакомившее участников с уникальными древними архитектурными ансамблями, распространены информационные материалы о республике на итальянском языке.

Представитель туристического агентства «Франкороссо» Франческа Андреани отметила, что Узбекистан, будучи известным своей многовековой историей, величественной архитектурой, богатым историко-культурным наследием и гостеприимством народа, является своеобразным и неповторимым центром туризма на Великом шелковом пути. По ее мнению, «несмотря на большую конкуренцию в данной сфере, Узбекистан превратился в одну из самых посещаемых стран, которой удается успешно реализовывать свой богатый туристический потенциал».

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Cecchini e “rivoluzioni colorate”. Rassegna storica e analisi

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Cecchini sconosciuti hanno giocato un ruolo fondamentale in tutte le cosiddette «Rivoluzioni della primavera araba», eppure, nonostante i rapporti sulla loro presenza nei media
mainstream, sorprendentemente è stata rivolta poca attenzione sul loro scopo e ruolo. Il giornalista investigativo russo Nikolaj Starikov ha scritto un libro che tratta il ruolo dei cecchini sconosciuti nella destabilizzazione dei paesi colpiti da un cambio di regime da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. Il seguente articolo cerca di chiarire alcuni esempi storici di questa tecnica, al fine di fornire uno sfondo all’interno del quale comprendere l’attuale guerra occulta contro il popolo della Siria da parte degli squadroni della morte al servizio delle intelligence occidentali. [1] 

Romania 1989
Nel documentario di Susanne Brandstätter ‘Scacco matto: Strategia della Rivoluzione’, trasmessa sulla rete televisiva Arte qualche anno fa, ufficiali delle intelligence occidentali hanno rivelato come squadroni della morte sono stati utilizzati per destabilizzare la Romania e rivoltare il popolo contro il capo dello Stato Nicolai Ceausescu. Il film di Brandstätter è una tappa obbligata per chiunque sia interessato su come le agenzie di intelligence occidentali, gruppi per i diritti umani e la stampa aziendale colludono con la distruzione sistematica dei paesi la cui leadership è in conflitto con gli interessi del grande capitale e dell’impero.
L’ex agente segreto dei servizi segreti francesi, la DGSE (Direction générale de la sécurité extérieure) Dominique Fonvielle, ha parlato apertamente del ruolo degli agenti segreti occidentali nel destabilizzare la popolazione rumena. “Come si fa ad organizzare una rivoluzione? Credo che il primo passo sia quello di individuare le forze di opposizione in un determinato paese. E’ sufficiente avere un servizio di intelligence altamente sviluppato, al fine di determinare quali persone siano abbastanza credibili per avere l’influenza per destabilizzare il popolo a svantaggio del regime al potere.”[2]
Questa aperta e rara ammissione della sponsorizzazione del terrorismo occidentale è giustificata sulla base del “bene maggiore” che ha portato alla Romania il capitalismo del libero mercato. Era necessario, secondo gli strateghi della “rivoluzione” in Romania, che alcune persone morissero. Oggi, la Romania resta uno dei paesi più poveri in Europa. Su una relazione di Euractiv si legge:”La maggior parte romeni associa gli ultimi due decenni al continuo processo di impoverimento e deterioramento delle condizioni di vita, secondo il Life Quality Research Institute della Romania, citato dal quotidiano Financiarul”. [3]
I funzionari dell’intelligence occidentale, intervistati nel documentario hanno anche rivelato come la stampa occidentale ha avuto un ruolo centrale nella disinformazione. Per esempio, le vittime dei cecchini filo-occidentali sono state fotografate presentandole al mondo come prova di un dittatore folle che “uccide il suo stesso popolo”.
Ancora oggi, c’è un museo nelle strade secondarie di Timisoara Romania, che promuove il mito della “rivoluzione rumena”. Il documentario di Arte è stata una delle rare occasioni in cui la grande stampa ha rivelato alcuni dei segreti oscuri della democrazia liberale occidentale. Il documentario ha causato uno scandalo quando fu mandato in onda in Francia, con il prestigioso Le Monde Diplomatique che discuteva del dilemma morale del terrorismo supportato dall’occidente nel suo desiderio di diffondere la ‘democrazia’.
Dalla distruzione della Libia e dalla guerra occulta in corso in Siria, Le Monde Diplomatique si è posto nettamente dalla parte della correttezza politica, condannando Bashar al-Assad per i crimini della DGSE e della CIA. Nella sua edizione attuale, l’articolo di prima pagina si legge ‘Ou est la gauche?’ Dov’è la sinistra? Certamente non nelle pagine di Le Monde Diplomatique!

Russia 1993
Nel corso della contro-rivoluzione di Boris Eltsin in Russia, nel 1993, quando il parlamento russo è stato bombardato causando la morte di migliaia di persone, i contro-rivoluzionari di Eltsin fecero ampio uso dei cecchini. Secondo molti rapporti di testimoni oculari, furono visti cecchini sparare sui civili dall’edificio di fronte l’ambasciata statunitense a Mosca. I cecchini furono attribuiti al governo sovietico dai media internazionali. [4]

Venezuela 2002
Nel 2002, la CIA ha tentato di rovesciare Hugo Chavez, presidente del Venezuela, con un colpo di stato militare. L’11 aprile 2002, una marcia dell’opposizione verso il palazzo presidenziale fu organizzata dall’opposizione venezuelana sostenuta dagli Stati Uniti. I cecchini nascosti negli edifici vicino al palazzo aprirono il fuoco contro i manifestanti, uccidendone 18. I media venezuelani ed internazionali affermarono che Chavez “uccideva il suo stesso popolo”, giustificando così il colpo di stato militare, presentato come un intervento umanitario. Successivamente. è stato dimostrato che il golpe era stato organizzato dalla CIA, ma l’identità dei cecchini non è mai stata stabilita.

Thailandia aprile 2010
Il 12 aprile 2010, il Christian Science Monitor ha pubblicato un rapporto dettagliato dei disordini in Thailandia tra gli attivisti delle “camicie rosse” e il governo thailandese. Il titolo dell’articolo diceva: ‘Le proteste delle camice rosse della Thailandia oscurate da cecchini sconosciuti, sfilata di bare’.
Come le loro controparti in Tunisia, le camicie rosse della Thailandia chiedevano le dimissioni del primo ministro tailandese. Mentre una pesante risposta da parte delle forze di sicurezza thailandesi ai manifestanti fu indicata nella relazione, la versione degli eventi del governo venne anche riportata: “Mr. Abhisit ha si è solennemente rivolto alla televisione per raccontare la sua storia. Ha accusato la teppaglia armata, o “terroristi”, per le intense violenze (almeno 21 persone morte e 800 ferite) e sottolineato la necessità di un’inchiesta approfondita sull’assassinio di soldati e manifestanti. La televisione di stato ha trasmesso immagini ripetute di soldati sotto il tiro di proiettili ed esplosivi”.
Il rapporto del CSM ha continuato a citare ufficiali tailandesi e diplomatici occidentali anonimi: “Osservatori militari dicono che le truppe thailandesi sono incappato in una trappola tesa da agenti provocatori con esperienza militare. Colpendo i soldati dopo il tramonto e scatenando battaglie caotiche con i manifestanti inermi, uomini armati sconosciuti hanno assicurato pesanti perdite da entrambe le parti. Alcuni sono stati catturati delle telecamere e visti dai giornalisti, compreso questo. Cecchini sparavano ai comandanti militari, indicando un grado di pianificazione anticipata e la conoscenza dei movimenti dell’esercito, dicono diplomatici occidentali informati dai funzionari thailandesi. Mentre i leader delle manifestazioni hanno negato l’uso delle armi da fuoco e dicono che la loro lotta è non violenta, non è chiaro se i radicali nel movimento sapessero della trappola. “Non si può pretendere di essere un movimento politico pacifico e avere un arsenale di armi dietro, se necessario. Non si può avere entrambe le cose”, dice un diplomatico occidentale in costante contatto con i leader della protesta.” [5]
L’articolo del CSM indaga anche la possibilità che i cecchini potessero essere schegge impazzite dei militari tailandesi, usato come agenti provocatori per giustificare un giro di vite contro l’opposizione democratica. La classe dirigente della Thailandia è attualmente sotto pressione da parte del gruppo delle Camicie rosse. [6]

Kirghizistan giugno 2010
Le violenze etniche scoppiate nella repubblica dell’Asia centrale del Kirghizistan nel giugno 2010. E’ stato ampiamente riportato che cecchini sconosciuti hanno aperto il fuoco sui membri della minoranza uzbeka in Kirghizistan. Eurasia.net riporta: “In molti mahallas usbechi, gli abitanti offrono una testimonianza convincente di uomini armati che sparavano sui loro quartieri da posizioni avanzate. Gli uomini asserragliati nel quartiere Arygali Niyazov, per esempio, testimoniarono di aver visto uomini armati ai piani superiori del vicino ostello dell’istituto medico, con vista sulle stradine del quartiere. Hanno detto che durante il culmine della violenza, questi uomini armati coprivano attaccanti e saccheggiatori, aggredendo la loro zona con il tiro dei cecchini. Uomini in altri quartieri uzbechi raccontano storie simili.”
Tra voci e notizie non confermate che circolano nel Kirghizistan, dopo le violenze del 2010, vi è chi sostiene che le forniture di acqua alle aree uzbeke erano state avvelenate. Tali voci erano state anche diffuse contro il regime di Ceaucescu in Romania, durante il colpo di stato appoggiato dalla CIA, nel 1989 Eurasia.net continua a sostenere che: “Molte persone sono convinte di aver visto mercenari stranieri agire come cecchini. Questi presunti combattenti stranieri si distinguono per il loro aspetto – abitanti dicono di aver visto cecchini bianchi e alti, biondi, e cecchini donne degli stati baltici. L’idea di cecchini inglesi che devastano le strade sparando sugli uzbeki a Osh, è anch’essa popolare. Non ci sono state conferme indipendenti di tali avvistamenti da parte dei giornalisti stranieri o rappresentanti di organismi internazionali”. [7]
Nessuno di questi rapporti è stato studiato in modo indipendente o confermato. E’ quindi impossibile trarre conclusioni difficili da queste storie. Le violenze etniche contro i cittadini uzbeki in Kirghizistan si sono verificate di pari passo con la rivolta popolare contro il regime appoggiato dagli USA, che molti analisti hanno attribuito alle macchinazioni di Mosca. Il regime Bakiyev è salito al potere con un colpo di stato popolate della CIA, noto al mondo come Rivoluzione dei Tulipani nel 2005.
Situato a ovest della Cina e al confine con l’Afghanistan, il Kirghizistan ospita una delle più grandi e importanti basi militari statunitensi in Asia centrale, la base aerea di Manas, che è vitale per l’occupazione NATO del vicino Afghanistan. Nonostante le preoccupazioni iniziali, le relazioni USA/Kirghizistan sono rimaste buone sotto il regime del presidente Roza Otunbayeva. Questo non è sorprendente in quanto Otunbayeva aveva già partecipato nella rivoluzione dei tulipani creata dagli USA nel 2004, prendendo il potere come ministro degli esteri. Fino ad oggi nessuna indagine è stata condotta sulle origini delle violenze etniche che si diffusero in tutto il sud del Kirghizistan nel 2010, né i saccheggiatori e i cecchini sconosciuto sono stati identificati e arrestati.
Data l’importanza geostrategica e geopolitica del Kirghizistan sia per gli Stati Uniti che per la Russia, e il precedente record dell’uso degli squadroni della morte per dividere e indebolire i paesi e per mantenere il dominio degli Stati Uniti, il coinvolgimento degli Stati Uniti nella diffusione del terrorismo in Kirghizistan non si può escludere. Un modo efficace per mantenere la presa sui paesi dell’Asia centrale, sarebbe esacerbare le tensioni etniche. Il 6 agosto 2008, il quotidiano russo Kommersant riferiva che un nascondiglio di armi degli Stati Uniti era stato trovato in una casa nella capitale del Kirghizistan, Bishkek, che era stata affittata da due cittadini statunitensi. L’ambasciata degli Stati Uniti sosteneva che le armi erano usati per le esercitazioni “anti-terrorismo”. Tuttavia, questo non è stato confermato dalle autorità del Kirghizistan. [8]
Il sostegno militare occulto degli Stati Uniti ai gruppi terroristici nella ex Repubblica federale di Jugoslavia si è rivelata una strategia efficace nel creare le condizioni per i bombardamenti “umanitari” del 1999. Un mezzo efficace per mantenere il governo di Bishkek fermamente a fianco degli statunitensi sarebbe insistere sulla presenza statunitense ed europea nel paese per aiutare a “proteggere” la minoranza uzbeca.
L’intervento militare simile a quello nella ex Jugoslavia da parte dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa è stato difeso dal New York Times, il cui fuorviante articolo sui disordini del 24 giugno 2010 ha il titolo “Il Kirghizistan chiede all’Organismo europeo di sicurezza delle squadre di polizia”. L’articolo è fuorviante, in quanto il titolo contraddice il rapporto reale, che cita un funzionario del Kirghizistan che afferma: “Un portavoce del governo ha detto che funzionari hanno discusso la presenza esterna della polizia con l’OSCE, ma ha detto di non poter confermare che la richiesta di uno schieramento sia stato fatto.”
Non ci sono prove in questo articolo di una qualsiasi richiesta da parte del governo del Kirghizistan, per un intervento militare. Infatti, l’articolo presenta molte prove del contrario. Tuttavia, prima che il lettore abbia la possibilità di leggere la spiegazione del governo del Kirghizistan, l’articolista del New York Times presenta la narrazione ormai fin troppo orribilmente familiare, dei popoli oppressi che mendicano all’Occidente di venire a bombardare o occupare il loro paese: “L’etnia uzbeka nel sud ha chiesto a gran voce un intervento internazionale. Molti hanno detto che sono stati attaccati nei loro quartieri, non solo dalla folla, ma anche dai militari e dalla polizia del Kirghizistan.”[9]
Solo verso la fine di questo articolo troviamo che le autorità del Kirghizistan accusano il dittatore appoggiato dagli Usa di fomentare la violenza etnica nel paese, attraverso l’utilizzo di jihadisti islamici in Uzbekistan. Questa politica di utilizzare le tensioni etniche per creare un ambiente di paura per puntellare una dittatura estremamente impopolare, la politica di usare il jihadismo islamico come strumento politico per creare quello che l’ex Consigliere alla Sicurezza Nazionale, Zbigniew Bzrezinski, ha definito “un arco di crisi”, lega bene con la storia del coinvolgimento degli Stati Uniti in Asia centrale, dalla creazione di al-Qaida in Afghanistan nel 1978, fino ai giorni nostri.
Ancora una volta, la questione persiste, chi erano i “cecchini sconosciuti” che terrorizzavano la popolazione usbeca, da dove provenivano le loro armi e quale beneficio potrebbero trarre da un conflitto etnico nei punti caldi geopolitici dell’Asia centrale?

Tunisia gennaio 2011
Il 16 gennaio 2011, la CNN aveva riferito che ‘bande armate’ stavano combattendo le forze di sicurezza tunisine. [10] Molti degli omicidi commessi durante la rivolta tunisina, furono attribuiti a “ignoti cecchini”. Ci sono stati anche i video pubblicati su Internet che mostrano cittadini svedesi detenuti dalle forze di sicurezza tunisine. Uomini che erano chiaramente armati di fucili da cecchino. Russia Today aveva trasmesso delle immagini drammatiche. [11]
A dispetto degli articoli dei professori Michel Chossudovsky, William Engdahl e altri, che dimostrano come le rivolte in Nord Africa seguissero il modello dei golpe di massa appoggiati dagli Stati Uniti, piuttosto che delle rivoluzioni autenticamente popolari, partiti e organizzazioni di sinistra hanno continuato a credere alla versione dei fatti presentati da al-Jazeera e dalla stampa mainstream. se la sinistra avesse preso il vecchio libro di Lenin, avrebbe trasposto i suoi commenti sulla rivoluzione di febbraio/marzo in Russia così: “L’intero corso degli eventi nella Rivoluzione do gennaio/febbraio mostra chiaramente che le ambasciate britanniche, francesi e statunitensi, con i loro agenti e “connessioni”, … hanno direttamente organizzato un complotto in combinazione con una sezione dei generali e ufficiali dell’esercito tunisino, con l’obiettivo esplicito della deposizione di Ben Ali.”
Ciò che la sinistra non ha capito, è che a volte è necessario all’imperialismo per rovesciare alcuni dei suoi clienti. Un degno successore di Ben Ali potrebbe sempre essere trovato tra i feudalisti dei Fratelli Musulmani, che ora hanno la prospettiva di prendere il potere. Nei loro slogan rivoluzionari e nell’arrogante insistenza che gli eventi in Tunisia e in Egitto siano “rivolte spontanee e popolari”, hanno commesso quello che Lenin aveva identificato come i peccati più pericoloso in una rivoluzione, cioè la sostituzione dell’astratto con il concreto. In altre parole, i gruppi di sinistra sono stati semplicemente ingannati dalla raffinatezza dagli eventi della “primavera araba” sostenuta dall’occidente.
Ecco perché la violenza dei manifestanti, e in particolare l’uso diffuso di cecchini, eventualmente collegate ai servizi segreti occidentali, è stato il grande fatto trascurato della rivolta tunisina. Le stesse tecniche sarebbe state usate in Libia poche settimane dopo, costringendo la sinistra a riprendere e modificare il suo entusiasmo iniziale per la “primavera araba” della CIA.
Quando si parla di “sinistra” qui, ci si riferisce a veri e propri partiti di sinistra, vale a dire, i partiti che hanno sostenuto la Grande Jamahirya Araba Socialista Popolare Libica nella sua lunga e coraggiosa lotta contro l’imperialismo occidentale, non gli infantili gonzi piccolo-borghesi che hanno sostenuto i terroristi della NATO di Bengasi. La palese idiozia di una tale posizione dovrebbe essere chiara a chiunque che capisca la politica globale e la lotta di classe.
Egitto 2011
Il 20 ottobre 2011, il quotidiano Telegraph ha pubblicato un articolo intitolato: “Nostro fratello è morto per un Egitto migliore”. Secondo il Telegraph, Mina Daniel, un attivista anti-governativo del Cairo, era stato ucciso da un cecchino ignoto, ferendolo mortalmente al petto”. Inspiegabilmente, l’articolo non è più disponibile sul sito web del Telegraph, per una lettura on-line. Ma una ricerca su Google di ‘Egitto, cecchino ignoto, Telegraph’ mostra chiaramente la spiegazione sopra citata per la morte di Mina di Daniel. Allora, chi potevano essere questi “ignoti cecchini”?
Il 6 febbraio al-Jazeera riferiva che il giornalista egiziano Ahmad Mahmoud era stato colpito dai cecchini mentre tentava di seguire gli scontri tra le forze di sicurezza egiziane e i manifestanti. Riferendosi alle dichiarazioni fatte dalla moglie di Mahmoud, Enas Abdel-Alim, l’articolo di al-Jazeera insinua che Mahmoud potrebbero essere stato ucciso dalle forze di sicurezza egiziane: “Abdel-Alim aveva detto che diversi alcuni testimoni oculari le avevano detto che un capitano di polizia in uniforme delle famigerate forze di sicurezza centrale egiziane aveva urlato al marito di smettere di filmare. Prima che Mahmoud avesse anche avuto la possibilità di reagire, ha detto, un cecchino gli ha sparato”. [12]
Mentre l’articolo di al-Jazeera avanza la teoria che i cecchini erano agenti del regime di Mubarak, il loro ruolo nella rivolta rimane ancora un mistero. Al-Jazeera, la stazione televisiva del Qatar di proprietà dell’emiro Hamid bin Khalifa al-Thani, ha svolto un ruolo fondamentale nel suscitare le proteste in Tunisia ed Egitto, prima di lanciare una campagna di propaganda di guerra e di menzogne assolute pro-NATO durante la distruzione della Libia. Il canale del Qatar è un partecipante centrale nell’attuale guerra segreta condotta dalle agenzie della NATO e dai loro clienti contro la Repubblica di Siria. La disinformazione incessante di al-Jazeera contro la Libia e la Siria, ha portato alla dimissioni di alcuni giornalisti di spicco come il capo stazione di Beirut, Ghassan Bin Jeddo [13] e del senior executive di al-Jazeera Wadah Khanfar, che fu costretto a dimettersi dopo che un cablo di Wikileaks l’aveva rivelato che cooperava con la Central Intelligence Agency. [14]
Molte persone sono state uccise durante la rivoluzione colorata in Egitto appoggiata dagli USA. Anche se gli omicidi sono stati attribuiti all’ex semi-cliente Hosni Mubarak, il coinvolgimento dei servizi segreti occidentali non si può escludere. Tuttavia, occorre sottolineare che il ruolo dei cecchini sconosciuti in manifestazioni di massa, resta complesso e sfaccettato, e quindi non si deve saltare alle conclusioni. Ad esempio, dopo il massacro della domenica di sangue (Domhnach na Fola) a Derry, Irlanda 1972, dove furono uccisi manifestanti pacifici da parte dell’esercito britannico, i funzionari britannici hanno affermato che erano finiti sotto il fuoco dei cecchini. Ma dopo 30 anni d’indagine sulla Domenica di Sangue ha successivamente dimostrato che questo è falso. Ma la domanda persiste ancora una volta, chi erano i cecchini in Egitto e a quali finalità servono?

Libia 2011
Durante la destabilizzazione della Libia, un video è stato trasmesso da al-Jazeera con la pretesa di mostrare pacifici manifestanti “pro-democrazia” presi di mira dalle “forze di Gheddafi”. Il video era stato modificato per convincere lo spettatore che i manifestanti anti-Gheddafi erano stati uccisi dalle forze di sicurezza. Tuttavia, la versione non modificata del video è disponibile su youtube. Mostra chiaramente i manifestanti pro-Gheddafi con le bandiere verdi presi sotto tiro da cecchini sconosciuti. L’attribuzione reati della NATO alle forze di sicurezza della Jamahirya libica, era una caratteristica costante della brutale guerra mediatica scatenata contro il popolo libico. [15]

Siria 2011
Il popolo della Siria è assediato da squadroni della morte e da cecchini dallo scoppio delle violenze di marzo. Centinaia di soldati e personale di sicurezza siriani sono stati assassinati, torturati e mutilati da militanti salafiti e dai Fratelli musulmani. Eppure i media aziendali internazionali continuano a diffondere la patetica menzogna che i morti sono il risultato della dittatura di Bashar al-Assad.
Quando ho visitato la Siria ad aprile di quest’anno, ho personalmente incontrato i commercianti ed i cittadini di Hama che mi hanno detto di aver visto terroristi armati appestare le strade di quella città un tempo tranquilla, terrorizzando il quartiere. Ricordo che discutendo con un venditore di frutta nella città di Hama, che parlava dell’orrore che aveva visto quel giorno e mi descriveva le scene di violenza, la mia attenzione fu attratta da un titolo del Washington Post mostrato alla televisione siriana: “La CIA sostiene l’opposizione siriana”. La Central Intelligence Agency offre addestramento e finanziamento ai gruppi che operano agli ordini degli interessi imperialistici statunitensi. La storia della CIA dimostra che supportare le forze dell’opposizione significa fornirgli armi e finanziarli, azioni illegali secondo il diritto internazionale.
Pochi giorni dopo, in un ostello della antica, colta città di Aleppo, ho parlato con un uomo d’affari siriano e la sua famiglia. Gli uomini d’affari dirigono molti alberghi in città e sono pro-Assad. Mi disse che aveva l’abitudine di guardare al-Jazeera, ma ora aveva dubbi sulla sua onestà. Mentre conversavamo, al-Jazeera sullo sfondo mostrava scene di soldati siriani battere e torturare manifestanti. “Ora, se questo è vero, è semplicemente inaccettabile”, aveva detto. A volte è impossibile verificare se le immagini mostrate in televisione siano vere o no. Molti dei crimini attribuiti all’esercito siriano sono state commessi da bande armate, come ad esempio aver gettato dei corpi mutilati nel fiume a Hama, presentato al mondo come ulteriore prova dei crimini del regime di Assad.
C’è una minoranza di oppositori innocenti al regime di Assad che crede a tutto quello che vedono e sentono su al-Jazeera e le altre stazioni satellitari filo-occidentali. Queste persone semplicemente non capiscono la complessità della politica internazionale. Ma i fatti sul terreno dimostrano che la maggior parte del popolo in Siria sostiene il governo. I siriani hanno accesso a tutti i siti Internet e ai canali televisivi internazionali. Possono guardare la BBC, CNN, al-Jazeera, leggere il New York Times on-line o Le Monde, prima di sintonizzarsi sui propri media statali. A questo proposito, molti siriani sono più informati sulla politica internazionale rispetto alla media europea o statunitense. La Maggior parte degli europei e degli statunitensi crede nei loro media. Pochi sono in grado di leggere la stampa siriana in arabo o guardare la televisione siriana. Le potenze occidentali sono i padroni del discorso, possedendo i media. La primavera araba è stato l’esempio più orribile dell’abuso sfrenato di questo potere.
La disinformazione è efficace nel seminare il seme del dubbio tra coloro che sono sedotti dalla propaganda occidentale. I media di stato siriani hanno smentito centinaia di menzogne di al-Jazeera fin dall’inizio di questo conflitto. Eppure i media occidentali si rifiutano di riferire anche la posizione del governo siriano, affinché la copertura dell’altro lato di questa storia non favorisca un minimo pensiero critico nell’opinione pubblica.

Conclusione
L’impiego di mercenari, squadroni della morte e cecchini dalle agenzie di intelligence occidentali è ben documentato. Nessun governo razionale che tentasse di rimanere al potere, ricorrerebbe a cecchini sconosciuto per intimidire i suoi avversari. Sparare contro manifestanti innocenti sarebbe controproducente, di fronte alle pressioni assolute da parte dei governi occidentali, decisi ad installare un regime vassallo a Damasco. Sparare a manifestanti disarmati è accettabile solo in dittature che godono del sostegno incondizionato dei governi occidentali come Bahrain, Honduras o Colombia.
Un governo che è così massicciamente supportato dalla popolazione della Siria, non saboterebbe la propria sopravvivenza, usando i cecchini contro le proteste di una piccola minoranza. L’opposizione al regime siriano è, infatti, minuscola. Gas lacrimogeni, arresti di massa e altri metodi non letali sarebbero perfettamente sufficiente a un governo che desidera controllare dei dimostranti disarmati.
I cecchini sono utilizzati per creare il terrore, la paura e la propaganda anti-regime. Sono parte integrante di un cambiamento di regime sponsorizzato dall’occidente. Se si dovesse fare una critica seria al governo siriano nei mesi scorsi, è che non è riuscito ad attuare efficaci misure antiterrorismo nel paese. Il popolo siriano vuole le truppe per le strade e sui tetti degli edifici pubblici. Nelle settimane e nei mesi a venire, le forze armate siriane probabilmente conteranno sempre più sugli specialisti militari russi per rafforzare le difese del paese, mentre la crociata occidentale iniziata in Libia, si diffonde da marzo sul Levante.
Non vi è alcuna prova conclusiva che i cecchini che uccidono uomini, donne e bambini in Siria siano degli agenti dell’imperialismo occidentale. Ma c’è la prova schiacciante che l’imperialismo occidentale sta cercando di distruggere lo Stato siriano. Come in Libia, non hanno mai una volta menzionato la possibilità di negoziati tra la cosiddetta opposizione e il governo siriano. L’Occidente vuole il cambiamento di regime ed è determinato a ripetere il massacro in Libia per raggiungere questo obiettivo geopolitico.
Sembra ormai probabile che la culla della civiltà e della scienza sarà invasa da barbari semi-analfabeti, mentre il declino dell’Occidente si gioca nei deserti d’Oriente.

Global Research, 28 novembre 2011
http://globalresearch.ca
/PrintArticle.php?articleId=27904

Note
[1] http://nstarikov.ru/en/
[2] http://www.youtube.com/watch?v=1l8qjX4SzBY&feature=related
[3] http://www.euractiv.com/enlargement/romania-says-poverty-reduction-impossible-target-news-468172
[4] http://www.truthinmedia.org/Bulletins/tim98-3-10.html
[6] http://www.activistpost.com/2010/12/thailand-stage-set-for-another-color.html
[7] http://www.eurasianet.org/taxonomy/term/2813?page=6
[8 http://kommersant.com/p1008364/r_500/US-Kyrgyzstan_relations/
[9] http://www.nytimes.com/2010/06/25/world/asia/25kyrgyz.html
[11] http://www.youtube.com/watch?v=vIFxqXPQEQU&feature=related
[12] http://www.aljazeera.com/indepth/spotlight/anger-in-egypt/2011/02/201126201341479784.html
[13] http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4060180,00.html
[14] http://intelligencenews.wordpress.com/2011/09/21/01-828/
[15] http://www.youtube.com/watch?v=oQtM-59jDAo&feature=player_embedded#!

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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La crisi e l’Unione Europea: conflitto d’interessi o solo interessi?

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Da un lato stiamo riducendo il potere degli Stati e del settore pubblico attraverso privatizzazioni e deregolamentazione … Dall’altro stiamo trasferendo molti poteri dei governi nazionali ad una struttura più moderna a livello europeo. L’unificazione europea sta andando avanti, aiutando molto i nostri affari”

Daniel Janssen, ex presidente della European Roundtable of Industrialists (ERT), 2000

 

 

Conflitto d’interessi. Questa espressione ha dominato il dibattito politico italiano delle ultime due decadi, e probabilmente continuerà a farlo. A prescindere dalla reazione «emotiva» alla fine del governo Berlusconi che è divampata sulla stampa ed i media europei, è sicuramente un altro, e più alto, il conflitto di interessi che dovrebbe smuovere le nostre coscienze e farci riflettere sulla situazione attuale. Una commistione istituzioni/interessi privati economico-finanziari che, senza dubbio, incide in misura immensamente maggiore sulla realtà politica ed economica del nostro Paese e, in generale, degli Stati membri dell’Unione europea. Nell’ultimo ventennio la politica europea ed il ruolo degli Stati ha subito dei mutamenti che troppo spesso sono rimasti dietro le quinte e mai oggetto, se non in aspetti marginali e conditi della sola retorica «filo-europeista», di un dibattito aperto presso i cittadini e le opinioni pubbliche dei Paesi membri. Il Trattato di Maastricht e, in ultimo, il Trattato di Lisbona, insieme all’adozione della moneta unica europea e le altre tappe del percorso UE, ha portato negli anni ad una progressiva erosione di sovranità – politica, legislativa ed economica – dei singoli Stati ed un accentramento, a livello di istituzioni europee, di prerogative nazionali. Un trasferimento di sfere e poteri cui ci siamo letteralmente affidati acriticamente, a parte qualche sparuta voce all’interno dei vari contesti nazionali, e che abbiamo accettato senza chiederci dove il «processo di integrazione» ci stesse conducendo, con il risultato che il governo che esce vincitore dalle elezioni politiche nazionali incide, ad oggi, in maniera assai relativa sulla vita quotidiana dei cittadini, lasciando a istituzioni sovranazionali, per lo più non elette da alcun cittadino europeo, la disciplina di ambiti vitali. Un trasferimento di poteri che ha indotto l’allora ministro dell’Economia Tremonti, in una dichiarazione rilasciata alla Reuters nel gennaio di quest’anno, ad affermare che “questo processo porterà a un colossale trasferimento di sovranità… le politiche di bilancio ora non sono più nelle mani dei governi nazionali” . Nel momento in cui ai popoli europei era stato consentito di dire la loro sull’adozione o meno della Costituzione Europea, gli olandesi ed i francesi hanno detto NO nelle rispettive sedi referendarie, nel 2005. Il loro parere è stato elegantemente ignorato, facendo uscire la Costituzione dalla porta e poi rientrare dalla finestra sotto forma di Trattato, appunto, il Trattato di Lisbona. In merito alle modalità con cui quest’ultimo è stato adottato, assai significative sono le parole pronunciate da Valery Giscard d’Estaing, presidente della Convenzione costituzionale ed ex presidente francese: “Il Trattato di Lisbona è tale e quale alla Costituzione bocciata (dai referendum francese ed olandese nda). Solo la forma è stata modificata, proprio per evitare i referendum”. Come ugualmente esplicative sono le dichiarazioni di Giuliano Amato, rilasciate nel luglio del 2007, durante un suo intervento al Centro per la Riforma Europea di Londra: “Fu deciso che il documento fosse illeggibile, poiché così non sarebbe stato costituzionale (evitando così i referendum, nda). Fosse invece stato comprensibile, vi sarebbero state ragioni per sottoporlo a referendum, perché avrebbe significato che c’era qualcosa di nuovo (rispetto alla Costituzione bocciata nel 2005, nda)”. L’ex Primo Ministro irlandese, Garret FitzGerald, dalle pagine dell’Irish Times del 30 giugno 2007, fece notare come «i cambiamenti apportati al testo costituzionale non hanno effetti pratici. Sono stati semplicemente pensati affinchè i capi di governo potessero vendere alle loro nazioni la via della ratifica parlamentare, anzichè attraverso referendum». Come a dire: ci interessa il vostro parere solo se coincide con il nostro. Un episodio che oltre a porre prepotentemente sul piatto la questione del “deficit democratico” del percorso di costruzione dell’Europa, ci indirizza verso questioni di importanza cruciale e che in questa sede ci interessa analizzare: quali interessi vengono promossi a Bruxelles e come si sviluppa il processo decisionale soprattutto presso la Commissione Europea, il nuovo «esecutivo» del Vecchio continente. I principi di legittimità e trasparenza, tanto invocati in passato, vengono effettivamente rispettati? Si sta davvero costruendo “l’Europa dei cittadini”?

Ci sono diversi elementi che meritano di essere approfonditi, attori che influenzano, con assoluto successo visti i risultati, gli indirizzi e le politiche della Commissione. Il tracollo economico-finanziario, anche frutto di un processo di deregolamentazione a ritmi forsennati del settore, non ha fatto altro che acuire, con le sue drammatiche conseguenze nella vita reale delle popolazioni europee, alcune delle agghiaccianti contraddizioni in seno allo stesso establishment dell’Unione.

 

Bruxelles: il paradiso delle Lobbies. Quali interessi? Chi decide davvero?

 

E’ difficile fare una stima riguardo il numero esatto di lobbies e gruppi di interesse che compongono la folta costellazione che ha sede a Bruxelles. Un numero approssimativo fissa intorno a quindicimila i lobbisti professionisti. Oltre il 70% lavora al servizio del grande business; il 20% di essi rappresenta gli interessi di regioni, città ed altre istituzioni internazionali, mentre solo il 10% promuove le istanze della società civile, gruppi ambientalisti, associazioni di consumatori, sindacati, ecc…

Come organo che, di fatto, prende le decisioni e le applica, in qualità di nuovo «esecutivo» dell’Unione, è nei corridoi della Commissione Europea che si concentrano tutti gli sforzi dei gruppi di interesse, sempre tenendo conto della sproporzione di cui sopra. Ma andiamo ad analizzare chi sono queste lobbies che concretamente determinano, su una nutrita gamma di sfere ed ambiti, la politica europea.

 

Il Transatlantic Business Dialogue (TABD). Si tratta senza dubbio della più ampia e strutturata alleanza tra grandi corporations e Stati, forse la più potente lobby industriale del mondo. Fondata nel 1995, essa costituisce una piattaforma di dialogo costante tra la Commissione Europea, i rappresentanti del governo nordamericano e i leader del grande business “made in USA” ed europeo. I suoi incontri «permettono scambi di visioni e discussioni intorno alle scelte politiche tra i leader del business mondiale, i rappresentanti del governo statunitense ed i commissari dell’UE, al fine di sviluppare una stretta connessione tra il grande business ed i governi per risolvere specifici problemi, promuovere la cooperazione transatlantica e migliorare le opportunità di affari”. Nella lista dei suoi membri compaiono veri giganti multinazionali quali Ford, British American Tobacco, British Petroleum, BASF, Deloitte, Hernst&Young, Deutsche Bank, Microsoft, Pfitzer, Siemens, Thyssenkrupp, solo per citarne alcuni. Solo la Pfitzer, il colosso farmaceutico, ha un fatturato che eguaglia quello dei 18 Stati africani più ricchi. Come documentato dal giornalista Paolo Barnard, il TABD arriva al punto di presentare annualmente sul tavolo della Commissione una lista di priorità, sulla cui attuazione la Commissione si esprime dandosi letteralmente dei voti e manifestando tutte le migliori intenzioni per soddisfare le loro richieste, laddove la sua azione si fosse rivelata lacunosa. D’altronde, sulla “incisività” dell’azione del TABD si è espresso, nel 1997, l’allora Commissario europeo al Commercio, affermando come “il Trans Atlantic Business Dialogue è diventato un meccanismo efficace per ancorare le politiche dei governi agli interessi dei gruppi di affari.” E sulla «apertura» della Commissione verso tali raccomandazioni sono eloquenti le parole espresse, sempre nel 1997, dall’allora vice presidente della Commissione UE, nell’ambito di un intervento dinanzi ai rappresentanti delle industrie chimiche: “Siate puntuali, e cioè diteci per tempo se pensate che qualcosa debba essere fatto, o, ancora meglio, se pensate che qualcosa debba essere stroncato sul nascere.” La sua influenza sui processi decisionali ha indotto diversi accademici a definire il TABD come una nuova forma di governance, una commistione poteri pubblici/privati di immense proporzioni: ”Il TABD – fa notare Maria Green-Cowles, studiosa americana, esperta dell’argomento – offusca la tradizionale distinzione tra governance pubblica e privata, introducendone una in cui i businessmen negoziano di fatto in forum quadrilaterali con i governi». Un’influenza, come contenuto nel nome, che opera sulle due sponde dell’Atlantico. In un summit del TABD che risale al 1998, nei primi anni di vita della lobby, in cui essa peraltro portò a casa i più grandi successi, l’allora vice presidente degli Stati Uniti Al Gore dichiarò rivolgendosi ai presenti: «So che andate orgogliosi del fatto che più del 50% delle vostre raccomandazioni sono state tradotte in legge negli ultimi tre anni (dalla nascita del TABD nda)». Nel 2000, Pascal Lamy, attuale direttore generale del WTO (World Trade Organization), allora Commissario UE al Commercio nominato dal suo presidente Romano Prodi, rassicurò gli industriali del TABD che la Commissione “stesse facendo del suo meglio per mettere in pratica» le loro raccomandazioni. In quell’occasione Lamy proseguì elencando una serie di punti sui quali il TABD avrebbe voluto posticipare, indebolire o abolire completamente proposte o leggi esistenti, adottate dai governi, che avevano lo scopo di mettere dei paletti al grande business. Punti come l’adozione del principio di precauzione, sui quali Lamy affermò come «si siano fatti dei grandi progressi». Sulla strada della deregolamentazione, ovviamente, chini ai voleri del TABD. L’introduzione di un nuovo paradigma di liberalizzazione del mercato, in cui gli «elementi medi» vengono estromessi dal dialogo, «che per estensione – fa notare Public Citizen – significa estromettere i cittadini europei ed i consumatori, sindacati, organizzazioni ambientaliste e dei lavoratori».

BusinessEurope. E` composta da quarantuno federazioni nazionali di imprenditori ed industriali di trentacinque Paesi «che lavorano insieme per la crescita e la competitività in Europa». Proprio in nome della competitivness, la competitivita, principio aureo del processo di Lisbona, BE ha giustificato l’elaborazione di misure che sono state fatte proprie dalla Commissione Europea, praticamente in modo integrale. Misure che hanno un impatto economico e sociale drammatico sulle popolazioni delle nazioni europee. Quando il 25 marzo del 2011, il Consiglio Europeo ha approvato Europact, Il Patto per l’Euro, un pacchetto di misure scritto dalla Commissione, si nota come esse siano praticamente speculari rispetto alle «raccomandazioni» di BE. Tra di esse si legge, tra le altre, che «gli aumenti notevoli e continuati del costo del lavoro (leggi stipendi nda) possono erodere la competitività»; le pensioni devono essere riformate «allineando il sistema pensionistico alla situazione demografica nazionale, per esempio allineando l’età pensionistica con l’aspettativa di vita»; ancora, si impone di «rivedere le strutture decisionali sui salari e dove necessario il grado di centralizzazione di tale contrattazione»; si prevede l’introduzione di leggi interne «di natura sufficientemente severa e duratura», che i singoli Stati dovranno adottare al fine di porre, come usato nel linguaggio di BE, «barriere al deficit pubblico». Nell’attuazione di tali misure, alla Commissione spetta il ruolo di arbitro supremo, con il compito di monitorarne l’obbediente applicazione da parte dei governi nazionali. Continua il processo di espoliazione delle prerogative statali, dei governi che noi cittadini eleggiamo. Quindi, maggiore produttività accompagnata dalla riduzione degli stipendi. Ancora, «promuovere flessibilità e sicurezza dell’impiego», “come dire di aumentare le vendite di auto e migliorare la respirabilità dell’aria”, fa notare Barnard. Ciò che risalta agli occhi, oltre, naturalmente, alle conseguenze sulla vita reale di tali provvedimenti, è l’assoluta subordinazione della più importante tra le istituzioni politiche del nostro continente a poteri economici e finanziari i cui interessi sono di segno opposto rispetto alle istanze dei cittadini europei.

BusinessEurope è stato l’interlocutore principale della Commissione quando essa stava lavorando sul progetto «Global Europe», un nuovo quadro di iniziative in materia di politiche commerciali europee che ruota attorno alla conclusione di accordi regionali e bilaterali di libero scambio con Paesi terzi. Lanciato nel 2006 dall’allora Commissario al Commercio Peter Mandelson, Global Europe incarna, in particolare nella sua agenda esterna, il meglio del mantra neoliberista, spingendo verso lo smantellamento di «barriere», quali possono essere regolamentazioni in ambito sociale ed ambientale. Un piano, come dichiarato il 4 ottobre del 2006 da Celine Charveriat di Oxfam International, “ideato non per favorire la competitività, ma per esportare disuguaglianza e povertà”. Il 26 giugno del 2006, la Commissione inviò una bozza del testo a BE, estromettendo dalla dialettica ONG e sindacati. A molti incontri intorno a Global Europe, BE fece da tramite con altre importanti lobbies, come la European Services Forum (ESF), fondata dall’ex Commissario al Commercio dell’UE Leon Brittan, che al momento è un lobbista professionista per conto dell’industria dei servizi finanziari di Londra. Il 28 ottobre 2008, BE ha organizzato una conferenza, “Going Global: the Way Forward”, al fine di valutare i primi due anni di Global Europe. Dove? L’evento si svolse nell’edificio Charlemagne di Bruxelles: la sede della DG Trade, la Direzione Generale del Commercio della Commissione UE. Philippe de Buck di BusinessEurope ha candidamente dichiarato: «Quando la strategia è stata lanciata, ho chiesto al Commissario Mandelson di agire più spesso nelle vesti di Ambasciatore UE per l’Accesso al Mercato nel mondo. Penso gli piacesse questo incarico. O almeno ha preso questo nuovo incarico molto seriamente».

 

Tra i potenti gruppi di interesse che rappresentano il mondo del grande business non si può non considerare il peso che la European Roundtable of Industrialists (ERT) ha tuttora sull’adozione di decisioni a livello di governo europeo. L’ERT raccoglie circa quarantacinque dirigenti delle maggiori multinazionali tra cui Siemens, BMW, Total, Renault, BASF, Thyssenkrupp e le italiane Fiat, Eni, Cir e Telecom. La sua influenza sulla Commissione si è rivelata assai efficace in più di un’occasione. Sempre in nome della “competitiveness”, la liberalizzazione dei servizi, auspicata fortemente dalla ERT, “è stata intrapresa dall’UE, minacciando il mercato del lavoro in diversi Stati membri”, si sottolinea in un rapporto del Corporate Europe Observatory del gennaio di quest’anno. “Le politiche sociali sono state accantonate – prosegue il rapporto – ed il processo decisionale accelerato e privato di un aperto dibattito. Con modalità che sono al servizio del grande business, lasciando inascoltate altre voci”.

 

I Gruppi di Esperti. La formazione di «expert groups» – o «High Level Groups», quando composti da Commissari UE, europarlamentari o alti dirigenti – costituiscono forse il metodo di consulenza più frequentemente utilizzato dalla Commissione Europea. Ciò che esce da tali gruppi rappresenta spesso la struttura portante della legislazione fatta propria dalla Commissione. Anche qui l’influenza del grande business è schiacciante. Nel 2006-2007 venne costituito un High Level Group sulla Competitività, Energia ed Ambiente. Vennero invitati a partecipare anche membri del Parlamento Europeo, i quali rifiutarono di prendervi parte in quanto il gruppo, a parer loro, «minava l’indipendenza delle Istituzioni europee». Come confutare l’argomentazione alla base del loro diniego? Il Gruppo, infatti, era composto da rappresentanti di otto Stati membri, un sindacato, due organizzazioni ambientaliste e ben quattordici delegati di aziende multinazionali del calibro della British Petroleum, Siemens e Areva. C’è poi il caso del «Gruppo Larosiere», per la Regolamentazione finanziaria a livello europeo, che prende il nome dal suo coordinatore Jacques de Larosiere, ex consulente della banca francese BNP e co-direttore della lobby operante nel settore finanziario EuroFi. Costituito alla fine del 2008 per iniziativa dei capi di Stato e di governo e dal presidente della Commissione Barroso, il ristretto consesso di esperti fu chiamato a suggerire ricette per uscire dalla crisi. Cinque dei suoi otto membri lavoravano per il settore finanziario privato, in banche di investimento implicate nella crisi, mentre gli altri tre comprendevano l’ex capo dell’Authority inglese sui Servizi Finanziari, la stessa che, in sostanza, aveva il compito di prevenire la crisi, un ardente sostenitore della «deregolamentazione» del settore ed un dirigente di una banca pubblica. Il report prodotto dal gruppo, dove non si menzionava, se non marginalmente, la necessità di regolamentare il settore, venne pienamente sostenuto dalla Commissione come antidoto alla crisi finanziaria globale. Siamo alla malattia chiamata a guarire il malato. In uno studio approfondito sui gruppi di esperti, svolta da ALTER-EU si conclude come «la Commissione cerchi la sua legittimità di governo non dalla società civile europea, ma esclusivamente dal settore finanziario privato».

 

BCE. Davvero indipendente? Il magma di commistioni, quando non vere e proprie assimilazioni, tra grandi interessi privati e processo decisionale, non risparmia la Banca Centrale Europea. Il Trattato di Lisbona consacra l’indipendenza dell’istituto di Francoforte laddove all’art.130 viene perentoriamente sancito che «nè la BCE, nè le banche centrali nazionali, compresi tutti i loro membri coinvolti nelle decisioni adottate, possono cercare o prendere istruzioni da nessun’altra istituzione europea, da governi dell’Unione e da qualsiasi altro ente esterno». Un’analisi approfondita, anche in questo caso, mette a nudo contraddizioni che dipingono un quadro dove il confine tra conflitto d’interessi e grandi interessi di un’elite si confonde in modo inquietante. Il Group of 30’s è un “club” composto dai più grandi banchieri del mondo. Tra i suoi membri spiccano i nomi dell’ex presidente della BCE Jean Claude Trichet e quello appena insediato Mario Draghi. Altri componenti del Gruppo sono Gerald Corrigan di Goldman Sachs, Jacob A. Frenkel di JPMorgan, Guillermo de la Dehesa Romero del Gruppo Santander, David Walker di Morgan Stanley, Lawrence Summers, ex segretario al Tesoro americano durante l’amministrazione Clinton e Thimoty Geithner, attuale segretario al Tesoro USA. E tra i suoi consociati figura anche quel Jacques de Laroisiere, chiamato a presiedere il sopra citato gruppo di esperti in Commissione con l’intento di risolvere la crisi, alla fine del 2008.

Fondato nel 1978 per «incidere sulla struttura presente e futura del sistema finanziario globale attraverso raccomandazioni dirette alle istituzioni, pubbliche o private, preposte a legiferare», il G30 è stato oggetto di diversi studi. «Il gruppo ha tutte le caratteristiche di una lobby», dichiara Eleni Tsingou, della Copenhagen Business School. «Si può dire che la sua attività si divida in due parti. Un lavoro pubblico che si manifesta attraverso la pubblicazione di report, e poi ci sono gli incontri confidenziali tra i suoi membri che, di fatto, lo connota come un club esclusivo». Secondo un’analisi del Corporate Europe Observatory (CEO) di Bruxelles «l’influenza del G30 pare sia alla base del fallimento dell’iniziativa Basel II, per la regolamentazione del sistema bancario nel 2008. Durante le negoziazioni il Gruppo ha sostenuto una delle più grandi lobbies del settore, il IIF (Institute of International Finance nda), nella promozione di un sistema di gestione del rischio, il VaR, value at risk, che è tra le cause scatenanti la crisi finanziaria». Tesi sostenuta anche dal New York Times che all’inizio del 2009 ha scritto che “il rischio che il sistema VaR ha calcolato non ha incluso quello più grande: il rischio di una catastrofe finanziaria”. Ovviamente i costi di questa catastrofe sono stati, e sono tuttora scaricati verso il basso, verso le fasce sociali che con le sue cause non hanno nulla a che fare. Noi giochiamo, se si vince vinciamo noi, se si perde, perdete voi. Kenneth Haar del CEO: «E’ pericoloso che il presidente della BCE sia nella condizione di essere influenzato dagli interessi del settore privato. Il disastro finanziario ha dimostrato in modo lampante che le banche non operano per il bene della società».

 

Dall’analisi di questi immensi centri d’influenza della politica europea, si evince come la Commissione srotoli il tappeto rosso dinanzi alle richieste, quando non veri diktat, avanzate da queste lobbies. A farne le spese, un tessuto sociale che da anni non viene più nutrito, con la disoccupazione a picchi record in tutto il continente, e gli Stati, ormai svuotati dei propri storici poteri. E ciò appare in linea con l’opinione, tra gli altri, di Klaus Schwab, presidente del World Economic Forum – altro gruppo che riunisce uomini di vertice di grandi società multinazionali – che nel 1999 affermava in modo lapidario che “la sovranità statale è obsoleta”. O come, sempre nello stesso anno, in un articolo sul Newsweek, scriveva David Rockfeller, decano dei banchieri americani e fondatore della Commissione Trilaterale: “I governi devono essere sostituiti da qualcos’altro. Il business mi sembra il più adatto a prendere il loro posto”.

 

 

* Diego Del Priore è ricercatore presso l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

 

 

 

Fonti:

Peter Bonde, From EU Constitution to Lisbon Treaty, 2009.

Paolo Barnard, I Globalizzatori, Report, RAI, 2000.http://www.youtube.com/watch?v=43HxGvIYCa0

Paolo Barnard, Il Più Grande Crimine 2011, http://paolobarnard.info/docs/ilpiugrandecrimine2011.pdf

ALTER-EU, Bursting the Brussels Bubble, 2010.

CEO (Corporate Europe Observatory), Global Europe: an open door policy for big business Lobbyist at DG Trade, 2008.

CEO, Europe’s 2020 strategy: big business as Usual.

CEO, TABD in Troubled Water, 2001.

CEO, Corporate EUtopia, 2011.

CEO, Brussels. The EU quarter. Explore the corporate lobbying paradise, 2005.

CEO, Lobby to take Presidency of ECB again, 2011.

Sharon Beder, Business-managed democracy, 2010.

CEO, The Naked Lobbyist, New Internationalist Magazine, 2002.

 

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L’identità ucraina. Intervista a Pëtr Simonenko

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Pëtr Nikolàevič Simonenko è primo segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista Ucraino. Politologo nativo di Doneck, è stato più volte candidato alla presidenza dell’Ucraìna, giungendo al ballottaggio nel 1999. Lo ha intervistato per noi Eliseo Bertolasi, antropologo che nei suoi studi si occupa della questione identitaria del popolo ucraino. Nell’intervista oltre ad esprimere il suo parere sulle questioni identitarie, con Pëtr Simonenko si sono toccati anche argomenti di più stretta attualità, come la crisi finanziaria e il conflitto in Libia. L’intervista è stata realizzata il 3 novembre scorso.

 

Eliseo Bertolasi: In Ucraina continua la discussione riguardo all’identità nazionale degli ucraini. Cosa significa secondo la sua opinione essere “autentici” ucraini?

 

Petr Simonenko: Dico subito che la questione identitaria non è prioritaria per la popolazione ucraina. Gli ucraini attualmente sentono le stesse preoccupazioni degli italiani: aumento dei prezzi, brusco calo del livello di vita, disoccupazione, assenza di efficaci politiche sociali da parte dello stato borghese.

Ma si può certamente rispondere anche alla sua domanda. Si può facilmente capire che in Ucraina esiste una certa forma di conflitto tra le regioni orientali e quelle occidentali. Suppongo che tali discorsi possano provenire dai racconti degli ucraini, che in qualità di lavoratori secondari o stagionali giungono nel vostro paese. Da voi arrivano soprattutto persone dalle regioni occidentali dell’Ucraina, quelle meno sviluppate economicamente.

Per aiutavi nella comprensione di questa nostra divisione tra Est e Ovest, potrei fare un’analogia con la differenza che sussiste in Italia tra Nord e Sud.

La parte orientale dell’Ucraina rappresenta i ¾ del territorio e della popolazione del Paese, è caratterizzata da un alto sviluppo economico, sopratutto nelle grandi città (in 5 di queste la popolazione supera il milione di abitanti) dove sono presenti enormi complessi industriali. Anche le aziende agricole sono molto sviluppate, essenzialmente basate sulle nostre incomparabili “terre nere”.

Nelle regioni occidentali la situazione è sensibilmente diversa, il loro livello di sviluppo economico è rimasto indietro rispetto alla media del Paese, oltre a ciò, anche da un punto di vista storico Ovest e Est dell’Ucraina hanno avuto dei percorsi diversi. Tuttavia, riguardo alla questione di chi in Ucraina si definisce autentico ucraino e chi no, ritengo che tale differenza non esista. Noi ci sentiamo una sola nazione pur con le nostre peculiarità regionali.

 

Secondo la sua opinione, quali sono le radici dell’identità ucraina? Quale ruolo ha giocato per la sua formazione la lingua, la religione? Quale relazione esiste tra l’identità ucraina e l’identità slava nella nazione ucraina?

 

Storicamente l’Ucraina è nata e si è sviluppata all’inizio dell’Alto Medio Evo. Esistono tre popoli slavi fratelli: ucraini, bielorussi e russi. Si differenziano a livello della lingua (ognuno ha evoluto una sua propria letteratura), della mentalità e della cultura. Allo stesso tempo questi tre popoli sono estremamente simili tra loro. Ad esempio ci sono molto meno differenze tra di loro che verso i polacchi e i bulgari; hanno in comune la stessa chiesa, quella ortodossa, condividono anche una lingua transnazionale, il russo.

Tra gli ucraini, i russi e i bielorussi c’è una chiara comprensione del loro comune destino storico e la necessità di conservare, tra di loro, un rapporto fraterno indipendentemente dal proprio paese.

All’interno dello stesso popolo ucraino è possibile distinguere gli ucraini occidentali. Tra gli abitanti delle regioni occidentali, che per molto tempo hanno vissuto sotto il dominio della Polonia e dell’Impero austo-ungarico, è visibile l’influenza della chiesa cattolica e uniata, inoltre la loro lingua si caratterizza dall’ucraino letterario per aver assimilato l’accento e una parte di termini dal polacco.

Ma noi siamo comunisti, non pensiamo che tale differenza possa essere la base di un conflitto interno nella nazione ucraina tra ucraini orientali e occidentali. È inammissibile dividere la società, limitare i diritti e la libertà delle persone in nome dei regionalismi o dei principi linguistici.

Al contrario, la società deve riunirsi in base alla parità delle concessioni regionalistiche e delle lingue. In relazione a ciò, il Partito Comunista è molto attivo per mantenere a livello nazionale la presenza delle due lingue storiche sorelle: non solo l’ucraino ma anche il russo. Inoltre, noi ci battiamo contro il tentativo da parte del potere degli oligarchi di dividere il popolo. Vorrebbero questa divisione in nome del cinico principio: “dividi e impera”.

 

Quale ruolo ha giocato la storia nella formazione dell’attuale popolo ucraino?

 

Per lunghi periodi storici russi, ucraini e bielorussi hanno vissuto nello stesso paese: alle origini nella Kievskaja Rus’ poi nell’Impero russo e nell’Unione Sovietica. Questa esperienza di convivenza congiunta si è rivelata favorevole sin dall’inizio, infatti tutti i successi del popolo ucraino sono stati raggiunti nell’ambito dell’unione dei tre paesi. Rendo noto che in questi paesi gli ucraini hanno sempre svolto un ruolo guida, hanno occupato alte posizioni nell’amministrazione, nella gerarchia militare, nelle scienze e nella cultura. Per esempio: dei sette segretari generali del PCUS dell’URSS due erano ucraini: Nikita Chruščëv e Leonid Brežnev.

I territori dell’Ucraina occidentale entrarono invece a far parte di un paese slavo orientale solo nel 1939; per tale ragione la popolazione di queste regioni ha vissuto una storia contrassegnata, in alcune delle sue fasi, da grandi sofferenze e sacrifici. L’Ucraina occidentale era infatti sottoposta all’amministrazione di paesi stranieri per i quali gli ucraini erano semplicemente cittadini di seconda classe, “servi”. Diversamente, per gli ucraini delle regioni centrali e orientali le valutazioni relative alla propria storia sono più favorevoli.

La questione principale di tale differenza non risiede però nella mentalità o nei ricordi storici, ma nel diverso sviluppo economico delle rispettive regioni. Le regioni sud-orientali (Donbass, Char’kov, Dnepropetrovsk, Zaparodž’e, Odessa) già alla fine del XIX presentavano un intenso sviluppo industriale. Le regioni occidentali, invece, avviarono il loro sviluppo industriale appena dopo la fine della seconda Guerra Mondiale e per tale ragione oggi appaiono più depresse. Ai tempi dell’URSS questo dislivello di sviluppo economico venne rapidamente pareggiato, come allo stesso modo, vennero meno i problemi legati alle questioni identitarie della popolazione. Questioni che si stanno però ripresentando nell’Ucraina di oggi, dove sta maturando un conflitto sociale e di classe: tra il lavoro e il capitale, tra il potere degli oligarchi e la miseria delle persone semplici, indipendentemente dalle regioni di residenza, che siano quelle orientali o occidentali.

La storia, in modo particolare durante il periodo sovietico, ha portato gli ucraini a vivere in una sola nazione. Creare artificiosamente o gonfiare contrapposizioni e conflitti all’interno del Paese, è solo un atto criminale davanti al popolo.

 

Qual è l’importanza dell’eredità sovietica nella vita dell’Ucraina contemporanea?

 

Principalmente consiste nella potenzialità economica dell’Ucraina, nella sua cultura, nella sua sfera sociale, tutti elementi che hanno preso forma nel periodo sovietico.

Il settore idroenergetico, quello dell’ingegneria aerospaziale, quello metalmeccanico, l’alto sviluppo della ricerca e delle scienze, i moderni complessi agro-industriali… tutto ciò è una diretta eredità della potenza dell’URSS. In quel periodo l’Ucraina divenne un paese con competenze globali. Il suo alto livello di istruzione e formazione hanno addirittura guidato l’URSS. Inoltre prese vita un sistema culturale ben organizzato a livello nazionale: teatro, cinema, case editrici, collettivi popolari.

Tornando alle questioni identitarie posso affermare che fu proprio durante gli anni del periodo sovietico che l’Ucraina ricevette un tale impulso verso lo sviluppo. Nella cornice dei programmi di cooperazione economica e scientifica con l’URSS, l’Ucraina arrivò ad avere un ruolo di fucina nel campo delle scienze e della tecnica, e di base per la realizzazione di grandi complessi industriali: nell’elettronica, nella produzione missilistica e nella cantieristica navale.. Verso l’Ucraina arrivarono i migliori specialisti, scienziati, lavoratori specializzati da tutta l’URSS. Legittimamente, sono rimasti qui come dimora permanente. Si può dire che l’identità ucraina ricevette, in quegli anni, un innesto complementare di ingegno, un afflusso di sangue fresco. Dovendo quindi definire la nazione ucraina potrei usare queste parole: “le menti migliori”. L’Ucraina nel periodo sovietico ottenne lo status di potenza economica e di sviluppo, posizionandosi sulla stessa linea dei paesi guida dell’Europa.

Cito questo dato: nel periodo sovietico l’ONU collocò l’Ucraina ai primi posti nel mondo per indice di sviluppo umano. Questo indice prendeva in considerazione tre dati importanti: durata della vita, livello d’istruzione e parte del PIL. Quando finì l’URSS finì anche questo periodo, in Ucraina s’instaurò il capitalismo, fu allora che si formarono le nostre attuali elite che iniziarono a vivere in maniera parassitaria sui residui della potenza economica sovietica. Sempre su indicazione dell’ONU, ora l’Ucraina è al 69° posto.

 

Lei non teme che una politica ucraina in direzione dell’Europa e dell’integrazione europea possa portare ad un ridimensionamento della indipendenza dell’Ucraina?

 

Certamente! I comunisti ucraini quotidianamente parlano di questo pericolo, di questa minaccia. L’indipendenza del nostro paese è gia sottoposta a grandi incertezze per l’eccessiva influenza che subisce da parte dell’Europa, degli USA, e da vari organismi internazionali, primo tra tutti il FMI. Nel contesto dell’URSS, l’Ucraina era molto più libera e indipendente di oggi, anche se a quei tempi possedeva meno attributi formali d’indipendenza.

Le corporazioni transnazionali hanno trascinato l’Ucraina nei loro loschi affari. Il FMI imprigiona il nostro paese con la concessione di crediti che ci portano in condizioni d’incompatibilità per l’esercizio di un’autentica sovranità.

Gli USA e l’UE con il pretesto di “difendere la democrazia” si arrogano il diritto d’interferire apertamente anche negli affari della politica interna ucraina.

In modo particolare, il FMI e altre corporazioni transnazionali cercano di costringere il nostro paese alla svendita della propria terra agricola a favore dei loro interessi. Se ciò dovesse verificarsi, allora l’Ucraina avrà di fatto perso la propria sovranità politica. Non può esistere un paese libero e sovrano, nel quale la sua principale ricchezza, nel nostro caso “la terra”, non appartenga più né al suo popolo né al suo stato. Con la terra non si mercanteggia!

Senza dubbio l’Ucraina è parte di un più ampio contesto europeo e mondiale di popoli e paesi. Noi ci sentiamo compartecipi nell’integrazione e nella cooperazione mondiale. Ma solo a condizione che sia un’integrazione di diversi partner e non ciò che oggi ci impongono le corporazioni transnazionali e gli organismi internazionali per compiacere agli interessi degli USA e ai vertici dell’UE.

 

Qual’è il suo parere sulle condizioni della crisi in Europa? L’economia europea si trova sempre di più nelle mani degli speculatori finanziari, il risultato si manifesta nella bancarotta d’interi paesi, come l’Italia.

 

L’economia mondiale si trova nelle mani di oligarchi senza scrupoli che mirano soltanto ad aumentare i loro super profitti. Il progetto del fallimento della bolla liberal-speculativa di Wall Street, è solo uno dei tanti episodi di quel sistema criminale nei confronti dei popoli, che segue solo i principi del capitalismo mondiale. Contemporaneamente la crisi attuale è un sintomo palese dell’avvicinarsi del crollo del sistema capitalistico di produzione e di ridistribuzione.

Volgete l’attenzione ai risultati di quei paesi di orientamento socialista e comunista, o di quei paesi che pur avendo un’economia di mercato hanno un forte orientamento sociale, nei quali è stato dato un maggior sostegno allo sviluppo delle imprese piuttosto che alla speculazione finanziaria. Cina, Vietnam, Brasile Russia, Bielorussia sopravvivono alla crisi molto meglio dei paesi europei e degli USA.

Un’importante caratteristica del momento attuale è il rapido aumento del livello di protesta tra le masse popolari, le quali hanno già sufficientemente compreso che a pagare i costi della crisi non dovrebbe spettare a loro, la classe operaia, ma allo stesso capitale speculativo che l’ha prodotta. Ha creato la crisi, ora deve saldarne i debiti.

Rivolgo un’attenzione particolare ai fatti della Grecia dove il popolo ha obbligato il governo ad emanare un referendum riguardo ai rapporti con il FMI. È stata una richiesta assolutamente legale e democratica che ha scatenato il panico in borsa, tra gli oligarchi e le marionette del potere. Il FMI e i dirigenti europei hanno addirittura dichiarato con clamore: “Non è troppa la democrazia che il popolo vuole per se?”. Questa reazione ha mostrato concretamente che preferiscono tacere sul fatto che la crisi si è sviluppata dal sistema capitalistico, che nella crisi fanno la propria fortuna gli oligarchi e che vorrebbero far pagare la crisi alle persone comuni, costrette dai loro governi borghesi.

Dico a tutti noi che dovremmo imparare dal popolo greco: l’organizzazione, la militanza e in primo luogo la consapevolezza di quali sono i nostri interessi.

Si! Certo! Il popolo italiano ha una ricca esperienza di lotta per i suoi diritti, e di azioni congiunte. Anche questi dettagli ci aiutano a capire il fenomeno della nazione ucraina: l’attuale generazione di ucraini è cresciuta in un contesto di confortante socialismo in circostanze di autentico potere del popolo. Ora però deve recuperare, ma sarà possibile soltanto attraverso un corso accelerato di lotta di classe.

Io sono convinto che nella lotta contro il capitalismo mondiale i lavoratori d’Italia e d’Ucraina potrebbero levarsi saldamente spalla contro spalla nella stessa parte della barricata. La vittoria del socialismo è un fatto certo.

 

Non le pare che la guerra per le risorse sotto copertura di “lotta per la democrazia” possa essere considerata una nuova forma di colonialismo occidentale?

 

Noi siamo completamente d’accordo con questa valutazione della situazione attuale.

Effettivamente il neocolonialismo occidentale sta portando avanti una feroce e spietata guerra per le risorse sotto copertura dello slogan “democratizzazione”. Nello stesso tempo per condurre queste guerre sono state realizzate delle nuove tecnologie, spesso anche senza il contributo diretto delle forze armate, ma solamente in presenza del sostegno determinato dalla pressione d’informazioni esterne, dal massiccio utilizzo dei mezzi borghesi di comunicazione di massa, e da diverse organizzazioni della società civile.

La guerra in Libia è il più limpido esempio di aggressione straniera contro uno stato sovrano, condotta principalmente da mano esterne.

L’Ucraina va costantemente in collisione con esempi di pressione diplomatica caratterizzati da un doppio livello: di moralità e di politica estera degli USA e dell’Europa. Un chiaro esempio è stata l’aggressione camuffata, da parte del capitale occidentale contro l’Ucraina nella “rivoluzione arancione”, nel corso della quale un gruppo oligarchico è stato semplicemente sostituito da un altro più orientato verso gli USA e l’Europa.

I comunisti, di conseguenza, si oppongono fermamente a tutte le manifestazioni di questo neocolonialismo. Noi sosteniamo che il vero contenuto della richiesta di “maggior democrazia” sia molto distante da un’autentica democrazia.

Noi siamo convinti che alla fine, questa aggressione possa favorire, nei vari paesi del mondo, il completo passaggio di potere dalle mani del capitale alle mani dei lavoratori. Solo in questo caso si potrà affermare che le relazioni internazionali si basano sulla fraterna e reciprocamente vantaggiosa collaborazione tra gli stati e non sulle guerre per le risorse e il capitale.

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Украина, её национальная идентичность. Интервью с Петром Симоненко

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Петр Симоненко лидер Коммунистической Партии Украины. Он дал интервью антропологу Элизео Бертолази по его исследованиям, посвященным вопросу идентичности украинского народа. В интервью Петр Симоненко кроме того, чтобы выразить свое мнение по вопросу об идентичности украинского народа, непременно затронул более широкие политические вопросы великого современника.

 

Элизео Бертолази – Уважаемый Петр Николаевич! Сейчас в Украине все еще идут дискуссии относительно национальной идентичности украинцев. Что значит, по вашему мнению, быть «подлинным» украинцем?

 

Петр Симоненко – Скажу сразу, что поднимаемый вами вопрос не стоит в ряду самых актуальных вопросов для жителей Украины. Украинцев сегодня волнует то, что волнует простых людей Италии – рост цен, резкое падение уровня жизни, безработица, отсутствие внятной социальной политики буржуазного государства.

Но, раз вы предложили эту тему, давайте в ней разберемся. Вы, по всей видимости, хотели бы понять, существует ли в Украине национальный конфликт, какое-либо противостояние западных и восточных регионов. Могу предположить, что источником для подобного рода разговоров могли бы быть рассказы украинцев, которые в качестве подсобных и сезонных рабочих приезжают в вашу страну на заработки. А приезжают к вам в основном жители слаборазвитых в экономическом отношении западных областей Украины.

Чтобы вам было понятней наше деление на Запад и Восток, приведу достаточно близкую по смыслу аналогию – это как у вас в Италии деление на Север и Юг.

Основная часть Украины – более 3/4 территории и населения – это высокоразвитая в экономическом отношении страна, с крупными городами (5 из них – с населением свыше 1 миллиона человек), с огромными промышленными предприятиями. Здесь же имеется развитое сельское хозяйство, основанное на наших уникальных черноземах. В западных регионах ситуация несколько иная, их уровень экономического развития отстает от среднего по стране, да и в историческом смысле Запад и Восток прошли разные пути. Однако, вопроса о том, кто в Украине «подлинный» украинец, а кто нет, на самом деле не существует. Мы ощущаем себя единой нацией, имеющей определенные региональные особенности.

 

Э. Б. – Каковы, по Вашему мнению, корни украинской идентичности? Какую роль в ее формировании играли язык и религия? Каково соотношение собственно украинского и общеславянского в украинской нации?

 

П. С. – Исторически украинская нация зародилась и формировалась со времен раннего средневековья. Существует три братских славянских народа, имеющих общие исторические корни – украинцы, белорусы и русские. Они различаются на уровне языка (каждый имеет собственный развитой литературный язык), менталитета, культуры. В то же время все три народа очень сходны между собой – между ними меньше различий, чем, например, у поляков и болгар. И церковь у славянских народов единая – православие. И существует понятный всем язык межнационального общения – русский.

У украинского, русского и белорусского народов отчетливое представление об общей исторической судьбе и необходимости сохранения дружественных отношений между народами, независимо от того, в каких государствах они сегодня живут.

А внутри самого украинского народа можно выделить группу западных украинцев. У жителей западных регионов, которые долгое время находились под властью Польши и Австро-Венгрии, велико влияние католической и униатской церкви. Их язык отличается от украинского литературного языка большой долей заимствования польских слов и акцента.

Мы, коммунисты, не думаем, что столь незначительные различия могут быть основой каких-либо конфликтов между украинским Западом и Востоком на национальной почве. Недопустимо делить общество, дозировать права и свободы людей по религиозным или языковым принципам. Наоборот, общество нужно объединять на основе равноправия религиозных концессий, равноправия языков. В этой связи Компартия активно добивается того, чтобы по примеру ряда европейских стран в Украине на государственном уровне существовали два исторически дружественных языка – русский и украинский. По сути, мы боремся против попыток находящихся у власти олигархов расколоть трудовой народ, чего им очень хочется в полном соответствии с циничным принципом «разделяй и властвуй».

 

Э. Б. – Какую роль сыграла история в формировании современного вида украинского народа?

 

П. С. – На протяжении длительных исторических периодов русские, украинцы и белорусы жили в общем государстве – сначала в Киевской Руси и Российской Империи, затем в Советском Союзе. Этот опыт общежития был скорее удачным – все основные достижения украинского народа сделаны в рамках общих государств. Замечу, что в этих государствах украинцы всегда являлись государствообразующей нацией – занимали высшие позиции в административной и военной иерархии, в науке и культуре. Например, из 7 руководителей СССР – двое выходцы из Украины – Никита Хрущев и Леонид Брежнев.

А вот территория Западной Украины вошла в состав восточнославянского государства только в 1939 году. Потому и представление жителей этих областей об истории украинского народа в большей степени трагическое и жертвенное, поскольку Западная Украина жила под властью чуждых государств, для которых украинцы являлись людьми второго сорта – «холопами». У украинцев центра и востока – исторические оценки более позитивные.

Но главный вопрос не в менталитете, а в экономике, в уровне развития регионов. Юго-восточные области (Донбасс, Харьков, Днепропетровск, Запорожье, Одесса) интенсивно развивались в промышленном отношении с конца 19 века. А западные области, которые начали свое промышленное развитие лишь после окончания Второй мировой войны, сегодня являются дотационными. В условиях СССР эта разница в уровне развития экономик регионов быстро выравнивалась, проблемы с украинской идентификацией населения быстро сходили на нет. Вновь возникли они лишь в сегодняшней Украине, где зреет социальный и классовый конфликт между трудом и капиталом, между властью олигархов и нищетой простых людей, вне зависимости от их места жительства – Запад или Восток.

История, и особенно её советский период, сроднила жителей Украины в единую нацию. Искусственно создавать и раздувать национальные противоречия или конфликты – это преступление перед людьми.

 

Э. Б. – Каково значение советского наследия в жизни современной Украины?

 

П. С. – Главное состоит в том, что экономическая мощь Украины, её культурно – социальная сфера были сформированы именно в советское время. Гидроэнергетика, космическая отрасль, наукоемкое машиностроение, высокоразвитая наука, современный агропромышленный комплекс – все это прямое наследие Советской власти. В тот период Украина стала страной всеобщей грамотности, украинская наука и система высшего образования лидировала в СССР, была сформировала сеть учреждений национальной культуры – театры, киностудии, книжные издательства, народные коллективы.

Возвращаясь к национальному вопросу, скажу о том, что именно в годы СССР украинская нация получила особый толчок к развитию. Дело в том, что в рамках экономической и научной кооперации СССР, именно Украине досталась роль кузницы научных кадров и базы для строительства предприятий наукоемкой промышленности – ракетостроение, электроника, кораблестроение и пр. К нам съезжались лучшие специалисты, ученые, высококвалифицированные рабочие со всего Советского Союза. И, как правило, оставались здесь на постоянное жительство. Можно сказать, что украинский генофонд получил дополнительную прививку интеллекта, получил приток свежей крови. Характеризуя украинскую нацию, я бы использовал такие слова – «лучшие умы». А Украина в советский период получила статус развитой экономической державы, стоящей в один ряд с ведущими странами Европы.

Приведу такой факт: в советские времена ООН ставила Украину на одно из первых мест в мире по индексу человеческого развития. В этом индексе учитываются три важней­ших показателя: продолжительность жизни, уровень грамотности и доля ВВП на душу населения. Когда советский период истории Украины завершился, когда свершилась реставрация капитализма, наши нынешние элиты сформировались и паразитируют на остатках советской экономической мощи. А по упомянутому индексу ООН эти элиты опустили Украину на 69-е место.

 

Э. Б. – Вы не опасаетесь, что политика государства, направленная на европейскую и евроатлантическую интеграцию может привести к сокращению независимости Украины?

 

П. С. – Конечно, коммунисты Украины ежедневно говорят об этой опасности и этой угрозе. Независимость нашей страны уже находится под большим сомнением, поскольку слишком велико влияние на политику нашего государства со стороны ЕС, США и международных организаций, прежде всего – МВФ. В составе СССР Украина была куда более свободной и независимой державой, чем сегодня, хотя и имела тогда меньше формальных атрибутов независимости.

Транснациональные корпорации втягивают Украину в зону действия своих финансовых афер. МВФ закабаляет нашу страну с помощью кредитов, которые даются под несовместимые с подлинным суверенитетом условия. США и руководство ЕС, под предлогом «защиты демократии» позволяют себе открытое вмешательства в дела внутренней политики Украины.

Более того, МВФ и транснациональные корпорации принуждают нашу страну к свободной распродаже земли сельскохозяйственного назначения в свою пользу. Если это произойдет, то Украина фактически потеряет и политический суверенитет. Не может существовать свободная и суверенная страна, в которой главное богатство – земля – не принадлежит собственному народу или государству. Родиной не торгуют!

Безусловно, Украина – часть европейского и мирового содружества стран и народов, мы участвуем в мировой интеграции и кооперации. Но это должна быть интеграция равных партнеров, а не то, что сегодня навязывают нам транснациональные корпорации и международные институты в угоду интересов США и верхушки Евросоюза.

 

Э. Б. – Каково ваше мнение о Европе в условиях кризиса? Экономика ЕС все больше находится в руках финансовых спекулянтов, результатом деятельности которых является банкротство целых, страны, в частности – Италии.

 

П. С. – Мировая экономика находится в руках олигархов, которые не брезгуют ничем, ради получения сверхприбылей. И лопнувший пузырь либерально-спекулятивного проекта Уолл-Стрит – это всего лишь один из эпизодов тех системных преступлений перед народами, которые лежат на совести мирового капитализма. Одновременно, нынешний кризис – это явный симптом приближающегося краха капиталистической системы производства и распределения.

Обратите внимание на то обстоятельство, что страны социалистической и коммунистической ориентации, и те страны, в которых существует социально ориентированная политика, хоть и имеют рыночную экономику, но сделали упор не на финансовые спекуляции, а на развитие производства. Китай, Вьетнам, Бразилия, Россия, Белоруссия переживают кризис гораздо легче, чем страны ЕС и США.

Важнейшей характеристикой текущего момента моментом является бурный рост протестных настроений народных масс, которые уже достаточно прозрели для того, чтобы понять – платить за выход из кризиса должны не трудящиеся, а сам спекулятивный капитал. Их кризис – им и расплачиваться.

Обращу особое внимание на события в Греции, где народ вынудил правительство вынести условия сотрудничества страны с МВФ на референдум. Это вполне законное и демократическое требование в тот же день вызвало панику на биржах, среди олигархов и их политических марионеток во власти. А МВФ и руководство ЕС даже публично заявили крамольную для них мысль о том, что «не много ли демократии» хочет для себя народ? Эта реакция наглядно показало то, о чем они предпочитают молчать: кризис вырастила капиталистическая система, на кризисе наживаются олигархи, а оплачивать кризис буржуазные государства заставляют простых людей.

Скажу так, что всем нам стоит поучиться организованности, боевитости и, главное, пониманию своих интересов, в частности, народа Греции. Да и у итальянского народа есть богатейший опыт борьбы за свои права, хорошие навыки совместных действий. Это, кстати, еще один штрих для понимания феномена украинской нации – нынешнее поколение украинцев выросло в гуманных и, по сути, в тепличных условиях социализма, в условиях подлинного народовластия. Так что мы сегодня, если можно так выразиться, только догоняем вас, проходим ускоренный курс классовой борьбы. Но я убежден, что в борьбе с мировым капитализмом трудящиеся Италии и Украины будут плечом к плечу стоять по одну сторону баррикад. Победа социализма неизбежна.

 

Э. Б. – Не кажется ли вам, что войны за ресурсы под прикрытием «борьбы за демократию», являются новой формой западного колониализма?

 

П. С. – Мы полностью согласны с такой оценкой нынешней ситуации. Действительно западный неоколониализм ведет жестокие и беспощадные войны за ресурсы под прикрытием лозунгов «демократизации». Причем для этих войн уже выработаны совершенно новые технологии – часто вовсе без участия вооруженных сил, а лишь при помощи внешнего информационного давления, массированного использования буржуазных СМИ и институтов гражданского общества. Война в Ливии – наиболее яркий пример иностранной агрессии против суверенного государства, проводимой, в основном, чужими руками.

Украина также постоянно сталкивается с примерами дипломатического давления, основанного на двойных стандартах морали и внешней политики США и Евросоюза. Ярким примером такой закамуфлированной агрессии западного капитала против Украины была т.н. «оранжевая революция», в ходе которой одна олигархическая группа была заменена другой, более ориентированной на США и ЕС.

Коммунисты последовательно выступают против неоколониализма во всех его проявлениях. Мы говорим о том, что истинное содержание требований «большей демократии» очень далеко от подлинного народовластия. Мы уверены, что конец этой агрессии может положить только полный переход власти в странах мира из рук капитала в руки трудящихся. Только в таком случае можно говорить, что международные отношения будут строиться на братском и взаимовыгодном сотрудничестве государств, а не на войнах за ресурсы и капитал.

 

 

Элизео Бертолази

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Potere e responsabilità della Germania nei paesi dell’Asia Centrale

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Quando la comunità internazionale, in seguito agli eventi dell’11 settembre e al conseguente scoppio della guerra in Afghanistan, “scoprì” la rilevanza strategica della regione centro-asiatica, il governo di Berlino aveva già accumulato un’esperienza decennale nella gestione delle maggiori problematiche dell’area. La Germania difatti fu il primo stato europeo a riconoscere le cinque repubbliche e a insediarvi già nel 1992 rappresentanze diplomatiche, manifestando da subito un grandissimo interesse a intrattenere stretti rapporti sia politici che economici con i cinque governi della zona. Da quel momento le relazioni tra la Germania e gli stati dell’Asia Centrale hanno continuato a rafforzarsi. Eppure, come il recente deteriorarsi delle relazioni tra Berlino e Tashkent sembrano dimostrare con una certa evidenza, lo scarso livello di democratizzazione che tutt’ora si registra negli stati della regione centro-asiatica potrebbe compromettere in un futuro non troppo lontano la positività di tali rapporti; mettendo seriamente a rischio il successo della strategia tedesca (europea) per l’Asia Centrale.

Gli interessi della Germania in Asia Centrale

In assenza di un’analisi approfondita della materia, la presenza massiccia, quasi sistemica, della Germania in tutti e cinque gli stati dell’Asia Centrale potrebbe apparire quasi assurda: impiegando nella regione più personale dell’Unione Europea, Berlino vi ha creato un network nell’ambito del quale alle rappresentanze diplomatiche si affiancano numerosi istituti economici (“German Technical Cooperation-GTZ”, “the German Development Service-DED”, “German Development Bank-KfW”) e culturali (tra gli altri il “Deutsche Akademische Austauschdienst-DAAD”, il “Deutsche Volkshochschulverband-DVV”, la “Welthungerhilfe”, il “Goethe Institute”, il “Konrad-Adenauer-Stiftung-KAS” e il “Friedrich-Ebert-Stiftung-FES”). In Kazachstan, ad Almati è stata addirittura istituita la “Kazach-German University-KGU”, mentre in molti degli stati della regione il tedesco è una delle due lingue straniere più parlate.

Gli interessi che hanno motivato il governo di Berlino alla creazione di questo fitto network di istituzioni culturali, politiche ed economiche nella regione sono molteplici. Reinhard Krumm nel suo saggio intitolato “Central Asia, the struggle for power, energy and human rights” suggerisce l’individuazione di tre fasi cronologicamente distinte, in ognuna delle quali gli interessi tedeschi si sono modificati (anche se forse sarebbe più corretto affermare che si sono sommati a nuovi interessi sopraggiunti per il modificarsi delle condizioni esterne ed integrati con essi). Nel primo periodo, quello immediatamente seguente all’ottenimento dell’indipendenza da parte delle cinque repubbliche, l’azione di Berlino fu volta principalmente a tutelare la popolazione di circa un milione di tedeschi che risiedeva nella regione dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, quando un editto di Stalin del 28 agosto 1941 ne aveva ordinato la deportazione dalla regione del Volga. È questa popolazione (concentrata principalmente in Kazachstan e solo in misura minore in Kyrgyzstan e Uzbekistan) la chiave interpretativa per comprendere il perché degli intensi rapporti politici avviati sin dall’inizio degli anni Novanta dalla Germania con le cinque repubbliche centro-asiatiche. Già dalla fine del decennio, tuttavia, venne ad aggiungersi l’interesse per le ricche risorse energetiche (gas e petrolio) della regione, come venne chiaramente esplicitato in un documento presentato nel 1998 dal partito socialdemocratico tedesco e intitolato “Zukunftsregion Kaspisches Meer”. L’11 settembre 2001 segnò poi un punto di svolta per la politica tedesca nei confronti dell’Asia Centrale, che divenne anche per Berlino zona d’importanza strategica ai fini della lotta contro il terrorismo internazionale. La nuova strategia tedesca, contenuta nel documento “Central Asia Concept” del 18 marzo 2002, viene ben espressa dalle parole del ministro degli esteri tedesco Westerwelle: If we are to ensure the success of the process of political reconciliation in Afghanistan, then it is crucial that neighbouring countries get involved, that they (…) are engaged politically but also have such strong economic links with Afghanistan that it can develop favourably”. Per completare il quadro degli interessi di Berlino nei confronti della regione centro-asiatica è tuttavia ancora necessario aggiungere una precisazione con riferimento alle attività implementate in ambito economico. Gli interessi economici di Berlino nei confronti dell’Asia Centrale non si limitano difatti all’estrazione di petrolio e gas naturale, che pure continuano a rivestire un’importanza primaria (non a caso il prossimo “Turkmenistan Oil & Gas Road Show 2012” si terrà proprio in Germania, a Berlino, il 14-15 marzo del prossimo anno). Altrettanto importanti sono le esportazioni verso le cinque repubbliche di macchinari, autoveicoli e prodotti chimici, soprattutto in una fase in cui la crisi economica mondiale ha determinato una contrazione della domanda per le esportazioni tedesche (da sempre perno dell’economia della Germania).

Rapporti politici ottimi … ma non troppo

Sin dall’inizio degli anni Novanta la Germania intrattiene buoni rapporti politici con tutte e cinque le repubbliche della regione, suggellati da frequenti visite ufficiali di alti esponenti governativi, stipulazione di accordi economici e politici, un’attività sempre più diffusa delle imprese tedesche e, non da ultimo, un’intensa collaborazione in campo culturale. Per citare il solo esempio del Kazachstan, il principale partner tedesco nella regione, il 4 febbraio 2010 venne aperto ufficialmente con una cerimonia ad Astana “l’anno della Germania in Kazachstan”, dopo che nel 2009 in occasione della prima visita del presidente kazako a Berlino era stato indetto “l’anno del Kazachstan in Germania”. In questi ultimi anni sono state particolarmente numerose anche le visite dei massimi esponenti governativi dei due paesi: nel settembre 2009 fu la volta del presidente federale Koelher, la cui visita fu anche un’occasione per firmare una serie di documenti ufficiali tra cui sei accordi commerciali; nel 2010 la Cancelliera A. Merkel si è recata per ben due volte ad Astana, firmando anche in questo caso una serie di “investment memorandums”. Più di recente, il 20 luglio 2011, il ministro degli esteri tedesco Westerwelle si è incontrato con la sua controparte kazaka a Berlino. Inoltre rimanendo agli ultimi mesi, il 30 giugno di quest’anno a Kaganda ha avuto luogo il “5th meeting of the German-Kazakh Intergovernmental Working Group on Business and Trade (RAG)”.

Le relazioni della Germania con le cinque repubbliche dell’Asia centrale sembrano quindi continuare con il tempo a rafforzarsi incessantemente. Tuttavia un’analisi più attenta permette di rilevare le debolezze e i rischi nascosti nelle relazioni di Berlino con gli stati della regione. Tali deficienze sono state d’altro canto portate alla ribalta dalle recenti frizioni tra il governo tedesco e quello di Tashkent. Berlino aveva difatti pianificato per questo novembre la visita di una delegazione tedesca, per tenere degli incontri bilaterali con il governo e il parlamento uzbeko, al fine di discutere di tematiche connesse al rispetto dei diritti umani nella regione. La visita della delegazione tedesca è stata però rifiutata tramite un comunicato del ministero degli esteri uzbeko. Le frizioni tra i due governi si sono poi aggravate quando, nell’agosto di quest’anno, le autorità di Tashkent hanno deciso di imporre il loro stretto controllo a un’importante impresa tedesca da prodotti da forno posseduta dalle Steinert Industries, sino ad arrivare al punto di impedire all’ambasciatore tedesco Wolfgang Neuen di accedere alla struttura.

La ragione dell’irrigidimento di Tashkent nei confronti del governo tedesco va con tutta probabilità ricondotta al tentativo portato avanti da Karimov sin dall’indomani dell’indipendenza di imporre uno stretto controllo statale sull’economia nazionale. Già nel 1993 il Presidente uzbeko aveva pubblicato un documento finalizzato a delineare un modello economico nazionale che affiancasse l’apertura del paese al commercio internazionale con il mantenimento di un rigido controllo da parte delle autorità governative. In tale contesto la presenza e l’espandersi di grandi imprese tedesche nel territorio nazionale può essere stato interpretato come un rischio per il controllo sull’economia da parte del governo di Tashkent, che ha pertanto voluto lanciare un chiaro messaggio a Berlino.

D’altro canto questa spiegazione da sola non può bastare a comprendere il perché dell’irrigidimento di Tashkent verso la Germania proprio in questo periodo. Con ogni probabilità l’atteggiamento adottato negli ultimi mesi da Karimov deve essere letto come una reazione all’inchiesta parlamentare per violazione dei diritti umani in Uzbekistan che ha avuto luogo nel Bundestag lo scorso maggio. Il 19 maggio 2011, difatti, quasi in perfetta coincidenza con l’anniversario del massacro di Andijan di sei anni fa, quattro membri del Parlamento tedesco (Viola von Cramon, Johannes Pflug, Volker Beck e Dagmar Enkelmann) hanno ufficialmente esortato la Cancelliera Angela Merkel a sollevare presso il governo uzbeko il caso di Akzam Turgunov e di altri dodici difensori dei diritti umani imprigionati ingiustamente e torturati in Uzbekistan. Il governo di Tashkent non deve aver gradito l’iniziativa parlamentare tedesca, cosicché attraverso le iniziative avviate negli ultimi mesi Karimov ha molto probabilmente voluto inviare al governo di Berlino un chiaro messaggio: non si accetta nessun tipo di interferenza nelle questioni di politica interna del nostro paese.

La questione dei diritti umani, chiave di volta della strategia tedesca (europea) in Asia Centrale

Sta emergendo in modo sempre più evidente, quindi, che l’elemento centrale che determinerà il successo ovvero il fallimento futuro della strategia tedesca in Asia Centrale consiste nel grado di democraticizzazione dei governi dell’area. Fondamentale, cioè, sarà capire qual è la strategia ottimale per garantire il mantenimento delle strette relazioni che legano la Germania a una regione chiave quale quella dell’Asia Centrale, ponte insostituibile tra Europa e continente asiatico.

Sino ad oggi Berlino ha dimostrato di privilegiare un atteggiamento molto tollerante nei confronti dei regimi autoritari delle delle cinque repubbliche centro-asiatiche. E, di nuovo, questo aspetto è emerso in maniera evidente in particolare dai rapporti tra Berlino e Tashkent. È stato difatti solo a causa delle forti pressioni esercitate dal governo tedesco che l’Unione Europea ha infine deciso di togliere le sanzioni che erano state imposte nel 2005 all’Uzbekistan in seguito al massacro di Andijan del 15 maggio. Ma, soprattutto, è stato dimostrato che le sanzioni comunitarie non sono state rispettate dal governo di Berlino, che ha continuato a supportare il Presidente uzbeko anche negli anni trascorsi dal 2005 al 2009. In particolare la Germania ha versato a Tashkent 67,9 milioni di euro dal 2005 al 2009 per costi associati all’utilizzo della base di Termez, fondamentale supporto logistico per le truppe tedesche operanti in Afghanistan. Sempre nello stesso periodo, inoltre, Berlino ha concesso al ministro dell’interno uzbeko Zokir Almatov di viaggiare in Germania per sottoporsi a trattamenti medici, contravvenendo in tal modo al divieto di ospitare visite di membri del governo uzbeko incluso nelle sanzioni imposte da Bruxelles. Senza contare poi che a partire dal 2010, dopo che le sanzioni europee erano state tolte senza che il governo di Tashkent potesse in alcun modo dimostrare di aver soddisfatto le richieste avanzate in materia di rispetto dei diritti umani, la Germania ha deciso di accordare al governo uzbeko un compenso aggiuntivo di 15,9 milioni di euro annuali come “compensazione finanziaria” per l’utilizzo della base di Termez.

Al di là delle considerazioni di carattere morale che, in quanto tali, esulano dalla sfera di interesse di questo articolo, non si può riporre la minima speranza di successo in una strategia basata sull’assecondamento di qualsiasi richiesta avanzata da Tashkent. Conseguenza di una tattica di questo tipo sarà difatti inevitabilmente un’enorme perdita di potere contrattuale da parte di Berlino: ormai la Germania si sta trovando a subire passivamente i ricatti del governo uzbeko che, conseguentemente, rafforza le sue convinzioni e sempre di meno si dimostrerà disposto a rivedere le sue pratiche in materia di diritti umani e democraticizzazione.

In realtà, a giudicare dalla lettura dei documenti strategici ufficiali, la Germania sembra aver capito che la questione dei diritti umani riveste un’importanza fondamentale non solo a livello umanitario, ma anche in funzione strumentale (di protezione dei propri interessi nella regione). Il tema della democraticizzazione, pacificazione e stabilizzazione dell’area è difatti al centro sia della strategia di Berlino per l’Asia Centrale che di quella comunitaria, la quale è stata elaborata nel 2007 proprio sotto e per impulso della Presidenza tedesca dell’epoca (andando quindi a coincidere quasi totalmente con le linee definite dalla Germania per la regione). Dalla lettura dei documenti ufficiali sia tedeschi che comunitari emerge in maniera evidente la comprensione dell’importanza della questione della democraticizzazione e della salvaguardia dei diritti umani. Vi si legge difatti: “The aim of the European Commission’s assistance Strategy Paper for Central Asia (2007-13) is to promote the stability and security of the countries of Central Asia, to assist in their pursuit of sustainable economic development and poverty reduction and to facilitate closer regional cooperation both within Central Asia and between Central Asia and the EU”. Tuttavia le dichiarazioni contenute in un documento ufficiale non sono strumento sufficiente a garantire la salvaguardia dei diritti umani, né lo sono i pur numerosi e utili progetti implementati in questo campo dall’UE e dal governo di Berlino. Fondamentale è sommare a dichiarazioni strategiche e progetti umanitari, l’immediata e ferma reazione e negazione delle pretese di Tashkent così come degli altri governi dell’area. Il che, nei fatti, significa ad esempio sottoporre il pagamento dei “contributi finanziari” per l’utilizzo della base di Termez ad azioni concrete in materia umanitaria, reagire immediatamente e con fermezza alle iniziative di Karimov degli ultimi mesi, non accontentarsi di azioni di facciata ma assicurarsi che le eventuali sanzioni vengano applicate e le richieste di democraticizzazione effettivamente rispettate. Una strategia di questo tipo comporterebbe una crescita del potere contrattuale della Germania (e dell’Unione Europea nel suo complesso).

Per concludere

Per concludere, quindi, appare indubbio che se la Germania intende mantenere e rafforzare nel tempo le sue relazioni con l’Asia Centrale, area di importanza fondamentale sia per le sue risorse economiche che per la sua funzione strategica e di ponte tra Europa e Asia, dovrà necessariamente rassegnarsi ad un atteggiamento meno tollerante nei confronti dei governi della regione. La posizione privilegiata che il governo di Berlino è riuscito a conquistarsi nell’ultimo ventennio nelle cinque repubbliche potrà rimanere tale solo a patto di mantenere intatto ed anzi accrescere la propria forza contrattuale nei loro confronti. Il che potrà avvenire solamente quando le dichiarazioni di principio enunciate nei documenti ufficiali e i progetti umanitari implementati verranno accompagnati da un atteggiamento fermo, risoluto e sempre coerente da parte congiuntamente delle autorità governative tedesche ed europee.

*Francesca Barnaba è dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche dell’Universtà di Trieste (Gorizia)

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”



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L’IsAG al Forum italo-turco: l’intervento di Aldo Braccio

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Tre rappresentanti dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) hanno partecipato all’VIII Forum di Dialogo Italo-Turco, svoltosi a Istanbul i giorni 24 e 25 novembre scorsi presso l’Hotel Hilton. Il Forum è organizzato da Unicredit e dal SAM (centro di ricerca strategica del Ministero degli Affari Esteri turco) in collaborazione con “East” e IAI e sotto l’alto patronato dei ministeri degli Affari esteri di Italia e Turchia. Aperto dai discorsi dei ministri Terzi di Sant’Agata e Davutoğlu, il Forum è proseguito con una tavola rotonda a porte aperte e con una, più ampia, a porte chiuse. In quest’ultima, si sono trovati a discutere sulle prospettive dell’integrazione turca nell’UE alcune decine d’esperti delle due nazioni. Tra essi, i tre rappresentanti dell’IsAG: il segretario scientifico Daniele Scalea, il ricercatore Pietro Longo e il redattore di “Eurasia” Aldo Braccio.
Presentiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato da Aldo Braccio durante la sessione a porte chiuse.
***

Grazie, Presidente.

Indubbiamente rafforzare le relazioni fra Italia e Turchia – fra governi ed enti locali, fra corpi intermedi e anche fra operatori economici – rappresenta anche un positivo passaggio nel miglioramento dei rapporti fra Europa e Turchia.

Queste relazioni devono necessariamente tener conto di uno scenario internazionale che sta cambiando anche al di là delle “primavere arabe”, fenomeno questo che è ancora abbastanza incerto nei suoi esiti e nel suo significato. Assistiamo infatti al tramonto progressivo ma inesorabile di un sistema mondiale unipolare a guida statunitense, cui va sostituendosi un mondo multipolare più aperto ed equilibrato, basato su grandi aggregazioni di forze di carattere regionale o continentale.

In questo senso il sistema economico e concettuale, culturale, della globalizzazione è entrato in crisi e mostra tutti i suoi limiti : una crisi che sta attraversando – come tutti possono constatare – i Paesi del cosiddetto Occidente e sta minacciando di spingere nel baratro anche altre parti del mondo, distruggendo l’economia produttiva a solo beneficio di una finanza incontrollata e speculatrice.

D’altra parte, come giustamente osserva il ministro degli Esteri Davutoğlu in Stratejik Derinlik : Tűrkiye’nin Uluslararası Konumu, il superamento dei parametri della Guerra Fredda implica la reinterpretazione del proprio ruolo geopolitico – e questo vale per la Turchia quanto per l’Italia. Un ruolo geopolitico e quindi – sottolineo – politico – di riconquista di una dimensione decisionale e non di contorno della politica nei confronti dell’economia.

E’ ben vero che l’enorme rilievo dell’interscambio commerciale con quasi tutti i Paesi limitrofi, a cominciare dall’Iran, e il fatto che Russia e Cina siano in assoluto il secondo e il terzo partner commerciale traducono anche in termini economici le nuove proiezioni geopolitiche della Turchia; l’Italia, quarto partner commerciale in assoluto del Paese della Mezzaluna, potrà indirettamente giovarsi di tale “apertura al mondo” della Turchia, se saprà acquisire una visione lungimirante delle relazioni internazionali, non fondata su pregiudizi ideologici e non sbilanciata aprioristicamente in senso transatlantico, ma invece più attenta all’area mediterranea e a quella del Vicino Oriente, e in generale ai nuovi attori emergenti nello scenario mondiale.

Grazie per l’attenzione.

 

Aldo Braccio

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