Quantcast
Channel: gay russia – Pagina 143 – eurasia-rivista.org
Viewing all 73 articles
Browse latest View live

Giovanni Armillotta presenta “Capire le rivolte arabe”

0
0
Quello che segue è il testo dell’intervento pronunciato da Giovanni Armillotta (direttore della rivista “Africana”, frequente contributore alle due maggiori riviste italiane di geopolitica, “Limes” e “Eurasia”) giovedì 6 ottobre 2011, alle ore 21.00, presso il Circolo Vie Nuove di Firenze, in occasione della presentazione del libro dei nostri redattori Pietro Longo e Daniele Scalea Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario, edito dall’IsAG assieme a Avatar.

Per maggiori informazioni sulla serata, cliccare qui.

 

 

 

Inizierò l’esposizione del volume con un aneddoto. Nell’ottobre 2004 uscì il primo numero di «Eurasia» diretta da Tiberio Graziani, che in seguito s’è affermata – con «Limes», fondata nel 1993 e diretta da Lucio Caracciolo – come una delle due più importanti riviste di geopolitica. A dire il vero ci sono stati altri due tentativi di altrettanti periodici di tenore geopolitico, ma siccome entrambi non erano altro che l’espressione di sette politiche ben precise, essi hanno fallito. È patetico come la geopolitica possa essere considerata alla stregua di banchi di approfondimento di un “pensiero” promanante dalla “destra” o dalla “sinistra” o dai cattolici. Premetto, anzi postmetto, che a “pensiero”, “destra” e “sinistra” ho posto le virgolette. Ribaltando e parafrasando la nota frase di Ernesto Massi, perlomeno dalla seconda metà degli anni Ottanta del sec. XX, l’ignoranza della classe politica italiana ha fatto sì che la geopolitica essa né la praticasse e né la studiasse, delegando il tutto alla Casa Bianca.

La geopolitica non è la fonte delle scelte di politica estera da studiare con stantii parametri partitici e direi, in particolare, squallidi – considerando come opera la politica dei due versi (governativa e d’opposizione) nel nostro Paese – essa geopolitica si pone essenzialmente nei due parametri di valore che sono prassi e dottrine eurasiatista e atlantista. L’eurasiatista è la ricerca della fine della dipendenza dei popoli tellurocratici da quelli talassocratici, che ha definito le relazioni internazionali dalla nascita della potenza marinara inglese, sin da quando la Royal Navy di Elisabetta I sconfisse l’Armada Invencible di Filippo II nel 1588. Egemonia britannica che poi iniziò a declinare non dopo gli esiti della guerra d’indipendenza statunitense dal 1775 al 1783 che anzi rafforzò il “lago” Atlantico – ribellione, quella statunitense, scorrettamente definita rivoluzione, secondo i miei canoni di marxista non pentito che considera la struttura e la sovrastruttura come elementi fondanti dei rivolgimenti politici. La primazìa britannica prese a tramontare da quando gli Stati Uniti d’America uscirono, finalmente preparati al confronto militare, dal guscio della Dottrina Monroe (elaborata difensivamente nel 1823 contro la Santa Alleanza, e usata d’attacco in seguito), e con uno dei loro marchiani pretesti, affossarono i residui dell’Impero Spagnolo con la guerra contro Madrid, aprile-agosto 1898, la cosiddetta splendid little war.

Di conseguenza, oggi, la scelta atlantista, rispettabile e legittima al pari di quella eurasiatista, verte sul dover essere seguaci dell’“eccezionalismo messianico” statunitense sviluppatosi, appunto a partire dai primi insediamenti inglesi nell’America del Nord, nel sec. XVII, e poi del successivo periodo di espansionismo territoriale (riduzione del Messico al 25% della sua originale estensione, suddetta guerra ispano-americana, partecipazione nelle due guerre mondiali, con l’ultima in veste egemonica) fino agli anni della guerra fredda. Infine, dal trentennale periodo che va dalla Presidenza Reagan, 1981, all’11 settembre 2001. Non per nulla l’espressione “destino manifesto” degli Stati Uniti d’America fu coniata nel 1845 nel corso del conflitto che inquartò il Messico e fu poi riattualizzata, negli anni dell’Impero del Male comunista per poi riversarla contro nuovi nemici. Bush figlio si è messo in perfetta sintonia con questa “tendenza messianica” tradizionale, carica di fondamentalismo religioso antistorico, isolazionismo aggressivo in quanto rifiutante la visione paritetica del multilateralismo, teorie e pratiche a cuore sia dei repubblicani che dei democratici, facce diverse della stessa banconota. Lo stesso successore di Bush, e di conseguenza prodotto del grande capitale finanziario statunitense, si sta comportando come il precedessore.

Un’accurata inchiesta, uscita da una casa editrice fiorentina sino al 2005 (Ponte alle Grazie) già dal titolo demolisce le presunte differenze tra il partito repubblicano e quello democratico. Il libro Barack Obush, uscito il 7 luglio 2011, scritto da Giulietto Chiesa con Pino Cabras esplora senza paure tutti gli ultimi avvenimenti della politica internazionale. La manipolazione delle rivolte nel mondo arabo che ci riunisce nell’incontro di stasera; l’aggressione alla Libia, la perdita d’identità e valore dell’Europa in una sorta di silenziosa e rassegnata colonizzazione e trasformazione in melting pot di Serie B, di cui le ricchissime classi politiche sono insensibili; la tenzone con la Cina temuta da Washington sua “erede”, e le crisi dei debiti sovrani sono al centro dei grandi rivolgimenti in atto. Obama non è altro che uno dei migliori alleati dei piani dei neoconservatori. Gli stessi che sognano un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal protagonismo armato degli Stati Uniti, ampliatosi durante la presidenza di Barack Hussein. Un progetto cullato dalla famiglia Bush e portato avanti da Obama. Il democratico è riuscito però a vendersi molto bene dati i luoghi comuni di cui è il massimo portatore nello versione tradizionale: bianco cattivo (Bush figlio), nero buono (Obama), ma entrambi sventolanti lo stars and stripes del capitale finanziario e dell’imperialismo unipolare. Chiudo la parentesi con un esempio emblematico. Non avete mai fatto caso che l’unico Paese al mondo che non ha una ragione sociale e specifica, insomma un nome ristretto, sono proprio i cosiddetti Stati Uniti d’America? Mi spiego: ci sono gli Stati Uniti Messicani, grandi Federazioni, quali Russia, Canada (entrambe di maggior superficie degli Stati Uniti), Brasile, Australia, India, Argentina, Nigeria, come anche di più piccole – basti citare per tutte la Svizzera – però non esiste Stato alcuno che faccia riferimento a una ripartizione zonale che comprenda addirittura un Continente – Stati Uniti d’America. Per cui un domani se col NAFTA si cerca di inglobare – quali colonie commerciali e perché no, politiche? – Canada e Messico, e il resto, quel nome resterebbe immutato. Ed è nello stesso che vigono i propositi di dominio planetario.

A questo punto è bene procedere con l’aneddoto.

Sfogliando il Numero 1, Anno Primo, dell’Ottobre-Dicembre 2004 leggo la formazione del Consiglio dei Redattori di «Eurasia», composto di personalità ampiamente conosciute nel campo della geopolitica: direttore Tiberio Graziani, Aldo Braccio, Aleksandr Gel’evič Dugin, Martin A. Schwartz, Carlo Terracciano e poi notavo il nome di Daniele Scalea, di cui non sapevo assolutamente alcunché. Su quel numero tradusse dal russo il contributo di Dugin, e sul numero successivo (Gennaio 2005) esordì in firma con la recensione di Italia, Germania, e Giappone, scritto dal padre della geopolitica, il tedesco Karl Haushofer (Monaco di Baviera 1869-Berlino 1946); il suo primo articolo vero e proprio apparve sul N. 2/2005 dal titolo Ucraina, terra di confine.

Nonostante cercassi sue biografie, pensavo che non apparisse mai il proprio titolo di studio fra le schede biografiche della rivista, in quanto trattavasi probabilmente di un anzianissimo professore universitario dalla modestia aulica, dal linguaggio stranamente attuale, un vecchio docente forbito che conosceva il russo alla perfezione e tante altre cose. Un giorno parlando con un amico, di cui non faccio il nome, gli chiesi: «Ma mi dici un po’ dove insegna ’sto Scalea?». Mi fa l’interlocutore: «Ah! Ah! Ah! [risata], sta per laurearsi: è uno studente, infatti ha poco più di vent’anni». Vi prego di non osare immaginare come ci rimasi… «Vent’anni???… e quando ha iniziato a studiare, a sei?».

Per cui, complimentandomi con lui e Pietro Longo per il volume, affermo che – per le possibilità concessemi – l’ho consigliato alle cattedre di Afro-asiatici e Paesi islamici, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, cattedre che mi vedono quale uno dei componenti di commissione.

Scalea e Longo, rileggono i problemi della storia recente di tutti i Paesi arabi che si affacciano e non sul Mediterraneo (compresi Giordania e Iraq), chiedendosi, tra le altre cose, perché, malgrado l’allargamento dell’Unione Europea, l’Europa politica assolve nel Mediterraneo un ruolo così tenue, ossia non conta nulla, mentre, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti vi esercitano un’egemonia sempre più indiscussa? Come si spiega, in Medio Oriente e nei Paesi arabi, il sorgere e il diffondersi dell’islamismo radicale? Islamismo radicale che, ad esempio, in Siria – attualmente nel mirino di Stati Uniti e sodali (Gran Bretagna, Francia, Italia, ecc.), è il primo, l’islamismo radicale, a schierarsi a favore della Hillary Clinton contro Baššār al-‘Asad? Nel senso come mai la Siria laica che sin dai tempi del padre di Baššār, Ḥāfiẓ, da sempre aveva combattuto finanche la Fratellanza musulmana siriana in quanto anti-baatista d’un tratto è da eliminare? Pure a questa fondamentale domanda, risponde il libro.

Come sostiene il prof. Domenico Losurdo, ordinario di Storia della filosofia presso l’Università di Urbino: terrorismo, fondamentalismo, antiamericanismo, odio contro l’Occidente, complicità con l’Islam e contro Israele: queste sono le accuse che l’impero statunitense brandisce come armi affilate. Chiunque non sia con gli Stati Uniti è antiamerikano, con la cappa, nemico della pace e della civiltà.

Questo è un libro, un testo di studio e di critica, che spazia in uno scenario molto ampio, e ci dà chiavi di lettura dei recenti fenomeni che stanno sconvolgendo l’arco mediterraneo meridionale col tentato spaccio delle rivolte antimperialiste e antineocolonialiste mediterranee, dello Yemen, del Bahrein e dell’Oman, in fattori richiamanti masse di musulmani che si sono e si stanno ribellando per auspicare, invece secondo certa stampa embedded-copia-e-incolla, forme di governo liberal-democratiche in cui trionfino gli dèi che vediamo adorare ogni giorno: capitalismo, abolizione dei frutti delle lotte operaie e religione del tecnologismo; o per meglio dirla: a favore dei valori pornografici e cocacolistici dell’Occidente ameriko-franco-britannico. Gli autori mi permetteranno un accenno che vada più lontano. Perché Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia stanno tornando in Nord Africa?

La storia che gli italiani ignorano è nota ai Governi europei, agli statunitensi e a tutti coloro che hanno studiato l’influenza dell’energia nucleare sulla politica internazionale negli ultimi sessanta anni. Se in Italia è apparsa marginale o irrilevante, le ragioni, quindi, vanno ricercate altrove. Ma occorre anzitutto ricordare brevemente i termini della questione. Nell’autunno del 1956, periodo ben analizzato nel volume, il governo francese, presieduto dal socialista Guy Mollet, tirò fuori dal cassetto un vecchio progetto, di cui si era segretamente discusso nei mesi precedenti, e propose a due partner europei (Germania e Italia) un’intesa tripartita per la collaborazione atomica in campo militare.

La proposta fu avanzata dopo il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez, in un momento in cui la Francia era impegnata nella guerra algerina e lamentava l’insensibilità della NATO per una questione che il Governo di Parigi considerava vitale, ma di cui agli Stati Uniti non importava niente.

Il riferimento a Suez conferma che il conflitto scatenato contro l’Egitto dalle due ex potenze europee con la complicità di Israele dopo la nazionalizzazione del Canale fu, insieme a quella di Corea, il primo grande spartiacque della politica internazionale nel secondo dopoguerra. Quando gli Stati Uniti, e pure l’Unione Sovietica – interessata a rientrare in Medio Oriente, dopo un esordio pro-israeliano – intervennero e imposero la cessazione delle ostilità, Gran Bretagna e Francia ebbero reazioni opposte.

A Londra i conservatori scelsero un nuovo primo ministro nella persona di Harold Macmillan, e dettero un colpo di acceleratore alla decolonizzazione formale, decidendo che il rapporto speciale come 51ª stella della bandiera statunitense era più importante dei loro vecchi sogni imperiali. La Francia conservò Guy Mollet alla testa del governo e decise testardamente che soltanto l’arma atomica le avrebbe permesso di non piegare la testa di fronte agli Stati Uniti. È così è stato sino all’avvento di Sarkozy, il quale liberandosi dell’indipendentismo gollista è tornato nella NATO, per poter riceve dalla Casa Bianca i vari permessi neocoloniali nel Mediterraneo. Ecco spiegato il fenomeno Libia, in poche parole. In pratica si spera che la fine degli Stati arabi laici, ma indipendenti (Libia e Siria) apra un varco nel quale entrerebbero i gruppi religiosi che avrebbero una crescente importanza. La scena, in maniera da dare all’Occidente il pretesto per entrare e “portare la democrazia”, però la loro. Ciò dimostra le vicende descritte in questo libro.

Ossia l’amministrazione guerrafondaia di Obama cerca di esorcizzare quanto accade sotto i suoi occhi nella penisola arabica e nel mondo arabo (rivolte – in maggioranza – sciite in Bahrein, Oman, Yemen e Arabia saudita, lenta ascesa dei Fratelli musulmani sunniti in Giordania, Egitto, nella stessa Libia conquistata, ancora moti soffocati in Tunisia e Algeria, espulsione e/o fuga degli ambasciatori israeliani da Ankara, Cairo e Amman) e cerca di esorcizzarlo per “riequilibrare” lo scacco matto nella regione, e continua a programmare la destabilizzazione della Siria.

E di rimando: i ribelli libici sono buoni. Gheddafi è cattivo. I ribelli siriani sono buoni, Asad è cattivo. Gli egiziani sono buoni, ma anche cattivi. I contestatori e dissidenti arabi del Bahrein, dell’Oman, dello Yemen e dell’Arabia Saudita sono cattivi.

Sono buoni, invece, i governi feudali di quegli Stati come pure buoni sono i governi al Maliqi, per l’Iraq e Karzai, per l’Afghanistan, imposti a mano armata dagli anglo-americani. Tunisini, algerini e marocchini, finché sono governati da regimi pro-Occidente sono naturalmente buoni. Se si rivoltano sono pericolosi e quindi cattivi.

Il brano riportato alle pagine 121-122, sviluppa il gioco di parola, ove si legge che: «[…] prende le mosse la logica di divisione del “Grande Medio Oriente” in regimi amici, o “moderati”, e regimi radicali e “fondamentalisti”. Al primo gruppo hanno fatto parte per tradizione il Marocco, la Tunisia, l’Egitto, la Giordania, al secondo gruppo invece la Libia, l’Algeria del FIS, la Siria e l’Iraq di Saddām Husayn. Lecitamente saremmo indotti a pensare che, in virtù di una certa affinità elettiva, i paesi della cosiddetta e monolitica “civiltà occidentale” siano stati più propensi a legarsi e stringere rapporti con i regimi laici, caratterizzati da politiche di marginalizzazione verso i movimenti islamici. Ma lo schema non regge se si considera che dei paesi nemici, addirittura del famoso “asse del male”, fa parte la Siria che, specie dopo il recente regime change in Iraq ed il conflitto in corso in Libia, resta l’unico paese arabo a tradizione socialista. Viceversa è notorio (e sottolineato a più riprese, tra gli altri, da Ahmed Rashid) come il regime del mullā ‘Umar, il “Principe dei Credenti” talibano, nel corso degli anni ’90 sia stato corteggiato da alcune cancellerie occidentali in merito a precisi progetti, poi abortiti, di approvvigionamento energetico. Anche l’esempio delle petro-monarchie del Golfo è significativo in tal senso. Il vero problema quindi non sembra essere il fantasma islamico che aleggia minaccioso per le strade di Damasco o di Algeri e Tripoli d’occidente, perché quello stesso “spettro” aleggia anche per le strade del Cairo, di Rabat e forse soprattutto di Amman».

Questo volume distrugge i luoghi comuni, le frasi fatte, le banalità di coloro che lavano i cervelli attraverso giornali e mass media, quelli con le palette in mano fra un concorso canoro, ed una trasmissione in cui “insegnano” chi è amico e chi no. È un libro completo e chiaro che tutti leggiamo senza rischiare di precipitare nell’erudizione, nell’eccesso di note, nella noia del particolarismo, grazie pure ad una cartografia curata con massima perizia ed eccellenza da Lorenzo Giovannini.

E per finire… un ricordo sull’Oman… la cui lotta di liberazione marxista-leninista degli anni Settanta era ricordata dalle trasmissioni di Radio Tirana, in lingue nazionale ed estere (italiano compreso) e da LP pubblicati in Francia [qui mostro il disco]. In Italia non se ne parlava.

Grazie.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’IsAG e l’Università Kore di Enna lanciano un ciclo di seminari sul Mediterraneo

0
0

L’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), di cui Eurasia è rivista ufficiale, e la Cattedra di Diritto internazionale della Facoltà di Scienze Economiche e Giuridiche dell’Università “Kore” di Enna, detenuta dal professor Paolo Bargiacchi, propongono il ciclo di seminari Difesa, sicurezza e diritto internazionale nel Mediterraneo.

Il ciclo si comporrà di dodici seminari, di cui i primi cinque si terranno questo mese (novembre 2011) e gli altri sette nel secondo semestre accademico.
Questo è il calendario dei seminari previsti per il primo semestre:

7 novembre 2011, ore 15.30-18.30: La prospettiva euroasiatica e il Mediterraneo. Relatore: Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”).
8 novembre 2011, ore 9.00-12.00: La cerniera mediterraneo-centrasiatica. Relatore: Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”).
9 novembre 2011, ore 14.30-17.30: La guerra di Libia e il diritto internazionale. Relatore: Paolo Bargiacchi (professore di Diritto internazionale).
16 novembre 2011, ore 14.30-17.30: Introduzione al diritto islamico e dei paesi musulmani. Relatore: Pietro Longo (ricercatore dell’IsAG).
23 novembre 2011, ore 14.30-17.30: L’emergenza Lampedusa tra diritto e politica europea. Relatore: Paolo Bargiacchi (professore di Diritto internazionale).

La partecipazione ad almeno dieci seminari comporta il riconoscimento di 3 cfu per il corso di laurea magistrale in Giurisprudenza (come “attività di contesto”) o per il corso di laurea in Scienze della difesa e della sicurezza (come “Tirocinio o stage”), previa registrazione da effettuarsi a partire dal 2 novembre inviando una lettera elettronica a paolo.bargiacchi@unikore.it (massimo 40 iscritti).
Chi non è interessato al riconoscimento dei cfu può assistere ai seminari senza iscriversi.

SCARICA LA LOCANDINA IN PDF (cliccare)

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

La dottrina dell’unità nella tradizione ellenica

0
0

Nei giorni 15 e 16 ottobre si è svolto a Zvenigorod, nei pressi di Mosca, il seminario universitario “Contro il mondo postmoderno”, organizzato dal prof. Aleksandr G. Dugin dell’Università di Stato di Mosca. Proponiamo qui il testo della relazione tenuta dal professor Claudio Mutti, redattore di “Eurasia” e membro del Direttivo dell’IsAG.

 

 

Gli dèi e l’Uno

 

 

“La dottrina dell’Unità, cioè l’affermazione secondo cui il Principio d’ogni esistenza è essenzialmente Uno, è – secondo René Guénon – un punto fondamentale comune a tutte le tradizioni ortodosse” (1). In altre parole, sempre secondo Guénon,

 

“Qualunque vera tradizione è essenzialmente monoteista; per usare un linguaggio più preciso, ogni tradizione afferma innanzitutto l’unità del Principio Supremo, da cui tutto deriva e da cui tutto dipende integralmente, ed è questa affermazione, nell’espressione che riveste specialmente nelle tradizioni a forma religiosa, a costituire il monoteismo propriamente detto” (2).

 

Accettando questi presupposti, non può esistere nessuna forma tradizionale autentica che sia propriamente politeistica, ossia che ammetta una pluralità di princìpi considerati completamente indipendenti. Difatti lo stesso Guénon afferma che il politeismo costituisce la “conseguenza di un’incomprensione di talune verità tradizionali, e precisamente di quelle che si riferiscono agli aspetti, o attributi, divini” (3); e prosegue dicendo che “simile incomprensione è sempre possibile in individui isolati e più o meno numerosi, ma la sua generalizzazione, che corrisponde allo stato di degenerazione estrema di una forma tradizionale in procinto di scomparire, è stata senza dubbio più rara di quanto abitualmente si crede” (4).

Se la legittimità di una forma tradizionale è strettamente determinata dalla sua coerenza con la dottrina dell’Unità, qual è allora il grado di validità delle forme tradizionali dell’antico mondo europeo, che generalmente ci presentano una pluralità di divinità?

Non potendo affrontare questo problema in tutta la sua estensione, mi limiterò a considerare il caso della civiltà greca, tipica per quanto riguarda la molteplicità di figure divine, aventi per lo più un carattere antropomorfo.

È noto che la prospettiva politeistica si trova superata dal pensiero filosofico, la quale esordisce nella ricerca di un’arché unitaria e culmina nell’individuazione di una causa causarum, chiamata Sommo Bene da Platone, Motore Immobile da Aristotele, Lògos dagli Stoici. Nella cultura latina, Cicerone definisce questa Causa prima come “il Dio sovrano, che regge tutto il mondo” (4bis).

Tuttavia in Grecia le attestazioni dell’Unità divina possono essere ritrovate anche in ambiti diversi da quello filosofico.

Nell’Iliade, ad esempio, compaiono tutti gli dèi e le dee dell’Olimpo, spesso in lotta fra loro, perché alcuni sono schierati a fianco degli Achei, altri a fianco dei Troiani; tuttavia non mancano, nella stessa Iliade, episodi che manifestano una visione religiosa in cui la molteplicità delle figure divine viene ricondotta ad un superiore, trascendente principio unitario.

Così, ad esempio, è nel libro VIII, dove troviamo un brano che costituisce il più antico documento greco relativo all’argomento che abbiamo affrontato. L’episodio è il seguente. Zeus convoca il concilio degli dèi sulla più alta cima dell’Olimpo, per enunciare solennemente il divieto di partecipare alla battaglia, divieto al quale tutti dovranno sottostare. Oltre a formulare una terribile minaccia di ritorsione nei confronti dell’eventuale trasgressore (sarebbe scagliato nelle profondità del Tartaro), Zeus lancia una sfida che intende mettere in evidenza la sua schiacciante superiorità su tutti gli dèi:

 

“Orsù dunque, provatevi, dèi, perché tutti possiate vedere;

fate pendere dal cielo una catena d’oro

e tutti quanti attaccatevi, dèi e dee:

ma non potrete tirare dal cielo sulla terra

Zeus, consigliere supremo, neppure se vi affaticaste moltissimo.

Invece, qualora io volessi tirare sul serio,

vi tirerei su con la terra e col mare,

e poi la catena a una cima d’Olimpo

legherei, e tutto rimarrebbe sospeso.

Tanto io sono al di sopra degli dèi e sono al di sopra degli uomini”. (5)

 

La superiorità del potere di Zeus sul potere di cui dispongono tutti gli dèi messi insieme simboleggia l’essenziale nullità della molteplicità degli enti divini di fronte all’unità principiale.

Ma il potere di Zeus, che pure è supremo in rapporto a quello degli altri dèi, trova il proprio limite nella volontà inflessibile della Moira. La subordinazione di Zeus, dio personale, a questa impersonale volontà risulta chiarissima nei passi dell’Iliade in cui il Padre degli dèi e degli uomini, per conoscere il decreto della Moira, deve pesare le sorti dei contendenti per mezzo di una bilancia cosmica. I passi più espliciti si trovano, rispettivamente, nel libro VIII (vv. 69-75) e nel libro XXII (vv. 209 segg.): nel primo vengono pesate le sorti collettive dei combattenti troiani ed achei, nel secondo le sorti individuali di Achille e di Ettore. Cito dal secondo passo:

 

“Allora il Padre tese la bilancia aurea

e vi mise le due Chere di morte crudele,

quella di Achille e quella di Ettore domatore di cavalli

e, presala per il punto mediano, la tenne sospesa: precipitò il giorno fatale di Ettore

e andò all’Ade. Lo abbandonò Febo Apollo”. (6)

 

Apollo abbandona Ettore al suo destino, Atena annuncia ad Achille che la vittoria sarà sua, Zeus rinuncia ad ogni proposito di scampare Ettore dalla morte. Tutti gli dèi si adeguano obbedienti alla volontà di una forza divina che li trascende.

Una analoga affermazione del supremo valore di Zeus è presente nella parodo dell’Agamennone di Eschilo, dove il Coro, composto da dodici vecchi, dopo avere rievocato l’inizio della spedizione contro la città di Priamo, innalza un inno solenne:

 

“Zeus, chiunque mai sia, se con tal nome

gli è caro esser chiamato,

con questo lo invoco.

Nulla posso paragonare a lui,

tutto ponderando,

tranne Zeus, se il vano peso derivante dall’angoscia

si deve veramente gettar via”. (7)

 

Il Coro dice che, per liberarsi dall’angoscia causata dalla predizione di Calcante, secondo cui grande sarebbe stato l’odio di Artemide verso gli Atridi, è necessario ricorrere a Zeus, soltanto a Zeus, perché non c’è nulla e nessuno che possa stare alla pari con lui.

Zeus è il nome al quale ricorrono anche gli Stoici, per designare il Logos che plasma ogni essere e gli dà anima e vita. Espressione della religiosità stoica è l’Inno a Zeus composto da Cleante di Asso (IV-III sec.), che esordisce esaltando Zeus come origine e sovrano di tutto ciò che esiste:

 

“Gloriosissimo tra gl’immortali, dio dai molti nomi, onnipotente sempre,

Zeus, principio della natura, Tu che governi tutto con la legge,

salve!” (8)

 

Appena il filosofo poeta – scrive Max Pohlenz – “invoca Zeus ‘dai molti nomi’, i fedeli sentono che Zeus, Logos, Physis, Pronoia, Heimarmene non sono se non i nomi diversi dell’unica divinità universale” (9).

Anche Arato di Soli (320-250), nel solenne esordio dei Fainómena, chiama col nome di Zeus il principio della manifestazione cosmica, concepito come spirito onnipresente in ogni angolo del mondo:

 

“Cominciamo da Zeus! Lui, in quanto mortali, noi non tralasciamo mai

di nominare. Piene di Zeus sono tutte le vie,

tutte le piazze degli uomini, pieno ne è il mare

e i porti; ed a Zeus in ogni circostanza tutti facciamo ricorso” (10).

 

Invece Plutarco, per simboleggiare l’Unità e Unicità divina, non ricorre alla figura divina di Zeus, ma a quella di Apollo. Nel dialogo Sulla E di Delfi, dove vengono proposte alcune interpretazioni della lettera E (epsilon) raffigurata all’ingresso del tempio delfico di Apollo, la spiegazione decisiva è quella del maestro di Plutarco, Ammonio, secondo il quale la E, essendo letta , coincide con la seconda persona singolare del presente di eimì e quindi significa “tu sei”. “Tu sei”, detto al dio che esorta l’uomo a conoscere se stesso (gnôthi sautòn era appunto una frase incisa sulla facciata del santuario delfico) è dunque un riconoscimento del dio quale Essere.

 

“Bisogna dunque rivolgersi a Lui e salutarlo, quando Lo si adora, in questo modo: ‘Tu sei'; oppure, per Zeus, dicendo, come alcuni tra gli antichi: ‘Sei Uno’. Infatti il divino non è pluralità, come ciascuno di noi, che è fatto di diecimila discordi passioni: cumulo multiforme, orgogliosa mescolanza. L’Essere, invece, è necessariamente Uno, così come l’Uno è necessariamente Essere. (…) Quindi sta bene al dio il primo dei Suoi nomi, nonché il secondo e il terzo. È Apollon, infatti, perché esclude la pluralità e nega il molteplice; è Ieios in quanto Uno ed Unico; Foibos, perché così era chiamato dagli antichi – non è vero? – tutto ciò che è puro e incontaminato”. (11)

 

Secondo un procedimento ermeneutico basato sul valore simbolico degli elementi di cui un vocabolo è costituito, il nome Apollon viene inteso come composto da a- privativo e da polýs, pollé, polý, “molto”; quindi: “senza molteplicità”. Il nome Ieîos è messo in rapporto con heîs, “uno”. Foîbos, etimologicamente connesso con fáos, “luce”, significa “lucente, puro”, quindi “non misto”. La Persona divina di Apollo, insomma, è simbolo del principio uno ed unico della manifestazione universale, è il Supremo Sé di tutto ciò che esiste.

Sulle tracce di Plutarco, Numenio di Apamea (II sec.) interpreta Délphios, epiteto di Apollo, come un antico vocabolo greco che significa “unico e solo” (12).

 

 

 

Il “monoteismo solare”

 

 

Nel quadro di quel “monoteismo solare” che con Aureliano (274 d. C.) diventa religione ufficiale dell’Impero romano, la figura di Apollo viene identificata con Helios, il cui stesso nome latino, Sol, riecheggia significativamente l’aggettivo solus, “unico”. All’epoca di Costantino le figure del dio solare – Apollo e Sol Invictus – risaltano sulle monete e nei rilievi dell’arco di trionfo.

È noto che nella fortuna del monoteismo solare nell’Impero romano ebbe un ruolo determinante un culto solare già molto diffuso fra i popoli del Mediterraneo orientale, specialmente in Siria. Depurato degli aspetti meno accettabili dallo spirito romano, il culto del cosiddetto “dio solare di Emesa”, nato fra le popolazioni nomadi dell’Arabia preislamica, diventò un culto romano di Stato e il dio Sole fu identificato con Giove Capitolino e con Apollo. Questo fatto, che René Guénon avrebbe potuto definire come “un provvidenziale intervento dell’Oriente” a favore di Roma, poté verificarsi per la ragione che il culto solare della tarda antichità rappresentava la riemergenza di una comune eredità primordiale.

Ed è lo stesso Guénon che conviene citare per quanto concerne il significato del simbolismo solare:

 

“Il sole si impone (…) come il simbolo per eccellenza del Principio Uno (Allâhu Ahad): l’Essere necessario, quello che, solo, è sufficiente a Se stesso nella Sua assoluta pienezza (Allâhu es-Samad), e dal quale dipendono interamente l’esistenza e la sussistenza di tutte le cose, le quali senza di Lui nulla sarebbero. Il ‘monoteismo’ – se con questa parola si può tradurre ‘Et-Tawhîd’, benché se ne restringa un poco il significato facendo pensare quasi esclusivamente ad un punto di vista esclusivamente religioso – ha dunque un carattere essenzialmente ‘solare’. (…) Non si potrebbe trovare un’immagine più vera dell’Unità che si dispiega nella molteplicità, senza cessare di essere se stessa e senza esserne influenzata, e che riconduce a se stessa, sempre secondo le apparenze, tale molteplicità; questa, in realtà, non è mai esistita, dato che non può esservi nulla fuori del Principio, a cui nulla può essere aggiunto e nulla sottratto, rappresentando Esso l’indivisibile totalità dell’Esistenza Unica” (13).

 

La dottrina del cosiddetto “monoteismo solare”, secondo cui Helios è l’ipostasi del Principio, mentre le numerose divinità del pantheon greco-romano sono solo suoi aspetti specifici e settoriali, si trova esposta nell’inno Al Re Helios (Eis tòn basiléa Hélion) dell’imperatore Flavio Claudio Giuliano. Il riferimento fondamentale è Platone. Giuliano cita un brano della Politèia (508B-C) dal quale risulta che il Sole (Hélios) è, nel mondo sensibile (aisthetòs) e visibile (oratòs), ciò che il Sommo Bene, sorgente trascendente dell’essere, è nel mondo intelligibile (noetòs); in altre parole: l’astro diurno non è che un riflesso di quel Sole metafisico che illumina e feconda il mondo delle essenze archetipiche, le platoniche “idee”. Ovvero, per dirla con Julius Evola: “Helios è il Sole, non come astro fisico divinificato ma come simbolo di luce metafisica e di potenza in un senso trascendente” (14). Ma tra il mondo intelligibile dell’Essere puro e il mondo delle forme corporee percepibili dalla vista fisica e dagli altri sensi s’interpone un terzo mondo: un mondo che viene definito “intellettuale” (noeròs), ossia dotato di intelligenza.

Ricordo per inciso che il teosofo islamico Mahmûd Qotboddîn Shîrâzî (1237-1311) riassume la dottrina dei tre mondi dicendo che Platone e gli altri sapienti dell’antica Grecia “professavano l’esistenza di un doppio universo: da un lato l’universo del puro soprasensibile, che comprende il mondo della Divinità e il mondo delle Intelligenze angeliche; dall’altro, il mondo delle Forme materiali, vale a dire il mondo delle Sfere celesti e degli Elementi e, tra l’uno e l’altro mondo, il mondo delle Forme immaginali autonome” (15).

Ipostasi del Principio supremo (“figlio dell’Uno”) al centro di questo mondo mediano, Helios vi svolge una funzione mediatrice, coordinatrice e unificatrice in rapporto alle cause intellettuali e demiurgiche, partecipando sia dell’unità del Principio trascendente sia della molteplicità contingente della manifestazione fenomenica. La sua posizione è dunque la più centrale che possa essere concepita e giustifica il titolo di Re che gli viene riconosciuto. In termini teologici: tutti gli dèi dipendono dalla luce di Helios, che è l’unico a non essere sottoposto alla necessità costrittiva (anánke) di Zeus, con il quale, in realtà, egli si identifica.

Sulla scia di Henry Corbin, che include i “neoplatonici cosiddetti tardivi” (e quindi anche l’imperatore Giuliano) tra le coraniche Genti del Libro (16), uno studioso italiano ha suggerito che Helios “equivale a ciò che nell’Islam è chiamato an-nûr min ‘amri-llâh, ‘la luce che procede dal comando divino'”, per cui la divinità solare “non è altra cosa da quella ‘nicchia delle luci’ dalla quale (…) è attinta ogni sapienza” (17).

Giuliano viene poi a trattare dei poteri (dynámeiai) e delle energie (enérgheiai) di Helios, cioè, rispettivamente, delle sue potenzialità e delle sue attività in relazione ai tre mondi. L’aspetto più considerevole di questa parte dell’Inno (143b-152a) consiste nel tentativo di ricondurre la molteplicità degli dèi ad una Unità principiale rappresentata per l’appunto da Helios, cosicché le varie figure divine ci appaiono come suoi aspetti, ovvero come Nomi corrispondenti alle sue innumerevoli qualità. Una dottrina analoga, d’altronde, era stata formulata da Diogene Laerzio, il quale interpretava Zeus, Atena, Era, Efesto, Posidone, Demetra come appellativi corrispondenti ai “modi della potenza” dell’unico Dio (18).

In Helios, dunque, confluisce il potere demiurgico di Zeus; né d’altronde esiste alcuna reale differenza tra i due. Atena Prónoia è scaturita, nella sua integralità, dalla totalità di Helios; essendo l’intelligenza perfetta di Helios, essa riunisce gli dèi che lo circondano e realizza l’unione con lui. Afrodite rappresenta la fusione degli dèi celesti, l’amore e l’armonia che caratterizzano la loro essenziale unità. Ma soprattutto, in quanto racchiude in sé i principi della più armonica sintesi intellettuale, Helios viene identificato con Apollo, il quale, date le sue qualità fondamentali di immutabilità, perfezione, eternità, eccellenza intellettuale, è la personificazione dell’unità divina esprimentesi come intelligenza pura ed assoluta.

L’ultima parte dell’Inno contiene una rassegna dei doni e dei benefici dispensati da Helios al genere umano, che da lui trae origine e da lui riceve sostentamento. Padre di Dioniso e signore delle Muse, Helios elargisce agli uomini ogni saggezza; ispiratore di Apollo, di Asclepio, di Afrodite e di Atena, egli è il legislatore della comunità; infine è lui, Helios, il vero fondatore e protettore di Roma. È dunque a questo dio, creatore della sua anima immortale, che Giuliano rivolge la richiesta di accordare all’Urbe un’esistenza parimenti immortale, identificando così “non solo la sua missione personale sulla terra, ma anche la sua salvezza spirituale, con la prosperità dell’Impero” (19).

Il discorso è suggellato da una preghiera finale a Helios, la terza contenuta nell’Inno: che il Re dell’universo conceda al suo devoto celebrante una vita virtuosa e un più perfetto sapere e, nell’ora suprema, lo faccia ascendere in alto fino a Sé.

Giuliano dedica l’Inno al Re Helios a quel Salustio che nel trattatello Sugli dèi e il mondo formula la dottrina dell’Unità nei termini seguenti: “La causa prima conviene che sia una, poiché l’unità precede ogni molteplicità e supera tutto in potenza e bontà; e per questo è necessario che tutto partecipi di essa, poiché nient’altro la ostacolerà, data la sua potenza, né la allontanerà, data la sua bontà” (20).

Considerata in un quadro storico, la teologia solare di Giuliano si colloca in una fase matura del neoplatonismo, nella quale i cardini dottrinali di questo movimento spirituale si trovano già definitivamente fissati e consolidati. Se il fondatore della scuola, Plotino (204-270), aveva riconosciuto nell’Uno il principio dell’essere ed il centro della possibilità universale, il suo successore Porfirio di Tiro (233-305) aveva dedicato alla teologia solare un trattato Sul Sole, andato perduto (21). Ne sussiste una citazione nei Saturnalia, là dove Macrobio, riconducendo al principio solare Apollo, Libero, Marte e Mercurio, Saturno e Giove, dice che secondo Porfirio “Minerva è la forza del Sole che dà prudenza alle menti umane” (22). D’altronde nel trattato Sulla filosofia degli oracoli (23), Porfirio aveva citato un responso apollineo secondo il quale c’è un solo dio, Aiòn (“Eternità”), mentre gli altri dèi non sono altro che i suoi angeli.

Dopo Giuliano, è possibile seguire la tradizione “solare” fino a Proclo (410-485), autore fra l’altro di un Inno a Helios in cui Helios è invocato come “re del fuoco intellettuale” (pyròs noeroû basileû, v. 1) e “immagine del dio generatore di tutte le cose” (eikôn panghenétao theoû, v. 34) (24), cioè come epifania del Dio Supremo. Per quanto riguarda la pluralità degli dèi della religione, Proclo la risolve riportandola all’Uno; e l’Uno è Dio, perché, argomenta, il Bene e l’Uno sono la stessa cosa e il Bene si identifica con Dio (25). Si capisce allora perché Henry Corbin abbia caldamente auspicato il confronto tra la teologia di Proclo e le dottrine dello Pseudodionigi e dello Shaykh al-Akbar. In particolare, egli scrive, sarebbe molto istruttiva

 

una comparazione approfondita fra la teoria dei Nomi divini e delle teofanie che sono i Signori divini: voglio dire dal parallelismo tra Ibn ‘Arabî da una parte – l’ineffabilità del Dio, che è Signore dei Signori e le molteplici teofanie costituite dallan gerarchia dei Nomi divini – e Proclo dall’altra – la gerarchia che si origina nell’enade delle enadi manifestata da queste stesse enadi, e che si propaga attraverso tutti i gradi delle gerarchie dell’essere” (26).

 

Ma quella che è stata definita “l’ultima attestazione del sincretismo solare in Occidente” (27) è la preghiera di Filologia al Sole (28), “documento notevole della ‘teologia solare’ del tardo neoplatonismo” (29) dovuto ad un contemporaneo di Proclo, Marziano Capella. Ultima attestazione, perché verso il 531, con la fuga in Persia dello Scolarca Damascio (470-544) e degli altri neoplatonici, la tradizione “solare” continuerà la propria esistenza negli stessi luoghi dai quali si era irradiato, diffondendosi in tutta l’Europa, il culto di Mithra.

A parere di Franz Altheim, la teologia solare elaborata dai neoplatonici non fu priva di relazione col monoteismo islamico, tutt’altro. “Il messaggio di Maometto – egli scrive – era infatti incentrato sul concetto di unità ed escludeva che la divinità potesse avere un ‘compagno’, ricalcando così le orme degli antecedenti e conterranei Neoplatonici e Monofisiti. L’impeto religioso del Profeta riuscì quindi a far emergere con accresciuta forza ciò che prima di lui altri avevano sentito e anelato” (30).

 

 

 

1. R. Guénon, Aperçus sur l’ésotérisme islamique et le taoïsme, Gallimard, Paris 1973, p. 38.

2. R. Guénon, Monothéisme et angélologie, “Études Traditionnelles”, n. 255, ott.-nov. 1946.

3. Ibidem.

4. Ibidem.

4bis. “Princeps deus, qui omnem mundum regit” (Cicerone, Somnium Scipionis, 3).

5. Omero, Iliade, VIII, 23-27. (La traduzione di questo brano è stata eseguita da me, così come quelle degli altri testi greci e latini, ad eccezione del passo di Proclo che riportato nella versione di Michele Losacco).

6. Omero, Iliade, XXII, 209-213.

7. Eschilo, Agamennone, 160-166.

8. Cleante, Inno a Zeus, I Powell, 1-3.

9. M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, La Nuova Italia, Firenze 1967, I, p. 218.

10. Arato, Fenomeni, 1-4.

11. Plutarco, De E apud Delphos, 393 b-c.

12. “Apóllona Délphion vocant, quod (…), ut Numenio placet, quasi unum et solum. Ait enim prisca Graecorum lingua délphon unum vocari” (Macrobio, Saturnalia, I, 17, 65).

13. R. Guénon, Et-Tawhîd, “Le Voile d’Isis”, luglio 1930.

14. J. Evola, Ricognizioni. Uomini e problemi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974, p. 140.

15. H. Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi, Milano 1986, p. 140.

16. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 70.

17. R. Billi, L’Asino e il Leone. Metafisica e Politica nell’opera dell’Imperatore Giuliano, tesi di laurea, Università di Parma, anno acc. 1989-1990, pp. 79-80.

18. Diogene Laerzio, VII, 147 (Stoicorum Veterum Fragmenta, II, fr. 1021).

19. M. Mazza, Filosofia religiosa ed “Imperium” in Giuliano, in: AA. VV., Giuliano Imperatore, Atti del Convegno della S.I.S.A.C. (Messina, 3 aprile 1984), a cura di B. Gentili, QuattroVenti, Urbino 1986, p. 90.

20. Sallustio, Sugli dèi e il mondo, a cura di C. Mutti, Edizioni di Ar, 2a ed., Padova 1993, pp. 27-28.

21. Il trattato di Porfirio è citato da Servio (Commento alle Ecloghe, V, 66) ed è forse da identificarsi col trattato Sui nomi divini; o, forse, faceva parte della Filosofia degli oracoli. Cfr. G. Heuten, Le “Soleil” de Porphyre, in Mélanges F. Cumont, I, Bruxelles 1936, p. 253 sgg.

22. “et Porphyrius testatur Minervam esse virtutem Solis quae humanis mentibus prudentiam subministrat” (Macrobio, op. cit., I, 17, 70).

23. G. Wolff (a cura di), Porphyrii de philosophia ex oraculis haurienda librorum reliquiae, Springer, Berlin 1866.

24. Proclo, Inni, a cura di D. Giordano, Fussi-Sansoni, Firenze 1957, pp. 20-25.

25. Proclo, Elementi di teologia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1983, pp. 94-95.

26. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 8.

27. R. Turcan, Martianus Capella et Jamblique, “Revue des Études Latins”, 36, 1958, p. 249.

28. Marziano Capella, De nuptiis, II, 185-193.

29. Martiani Capellae De nuptiis Philologiae et Mercurii liber secundus, Introduzione, traduzione e commento di L. Lenaz, Liviana, Padova 1975, p. 46.

30. F. Altheim, Deus invictus. Le religioni e la fine del mondo antico, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, pp. 115-116.

 

 

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

“La NATO vuole indirizzare le rivolte arabe contro la Cina”: F. Brunello Zanitti all’IRIB

0
0

Francesco Brunello Zanitti, redattore di “Eurasia” e ricercatore dell’IsAG, è stato intervistato lo scorso 31 ottobre da “Radio Italia” dell’IRIB a proposito dell’intervento NATO in Libia. Brunello Zanitti, dottore in Storia della società e della cultura contemporanea all’Università di Trieste, è autore del recente libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto (IsAG / All’insegna del Veltro, Roma-Parma 2011).

Per la fonte originale dell’intervista cliccare qui. Seguono l’audio e la trascrizione dell’intervista.

 

Dott. Brunello Zanitti nel suo ultimo articolo per “Eurasia” lei afferma che l’intervento della NATO in Libia nel contesto della “primavera araba” dimostra ancora una volta come l’Occidente non abbia abbandonato i suoi disegni egemonici. Si potrebbe spiegare meglio?

 

Ritengo che nel contesto della cosiddetta “primavera araba” le diverse potenze, soprattutto gli Stati Uniti, hanno l’interesse ad indirizzare queste rivolte secondo i propri disegni strategici. Le sommosse hanno senza dubbio un carattere di malcontento popolare molto importante dovuto a differenti cause. Ma naturalmente gli Stati Uniti, che hanno interessi globali, e i paesi della NATO hanno come obiettivo l’incanalare secondo le proprie volontà quello che sarà il futuro della Libia. In questa fase storica esiste una forte competizione a livello globale, soprattutto fra la Cina e gli Stati Uniti. Gli eventi che si sono verificati negli ultimi mesi nel continente africano dimostrano questa forte competizione tra le due potenze. Può essere una lettura di quello che accaduto in Libia, senza comunque dimenticare che ci sono altri interessi regionali (Arabia Saudita, Turchia, Iran) nell’indirizzare queste rivolte per aumentare la propria influenza nazionale. Dunque, penso che uno degli obiettivi degli Stati Uniti e dell’Occidente sia quello di favorire la nascita di un governo che poi sia legato strettamente al mondo occidentale.

 

Si potrebbe spiegare meglio sul concetto di colonizzare l’Africa per colpire la Cina? Qual è il motivo di questa sua opinione?

 

Si possono fornire diversi esempi. Gli Stati Uniti hanno favorito la divisione del Sudan, la Francia è intervenuta in Costa d’Avorio. Poche settimane fa gli Stati Uniti hanno inviato delle truppe in Uganda, ci sono bombardamenti quotidiani in Somalia. Questi interventi molto forti dell’Occidente possono essere letti come una sorta d’azione per prevenire la presenza economica della Cina. Pechino ha interessi molto forti in Africa; tutt’ora anche in Libia. L’Occidente per prevenire questa maggiore influenza cinese deve in certo senso cercare di ostacolarla.

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’instabilità politica del Pakistan e il possibile modello turco

0
0

Nawaz Sharif, capo del partito d’opposizione pakistano, il Pakistan Muslim League (Nawaz), ha recentemente fatto visita al presidente turco Gül. Sembra che Sharif sia interessato ad emulare il primo ministro Erdogan per riconquistare il potere e tenere a freno l’apparato militare. Tenendo conto anche dell’emergere del partito di Imran Khan, così come dell’elevata frammentazione politica, è possibile un cambiamento governativo in Pakistan collegato alle rivolte arabe? Il ruolo degli Stati Uniti e degli attori regionali è fondamentale per comprendere i cambiamenti in corso in Asia Meridionale e Vicino Oriente.

 

Nello stesso momento in cui Nawaz Sharif, capo del maggior partito d’opposizione pakistano, il Pakistan Muslim League (Nawaz) (PML-N), si trovava ad Ankara per un incontro con il presidente turco Abdullah Gül, la capitale politica del Pakistan, Lahore, è stata teatro di una manifestazione di piazza del PML(N) contro il presidente Asif Ali Zardari e il Pakistan People Party (PPP). I giornali pakistani hanno parlato della visita di Sharif in Turchia come una sorta di viaggio d’istruzione affinché il PML(N) riesca ad emulare l’AKP turco e riconquisti il potere politico. Ufficialmente il partito di maggioranza è accusato di aver favorito l’imperante corruzione, la stagnazione economica e l’insicurezza del paese, ma è curioso il fatto che a conclusione dell’adunata di piazza il principale fautore della manifestazione, Shahbaz Sharif, governatore della provincia del Punjab nonché fratello di Nawaz, abbia sottolineato che il PPP nei prossimi mesi si troverà di fronte a una serie di “piazze Tahrir” in ogni grande città del Pakistan. Secondo gli analisti politici pakistani l’obiettivo del PML(N) è indirizzato alla creazione di un vasto sostegno popolare affinché Zardari rassegni le dimissioni nelle prossime settimane, in modo da tornare a elezioni generali il prossimo anno, prima della tornata elettorale per il Senato prevista per il mese di marzo 2012. Nawaz Sharif starebbe cercando l’appoggio dell’apparato militare e del generale Ashfaq Parvez Kayani, Capo di Stato Maggiore dell’esercito. In ogni caso la competizione politica è molto forte, così come il malcontento popolare verso il PPP e il PML(N). Infatti, le manifestazioni di quest’ultimo possono essere lette come una possibile risposta in termini elettorali al partito Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) dell’ex campione di cricket Imran Khan. Figura apprezzata in Occidente, ma molto ciritico nei confronti dei bombardamenti statunitensi sulle FATA e dell’attuale strategia di Washington in Afghanistan, Khan ha chiesto la cacciata di Zardari mediante un’altra adunata di piazza a Lahore. Le due manifestazioni sono dunque collegate, mentre l’obiettivo del PML(N) è quello di evitare che il PTI assuma troppo potere nel tessuto urbano pakistano e soprattutto a Lahore. Il fatto è che Khan sembra maggiormente popolare rispetto a Sharif e Zardari; la sua ascesa politica è stata riconosciuta a livello internazionale e il primo paese che il capo del PTI ha visitato subito dopo la manifestazione è stata la Cina. I detrattori di Khan sostengono che il suo partito potrebbe avere successo solamente grazie al suo carisma poiché non esiste una solida struttura politica nel PTI.

E’ possibile un nuovo cambiamento di governo, naturalmente con tutte le peculiarità pakistane, collegato al sommovimento generato dalle rivolte arabe? Certamente bisognerà attendere le mosse future dei partiti, ma soprattutto del settore militare, dell’ISI e della Corte Suprema, i quali potrebbero spingere per nuove elezioni vista la difficile situazione del paese. In ogni caso è da mesi che si parla di possibili colpi di stato militari in funzione anti-statunitense, di complotti occidentali per facilitare l’esplodere di sommosse connesse alla “primavera araba” o manovre per l’instaurazione di un califfato guidato dall’organizzazione di stampo sunnita Hizb ut-Tahrir (Pakistan’s Chief of Army Fights to Keep His Job; Anti-American Coup in Pakistan?; Intelligence warning: Hizb ut-Tahrir planned ‘Arab spring’ in Pakistan). In questa fase sembra che il PML(N) abbia timore di un possibile colpo di stato militare anticostituzionale, vista la debolezza del governo e le continue pressioni provenienti dall’esterno.

 

Il modello turco per le rivolte arabe e il contesto geopolitico del Vicino-Oriente

 

I diversi attori regionali e globali, Turchia, Arabia Saudita, Iràn, Stati Uniti e Cina, cercheranno nei prossimi mesi di trarre vantaggio dalle conseguenze delle rivolte arabe, appoggiando, a seconda delle circostanze, determinati gruppi politici o religiosi. In ogni caso, le sommosse hanno diverse cause ed è improbabile che il malcontento sia stato solamente generato dall’esterno, data la complessità del fenomeno (vedi il libro di Daniele Scalea e Pietro Longo Capire le rivolte arabe).

La Turchia ha favorito indirettamente le rivolte arabe e, osservando il caso tunisino ed egiziano, può essere considerata un interessante modello per gli Stati che s’apprestano a ricostruire la propria amministrazione in seguito alle sommosse, così come un efficace esempio per quei paesi che si trovano in una difficile congiuntura economica e politica, vedi il caso pakistano. La Turchia odierna guidata dall’AKP appare un conglomerato efficace di secolarismo, religione, nazionalismo, globalismo, autonomia in politica estera e crescita economica, al quale i partiti islamisti dell’area potrebbero fare riferimento. Questa opzione sarebbe vista favorevolmente dagli stessi Stati Uniti: nonostante Ankara abbia optato per una maggiore autonomia in politica estera e aumentato la competizione regionale con Israele, Washington ha comunque mantenuto un proficuo rapporto con la Turchia, uno dei principali paesi della NATO. L’esempio turco, inoltre, nell’ottica occidentale, sarebbe favorito a discapito di quello saudita, ma soprattutto del modello iraniano.

Non a caso, infatti, anche l’Arabia Saudita e l’Iràn potrebbero trarre vantaggi dalle rivolte. I gruppi islamisti radicali in Tunisia, Egitto e Libia potrebbero optare per un miglior rapporto con l’Iràn, visti gli accenti anti-israeliani e gli interessi manifestati da Tehran per una maggiore collaborazione (Iran ready for defense cooperation with Egypt, Libya).

In ogni caso, malgrado Ankara abbia sostanzialmente un sistema statale opposto, mantiene nella regione vicino-orientale un rapporto strategico di primo livello con l’Arabia Saudita, asse collegato strettamente a Washington. Sebbene tra Riyad e Ankara esista una sostanziale competizione nell’area, i due paesi hanno in comune diversi obiettivi e le loro politiche possono apparire per certi aspetti complementari. Una strategia comune è, ad esempio, il contenimento dell’Iràn, nonostante la Turchia appaia maggiormente cauta. Malgrado Ankara e Tehran siano alleate su alcune questioni fondamentali per la propria sicurezza, ad esempio per quanto riguarda l’indipendentismo curdo, e negli ultimi anni il rapporto sia migliorato, i due paesi competono fortemente in numerosi ambiti di politica regionale. Senza dimenticare che nelle ultime settimane è aumentato il livore iraniano contro la Turchia per la questione siriana (Iran tells Turkey to change tack or face trouble). Ankara ha accelerato le pressioni nei confronti della Siria, in vista di un potenziale intervento contro Assad, colpendo indirettamente gli interessi di Tehran.

Nello stesso momento l’amministrazione Obama è indotta ad adottare una politica più aggressiva nei confronti di Tehran; azione operata non solo dalla lobby filo-israeliana nel paese e dal governo Netanyahu, preoccupati per gli esiti negativi delle rivolte arabe per la sicurezza regionale d’Israele, ma anche dal gruppo neocons, dai repubblicani, da alcuni settori liberal e parte del Pentagono. Inoltre, questi gruppi, unitamente a Israele e Arabia Saudita, sono molto critici nei confronti dell’amministrazione Obama per l’annunciato ritiro dall’Iràq, paventando un possibile aumento dell’influenza iraniana. A questo proposito l’Ayatollah Ali Khamenei ha definito il ritiro statunitense una “vittoria d’oro” per l’Iran (U.S. exit from Iraq “golden” victory: Iran).

Nonostante appaia altamente improbabile che Washington agisca militarmente nell’immediato, è da registrare una sorta di preparazione in vista di un possibile conflitto futuro. Come osserva un editorale del New York Times, in seguito al ritiro statunitense dall’Iràq, le truppe saranno spostate in altri territori del Golfo Persico, in Arabia Saudita, Kuwait, Bahrain, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Omàn per rispondere ad un eventuale collasso della sicurezza in Iràq o per una guerra contro l’Iràn (U.S. Planning Troop Buildup in Gulf After Exit From Iraq).

 

La situazione in Pakistan e il contesto geopolitico dell’Asia Meridionale

 

Islamabad si trova attualmente in una difficile congiuntura a livello economico e politico. Quotidianamente si registrano accuse contro accuse e riavvicinamenti tra Stati Uniti e Pakistan, collegati al dialogo aperto con i talebani e la rete Haqqani, nonché al contemporaneo bombardamento dei droni statunitensi sulle FATA. Il nocciolo della questione ruota essenzialmente attorno al futuro dell’Afghanistan con l’obiettivo dichiarato statunitense di mantenere una base militare permanente dopo il 2014 (L’Afpak tra dilemmi e incertezze). Il Pakistan ha una posizione ambigua, ma sembra contrario a una simile prospettiva senza il mantenimento della propria influenza sul paese. E’ evidente che un dialogo principalmente con Islamabad potrebbe sbloccare la situazione, anche perché i progetti statunitensi della “nuova via della seta”, includendo Uzbekistan, Tagikistan, Afghanistan e India, non possono fare a meno del Pakistan. Nella prospettiva statunitense, Islamabad deve cambiare la propria strategia in politica interna ed estera, entrando a far parte di un sistema economico globale fonte di sviluppo e prosperità per il paese.

Nelle ultime settimane si è parlato di un possibile avvicinamento tra Islamabad e Washington. Gli Stati Uniti potrebbero garantire al Pakistan l’influenza su Kabul, accordandosi sul mantenimento di una presenza militare statunitense e includendo nel discorso sull’Afghanistan la questione kashmira. Quest’ultima dovrebbe essere risolta a vantaggio dell’India, a patto che Nuova Delhi abbandoni la strategia volta all’aumentare il proprio ascendente su Kabul, con evidenti ripercussioni per i suoi progetti in Asia Centrale. Questa prospettiva, oltre a vedere gli Stati Uniti potenziali garanti della stabilità regionale, potrebbe includere la Cina, la quale favorirebbe il dialogo tra Pakistan e India (Afghanistan, Pakistan and Kashmir: A grand bargain?).

Questa opzione include però l’accettazione di una base statunitense in Afghanistan, prospettiva non gradita a Pechino e Mosca. Inoltre, non tiene conto del ruolo dell’Iràn.

Un fattore emblematico di quest’ultima considerazione è il fatto che Tehran sembra aver migliorato le proprie relazioni con il Pakistan, visto l’apprezzamento iraniano nei confronti di Islamabad per la considerevole diminuzione delle operazioni terroristiche del gruppo Jandullah che opera da anni nel Belucistan iraniano. Un simile avvicinamento, oltre a mettere in forse la politica di contenimento statunitense nei confronti dell’Iràn, è vista negativamente dall’Arabia Saudita.

Ecco perché l’opzione di un possibile cambio di governo pakistano non sembra impossibile. La storia del Pakistan ha registrato diverse cadute di governi o dittature militari, il più delle volte avvenuti mediante il concreto supporto esterno. Il paese è attualmente attraversato da diverse situazioni critiche interne. Le zone orientali sono strettamente connesse alla guerra in Afghanistan; il Belucistan e il Sindh sono caratterizzati da una grande instabilità; il Punjab ha registrato le ricordate manifestazioni antigovernative; se il cuore politico e militare del Pakistan sarà attraversato da un incremento della violenza la situazione interna sarà ancora più delicata. Senza dimenticare che il Pakistan sembra aver nuovamente perso l’unità e la concordia nazionale registratasi nelle giornate successive alle prime accuse statunitensi. Tutti i maggiori partiti hanno scelto la piazza per legittimare le proprie richieste: il PML(N) e il TPI hanno manifestato a Lahore; il Muttahida Quami Movement (MQM) è sceso in piazza a Karachi in difesa del governo e del PPP, il quale dovrebbe guidare un’altra manifestazione, prevista per il 13 novembre sempre a Karachi.

Gli Stati Uniti potrebbero favorire l’ascesa di un diverso governo a Islamabad in modo da garantire una transizione maggiormente collaborativa in Afghanistan e prevenire un massiccio intervento militare.

In questo quadro l’India potrebbe contribuire da oriente ai disegni statunitensi, ma non è chiaro se Nuova Delhi intenda seguire la strategia di Washington. Nonostante l’accordo commerciale con l’Afghanistan, letto dal Pakistan come una sorta d’accerchiamento, negli ultimi mesi l’India ha assunto un diverso approccio nei confronti di Islamabad e si è registrato un avvicinamento concreto tra India e Pakistan testimoniato da diverse circostanze. Il ministro degli esteri indiano S. M. Krishna ha pubblicamente affermato di non condividere un possibile attacco militare statunitense contro Islamabad, mentre la recente conquista di un seggio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU come membro non permanente da parte del Pakistan è avvenuto mediante il decisivo appoggio indiano. Collaborazione testimoniata anche dal Pakistan, visto il possibile cambiamento della propria percezione dell’India, la quale potrebbe passare a un livello migliore nelle relazioni diplomatiche in base alla clausola della nazione più favorita. Il tutto è collegato ad alcune recenti descrizioni che possono danneggiare l’immagine internazionale di Nuova Delhi, come ad esempio la visione negativa dell’India pubblicizzata da alcuni enti turistici statunitensi, australiani e canadesi che sconsigliano viaggi nel paese. Inoltre, vengono accentuate a livello mediatico i possibili scontri con la Cina, altro potenziale garante della stabilità regionale. Lo stesso primo ministro Manmohan Singh ha criticato i media cinesi e indiani che presentano molto spesso l’India e la Cina in continua contrapposizione (Manmohan blames media in India, China). Il dibattito aperto in India a riguardo dell’eliminazione delle leggi d’emergenza in Kashmir è in realtà un elemento maggiormente propositivo per un dialogo diretto con Pechino e Islamabad. Il recente avvicinamento tra i due storici nemici potrebbe favorire la cooperazione regionale, senza dimenticare però che il Kashmir è un territorio che riguarda storicamente l’orgoglio nazionale di entrambi i paesi, i quali non accettano ingerenze esterne su questo problema.

Un altro fattore da non dimenticare, nel ricordato accordo commerciale indiano con l’Afghanistan, è la potenziale maggiore collaborazione anche con l’Iràn. Il ministro degli esteri pakistano Hina Rabbani Khar ha parlato a questo proposito della necessità di una maggiore cooperazione regionale per la stabilizzazione afghana. Un’ipotetica azione regionale comune tra Iràn, Pakistan, India e Cina non soddisfa però Washington. L’obiettivo prioritario è il contenimento dell’Iran, il quale è allo stesso tempo un importante partner commerciale di India e Cina. Contemporaneamente sono da registrare i tentativi di Mosca e Pechino di aumentare la propria influenza in Asia Centrale e Meridionale. L’obiettivo dell’allargamento della OCS a India e Pakistan, processo che la Russia intende accelerare, va in questa direzione, ma potrebbe scontrarsi con gli intenti di Stati Uniti, Unione Europea e NATO. La stessa politica di avvicinamento indo-pakistano potrebbe essere collegata, così come le pressioni esercitate da Occidente verso Nuova Delhi, ma soprattutto nei confronti di Islamabad, la quale osserva una tattica d’isolamento politico nei propri confronti. Washington ha come obiettivo la creazione di una “nuova via della seta” sotto la propria guida e un sistema di sicurezza regionale. Nello stesso momento, gli Stati Uniti tentano di indirizzare le diverse questioni scottanti dell’area (stabilizzazione dell’Afghanistan, linea Durand, rapporti afghano-pakistani, Kashmir, relazioni indo-pakistane, visione negativa dell’influenza indiana in Afghanistan) sotto il proprio “ombrello protettivo” al fine di favorire i propri interessi. In questo caso l’obiettivo è isolare l’Iràn e prevenire i disegni strategici russi e cinesi, nonché l’autonomia in politica estera dell’India. Appare però paradossale il fatto che Mosca e Pechino intendano allargare il discorso sulla OCS anche alla Turchia, attore regionale della NATO, la cui politica estera sembra indirizzata a soddisfare gli interessi degli Stati Uniti. In ogni caso i prossimi mesi saranno importanti per comprendere il nuovo corso “neo-ottomano” della Turchia e capire se effettivamente Ankara adotterà una politica estera maggiormente autonoma dalle volontà regionali di Washington.

La politica interna pakistana può essere dunque collegata a questo contesto geopolitico, favorendo l’ascesa di un governo islamista moderato legato alla Turchia e all’Arabia Saudita per evitare l’aumento dell’influenza sciita. Sia l’AKP turco sia il PML(N) pakistano hanno legami con l’oligarchia saudita. Un governo islamista di stampo sunnita ricalcante il modello turco potrebbe risultare maggiormente adatto per il dialogo che gli Stati Uniti stanno instaurando con talebani e rete Haqqani per la stabilizzazione dell’Afghanistan. Inoltre, eviterebbe un’azione militare contro il Pakistan, un’ipotesi dai costi e dalle conseguenze imprevedibili. Il modello turco sarebbe efficace per garantire, nonostante la forte componente religiosa, il sostegno delle forze secolari; così come potrebbe canalizzare il forte anti-americanismo degli ultimi mesi in un partito che, come l’omologo turco, lavora indirettamente anche per gli interessi strategici statunitensi. Bisognerà capire come agirà il settore militare e l’ISI. Infatti, l’ultimo governo di Nawaz Sharif venne abbattuto dal colpo di stato militare di Pervez Musharraf e il capo del PML(N) non ha dei buoni rapporti con il settore militare. Infine, a differenza di Erdogan, è un politico che ha già avuto due esperienze governative e nella fase attuale pakistana in cui esiste una forte avversione verso il mondo politico, riciclare una figura come Sharif appare una prospettiva dai risvolti poco concreti. Bisognerà comprendere anche il ruolo che verrà assunto da Imran Khan, visto che i quotidiani pakistani scrivono di una possibile alleanza tra PML(N) e PTI in vista delle elezioni.

L’area vicino-orientale e dell’Asia Meridionale appare dunque in una fase estremamente complessa e dalla lettura non semplice, in cui la competizione tra diversi attori regionali ed esterni è molto forte. Inoltre, è un periodo in cui gli Stati Uniti s’apprestano ad attraversare una lunga campagna elettorale in vista delle elezioni del prossimo anno. Le prossime settimane saranno pertanto indicative d’interessanti sviluppi.

*Francesco Brunello Zanitti, dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Opportunità di business in Uzbekistan

0
0

Fonte: “EmmeWeb

 

“Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali” è l’incontro curato dall’associazione “Pensieri in azione” e in programma a Modena sabato 5 novembre 2011 alle ore 15.30 presso la sala conferenze della Circoscrizione 1 Centro Storico, in piazzale Redecocca
 

Nuove opportunità di crescita economica offerte ancora una volta dal mondo asiatico. Con rinnovato interesse si guarda ora ad un paese dell’ex costellazione sovietica che risulta essere il secondo al mondo per la produzione di cotone grezzo, in cui cresce la produzione agricola, gli investimenti infrastrutturali, i rapporti economici con l’estero, oltre che ricco di materie prime: l’Uzbekistan.

Un’attenzione che trova anche conferma nella visita ufficiale, avvenuta il 6 -7 ottobre 2011 a Taskent, da parte del sottosegretario al Commercio Estero Catia Polidori unitamente a un nutrito gruppo di imprenditori italiani. L’Uzbekistan in altri termini rappresenta un’importante scommessa del made in Italy sulla via della Seta, in quelli che più d’uno ha definito «l’antico ponte economico tra oriente e occidente nel cuore dell’Asia».

Molteplici i settori dello stato asiatico in cui le nostre imprese hanno manifestato interesse: dall’agroindustria alla meccanica, dal tessile alle costruzioni. Attualmente infatti in Uzbekistan, sono attive 38 joint venture con investimenti italiani, operative principalmente nell’industria leggera e alimentare, nella trasformazione di prodotti agricoli e produzione di materiali da costruzione, nonché nell’ambito terziario e commerciale.

A Navoi, uno dei centri principali del Paese, è stata creata una zona industriale di libero scambio, utile per quelle società italiane che intendono istaurare rapporti commerciali. Senza contare che al fine quindi di intensificare e consolidare la cooperazione economica bilaterale vengono periodicamente svolte le riunioni del gruppo di lavoro italo-uzbeko riguardo la cooperazione economica e industriale ed i crediti all’esportazione. Dal canto turistico e culturale invece sono numerosi i punti di interesse in Uzbekistan: basti pensare alla sua storia (Tamerlano), alla sua posizione geografica strategica (Asia centrale), alla magnificenza delle sue città (Samarcanda su tutte).

Argomenti, che saranno approfonditi nel corso dell’incontro, “Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali”, curato dell’associazione culturale modenese “Pensieri in azione”, e in programma a Modena sabato 5 novembre 2011 alle ore 15.30 presso la sala conferenze della Circoscrizione 1 Centro Storico, piazzale Redecocca 1.

Sono previsti gli interventi di Jakhongir Ganiev, ambasciatore della Repubblica di Uzbekistan in Italia; Gairat Juldashev, secondo segretario dell’Ambasciata della Repubblica di Uzbekistan in Italia; Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore della rivista di Studi Geopolitici “Eurasia”; Gian Paolo Caselli, economista e docente presso l’Università di Modena e Reggio Emilia; un rappresentante di Iter Viaggi Modena (Francorosso Tour Operator).

L’evento, organizzato dall’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) con la collaborazione di “Viaggiatori fuori tema”, gode del patrocinio del Comune di Modena e dell’Università di Modena e Reggio Emilia e rientra nel Ciclo 2011-2012 dei seminari di “Eurasia” rivista di Studi Geopolitici.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’assassinio di Muammar Gheddafi: un’operazione della NATO dalla A alla Z

0
0

Fonte: Martin Iqbal Empire Strikes Black

Muammar Gheddafi – leader rivoluzionario della Jamahiriya araba libica – è stato assassinato il 20 ottobre 2011, nella città libica di Sirte. Le circostanze precise della sua morte sono offuscate dal mistero e da contraddizioni, ma i media sostengono è che i tirapiedi della NATO, i ‘ribelli’, l’abbiano catturato e ucciso. Questo ha dato al governo d’occupazione del CNT, non eletto e universalmente disprezzato, una vittoria decisiva nella guerra di propaganda sulla Libia. Tuttavia, sta emergendo un quadro sulle effettive circostanze della sua morte, che mette le forze speciali della NATO – probabilmente le SAS britanniche – nel centro della vicenda.

 

Le squadre SAS davano la caccia a Gheddafi da settimane

Forze speciali della NATO, tra cui le SAS britanniche, erano sul terreno in Libia fin da febbraio, molto prima dell’inizio dell’orwelliana ‘no-fly zone’. Queste forze si sono installate in Libia, dove hanno addestrato e diretto il mal addestrati mercenari ‘ribelli’, utilizzati come pedine per rovesciare Gheddafi. La guerra in Libia non sarebbe stata possibile senza la presenza di queste forze speciali. Gli attacchi aerei della NATO sono stati coordinati da questi operativi sul terreno. Oltre a questo, gli incredibilmente inetti ‘ribelli’ si sono dimostrati del tutto incapaci di ottenere una sola vittoria militare o strategica contro la travolgente e amplissima Resistenza Verde libica. Operazione Alba della Sirena, coordinata e apertamente effettuato dalle forze speciali occidentali, indicava la totale inettitudine dei terroristi ed estremisti tribali, in lotta per contro della NATO quali ‘ribelli libici’.

Dopo l’Operazione Alba della Sirena, ad agosto, i soldati delle SAS britanniche, vestiti con abiti civili arabi e portando le stesse armi dei ‘ribelli’, riorientarono i loro sforzi verso la caccia a Muammar Gheddafi. Inoltre, i media britannici erano piena di notizie su questa attività delle forze speciali in territorio libico .

Questione di qualche giorni fa, 20 Ottobre 2011, la guerra della NATO sulla Libia culminava con l’assassinio di Muammar Gheddafi. Come era prevedibile, in questa guerra doppiata da una sfacciata guerra psicologica, la storia ‘ufficiale’ diceva che le forze ‘ribelli’ avevano catturato Gheddafi rannicchiato in un tubo fognario, ed è poi morto sotto la loro custodia. Questa storia è stata tradita dal fatto che la NATO ha ammesso il bombardamento del convoglio del leader rivoluzionario mentre era in viaggio nella zona di Sirte, quel mattino. Funzionari statunitensi hanno confermato che un drone statunitense Predator aveva sparato sul convoglio, così come degli aerei francesi. In realtà, non è giustificabile rivendicare la vittoria dei ‘ribelli’ qui, quando le bombe della NATO sono state fondamentali per la cattura di Gheddafi, come lo sono state per tutta la guerra.

Sapendo che la NATO aveva al mirato convoglio di Gheddafi, e sapendo che i SAS britannici gli davano la caccia da settimane, una persona logico dedurrebbe che la NATO stava monitoraggio il convoglio durante e dopo l’attacco, e una squadra delle SAS sia stata rapidamente inviata sulla posizione.

Questa teoria è sostenuta da un recente rapporto dal sito DEBKAfile, ben collegato con l’intelligence israeliana. In un rapporto dal titolo ‘Dopo aver aiutato a uccidere Gheddafi, la NATO si prepara a por termine alla missione in Libia’, Debka rivela che le sue fonti militari indicavano che Gheddafi era stato catturato e ucciso dalle forze speciali della NATO:

Le fonti militari di DEBKAfile riferiscono di sempre più evidenti indicazioni che una unità delle forze speciali della NATO – anche se la nazione è sconosciuta – aveva trovato e catturato Muammar Gheddafi nella zona di Sirte. Apparentemente hanno sparato alle gambe per impedirgli la fuga e informarono una milizia di Misurata dove si trovava, sapendo che l’avrebbero ucciso. in vista della resa dei conti della città con l’ex dittatore libico. La NATO è stata guidata da due considerazioni: in primo luogo di non rendere nota la presenza di truppe di terra dell’alleanza nella zona di guerra, in violazione del mandato delle Nazioni Unite, e la seconda, per dare ai ribelli libici una vittoria psicologica, soprattutto dopo aver fallito nella battaglia per catturare la casa di Gheddafi, la città di Sirte“.

Le forze speciali del Qatar sono note per avere una lunga relazione con le SAS britanniche, almeno da 20 anni. Le forze speciali del Qatar erano coinvolte nell’Operazione Alba della Sirena. L’inclusione nella NATO delle forze del Qatar, permette alle forze di occupazione di: a) minimizzare il rischio di vittime occidentali e le conseguenti ricadute politiche, e b) impersonare più facilmente il ruolo di locali combattenti libici.

Alla luce del coinvolgimento delle SAS nel coordinare gli attacchi aerei e la caccia a Gheddafi, oltre alle notizie di Debka, è altamente probabile che forze speciali britanniche (o del Qatar guidate dai britannici) abbiano catturati Gheddafi e l’abbiano consegnato alle forze d’occupazione ‘ribelli’, dopo avergli sparato senza pietà, per evitare la fuga e garantirne la morte.

Il consenso dei media, dipinge invece un quadro del tutto falso di una vittoria ‘ribelle’. Questi tirapiedi dell’occupazione non sono stati in grado di tenere una singola città, senza che le bombe, i proiettili e i missili Hellfire della NATO distruggessero tutto quello che era sul loro cammino. Ogni singolo evento decisivo, nella guerra alla Libia, è stato ottenuto dalla NATO, pur essendo fraudolentemente attribuito a questo gruppo di sciocchi ratti assetati di potere. Anche l’ultima ‘vittoria’, la cattura e l’assassinio di Muammar Gheddafi, gli è stata consegnata su un piatto dalle forze straniere, il vero volto dietro la cosiddetta ‘rivolta’ libica.

 

Aggiornamento del 24 ottobre 2011

Un rapporto del Telegraph aggiunge ulteriore peso alla teoria che l’operazione di assassinio di Gheddafi sia stata effettuata dalla NATO e dalle sue forze speciali a terra. Il 20 ottobre, un report intitolato ‘Il Colonnello Gheddafi ucciso: convoglio bombardato da drone pilotato da un pilota a Las Vegas’ rivela una serie di fatti chiave. In sintesi:

Le forze SAS britanniche e forze speciali statunitensi stavano perlustrando la zona di Sirte a caccia di Gheddafi, ma non riuscivano a trovarlo;

Circa una settimana prima che fosse assassinato, la NATO aveva individuato la posizione di Gheddafi, dopo una svolta dell’intelligence;

Anticipando i movimenti di Gheddafi, la NATO teneva Sirte sotto stretta sorveglianza audio e il video dall’aria e con le forze di terra;

Il Telegraph confermava anche il fatto che un drone statunitense Predator aveva sparato per primo sul convoglio, seguito dagli aerei francesi. Questo pone attenzione alle affermazioni palesemente false della NATO, di non sapere che Gheddafi era nel convoglio quando fu colpito.

 

Il Col Gheddafi ucciso: il convoglio bombardato da un drone pilotato da Las Vegas

Gheddafi era sotto sorveglianza delle forze della Nato dalla settimana scorsa, dopo una svolta dell’intelligence che le ha permesso di individuare la sua posizione. Un drone statunitense e una flotta di bombardatutto della NATO si erano addestrati sulla sua roccaforte di Sirte, per assicurarsi che non potesse sfuggire.

Fonti dell’intelligence hanno suggerito che nei suoi ultimi giorni, Gheddafi aveva interrotto la sua rigida regola del silenzio, ed era stato sentito telefonicamente, mentre utilizzava un telefono cellulare o satellitare. La tecnologia di riconoscimento vocale avrebbe immediatamente ripreso ogni chiamata che aveva fatto. Agenti dell’MI6 e ufficiali della CIA sul terreno, stavano anche fornendo informazioni e si ritiene che a Gheddafi sia stato dato un nome in codice, nello stesso modo in cui le forze statunitensi usarono il nome Geronimo durante l’operazione per uccidere Usama bin Ladin.

Dopo la caduta di Tripoli in agosto, i servizi segreti hanno cercato Gheddafi in Libia e oltre, utilizzando agenti, forze speciali e apparecchiature di intercettazione. Forze speciali britanniche e statunitensi avevano cercato nell’ex roccaforte del deserto di Gheddafi, intorno Sirte, e nel sud della Libia, senza trovarlo. “I Predators degli Stati Uniti e i droni francesi hanno martellato il centro di Sirte per diverse settimane, cercando di monitorare quello che succedeva sul campo di battaglia“, ha detto una fonte dell’intelligence.

Hanno costruito un modello di immagine di vita normale, in modo che quando qualcosa di insolito è accaduto quella mattina, come un folto gruppo di veicoli che si raccoglieva, si sono imbattuti in un’attività altamente insolita, e si è deciso di seguirli ed attaccarli.”

Aerei da guerra elettronica, un Rivet Joint statunitense, o un C-160 Gabriel francese, hanno anche ripreso i movimenti di di Gheddafi mentre tentava di fuggire.

Il drone Predator, che volava dalla Sicilia ed era controllato via satellite da una base nei pressi di Las Vegas, ha colpito il convoglio con una serie di missili anticarro Hellfire. Pochi istanti dopo, un jet francese, probabilmente un Rafale, ha puntato e spazzato via le vetture con delle bombe Paveway da 227 kg o con munizioni AASM ad alta precisione da 600.000 sterline.

(Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora)

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

La ‘Primavera araba’ serve alla NATO per controllare l’Eurasia

0
0

Fonte: RussiaToday

 


L’obiettivo finale degli Stati Uniti è prendere le risorse dell’Africa e del Medio Oriente sotto il loro controllo militare per bloccare la crescita economica di Cina e Russia, tenendo così l’intera Eurasia sotto controllo, spiega lo storico William F. Engdahl. La crisi economica degli Stati Uniti e del sistema del dollaro, la condptta della politica estera degli Stati Uniti, sono tutte parte del crollo della struttura della superpotenza costruita dopo la fine della seconda guerra mondiale, sostiene Engdahl.

Nessuno a Washington vuole ammetterlo, come nessuno in Gran Bretagna un centinaio di anni fa, aveva voluto ammettere che l’impero britannico era in declino terminale“, afferma l’autore, sottolineando che “Tutto questo è legato al tentativo di mantenere questa unica superpotenza non solo intatta, ma che continui a diffondere la sua influenza sul resto del pianeta“.

William F. Engdahl crede che le rivolte in Medio Oriente e Nord Africa siano un piano già annunciato da George W. Bush, in una riunione del G8 nel 2003, e che era stato chiamato “Progetto di Grande Medio Oriente“. E’ stato ideato per tenere sotto controllo, con la “democratizzazione“, tutto il mondo islamico dall’Afghanistan all’Iran, al Pakistan e alla zona di produzione petrolifera del Golfo Persico, passando dal Nord Africa fino al Marocco. “La cosiddetta Primavera araba è stata pianificata, pre-organizzata e utilizzata dai mandanti delle proteste ‘spontanee’ e delle rivolte via Twitter al Cairo e in Tunisia, e così via“, insiste lo storico.

Engdahl spiega che alcuni dei leader della protesta sono stati addestrati a Belgrado, in Serbia, da attivisti di Canvas (Centro per l’applicazione delle azioni nonviolente e strategie) e Otpor (un movimento giovanile che svolse un ruolo significativo, spodestando l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic), organizzazioni finanziate dal Dipartimento di Stato USA.

Engdahl nomina due motivi del progetto del Dipartimento di Stato USA sul mondo islamico. La prima ragione è la grande ricchezza nelle mani dei leader del mondo arabo, i fondi sovrani e risorse. L’ordine del giorno, proprio come è stato fatto con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, è “la privatizzazione della FMI, l’economia del ‘libero mercato’, e così via, in modo che le banche occidentali e le agenzie e le società finanziarie potessero entrare e farne un bottino.” “Il secondo è la militarizzare delle fonti petrolifere in luoghi come la Libia e la cosiddetta Repubblica del Sud Sudan, che sono direttamente strategiche per la futura crescita economica della Cina“, sottolinea Engdahl. “Tutto questo è volto a controllare l’Eurasia, qualcosa di cui Zbignew Brzezinski aveva parlato già nel 1997 nel suo famoso libro La Grande Scacchiera, in particolare sul controllo della Russia e della Cina, e di una qualsiasi potenziale coesione economica e politica dei paesi eurasiatici“, dice.

E i risultati sono già lì, in Egitto e Tunisia la democrazia ha già indebolito l’economia, mentre la Libia, il paese con i più alti standard di vita in tutta l’Africa, prima dei bombardamenti della NATO, è oggi in rovina. La preoccupazione delle potenze occidentali, in particolare del Pentagono, è il controllo militare della travagliata regione, senza ripristinarne la normalità, valuta lo storico. La principale preoccupazione che il governo fantoccio del CNT sta dando alla NATO, riguarda soprattutto i diritti umani, qualcosa di inaudito durante i 42 anni di governo di Gheddafi.

L’AFRICOM [Comando Africa del Pentagono] sta coordinando la scena“, spiega William F. Engdahl, ricordando che “abbastanza interessante [AFRICOM] è stata creato solo dopo la diplomazia della Cina in Africa del 2006, quando 40 capi di stato africani furono invitati a Pechino, e enormi accordi furono firmati per l’esplorazione petrolifera, la costruzione di ospedali e infrastrutture. Nulla che il FMI ha fatto in Africa, negli ultimi 30 anni.”

E’ vero che gli Stati Uniti stanno agendo contro gli interessi e la sicurezza nazionale cinesi, ma Pechino, che vi ottiene circa 300 miliardi di dollari l’anno di reddito commerciale, ha semplicemente investito questo denaro da qualche parte, non essendoci qui mercati abbastanza grandi per assorbire così tanti soldi, Pechino ha acquistato i buoni del tesori statunitensi, sponsorizzando così le guerre degli USA, che per ironia della sorte sono diretti contro interessi cinesi. “Per il ‘Dio del denaro’ di Wall Street, l’unica possibilità di sopravvivenza e di mantenimento del dollaro, è trovare ora nuove aree da saccheggiare. La primavera araba è diretta a sequestrare e privatizzare la grande ricchezza del mondo arabo“, conclude Engdahl.

Ma il futuro della zona euro sembra anche così buio, perché la crisi finanziaria greca è stata causata dall’Unione europea nel 2002, da nient altri che Goldman Sachs. La pista del denaro mostra, afferma Engdahl, che “la crisi greca è stato programmata a esplodere su comando di Wall Street e del Tesoro degli Stati Uniti, così che la Federal Reserve possa difendere la moneta di riserva, il dollaro USA“.

Engdahl avverte che gli Stati Uniti stanno costruendo sempre più basi in tutto il mondo, come le 17 nuove, basi in Afghanistan, per lo più dell’US Air Force, per essere pronti a una nuova guerra contro la Cina o probabilmente la Russia. “Data la storia del periodo della Guerra Fredda, la Russia può giocare un ruolo stabilizzatore e costruttivo, contro questa strategia altamente pericolosa del progetto Grande Medio Oriente della NATO e degli Stati Uniti“, sostiene Engdahl. “Spero che lo faccia.”

 

(Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora)

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Riapre la base italiana in Antartide

0
0
Prende avvio la XXVII campagna antartica estiva 2011-2012, promossa nell’ambito del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide e finanziata dal Ministero per l’Istruzione, la Ricerca e l’Università. Presso la Base italiana sono già arrivati i primi 20 tecnici. In Antartide, oltre alla Stazione Mario Zucchelli, è operativa per l’intero anno anche la base italo-francese Concordia (Dome C)

Ha riaperto i battenti ieri, 2 novembre, la base italiana in Antartide – Stazione Mario Zucchelli (Mzs), situata a Baia Terra Nova, Mare di Ross. Con la messa in funzione della stazione prende avvio la XXVII campagna antartica estiva 2011-2012, promossa nell’ambito del Programma nazionale di ricerche in Antartide (Pnra) e finanziata dal ministero per l’Istruzione, la ricerca e l’università (Miur). Presso la Base italiana sono già arrivati i primi 20 tecnici, con il compito di riavviare i servizi primari (acqua, riscaldamento, alloggi, etc.), di ripristinare l’accesso alla base e di organizzare quanto serve per l’utilizzo dei mezzi dopo il rimessaggio invernale. In Antartide, oltre ad Mzs, che viene utilizzata solo per l’estate antartica, è operativa per l’intero anno anche la base italo-francese Concordia (Dome C).

Nel periodo di campagna verranno realizzati diversi progetti di ricerca riguardanti:

–          Le scienze della vita: biodiversità, evoluzione ed adattamento degli organismi antartici;

–          Le scienze della Terra: glaciologia, contaminazioni ambientali, esplorazioni;

–          Le scienze dell’atmosfera e dello spazio: cambiamenti climatici, monitoraggio della atmosfera e della ionosfera, misure astronomiche;

–          Sviluppo e applicazione di strumentazioni tecnologicamente avanzate per misure atmosferiche e geologiche;

–          Attività di monitoraggio presso gli Osservatori permanenti meteo-climatici, astronomici e geofisici.

In totale nella campagna scientifica saranno coinvolte circa 190 persone, suddivise tra ricercatori, tecnici ed addetti alla logistica, di cui 20 del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), 48 dell’Enea e 9 dell’Ingv, a cui si aggiungono partecipanti provenienti da Aeronautica Militare, Esercito Italiano, Marina Militare, VVFF, Università, Ogs e Inaf.

A causa delle condizioni meteorologiche avverse in Antartide, la campagna di quest’anno ha subìto un ritardo di alcuni giorni rispetto a quanto programmato.

La Spedizione si concluderà con il rientro del personale Pnra in Nuova Zelanda con la nave cargo/oceanografica Italica il 17 febbraio 2012.

Roma, 3 novembre 2011

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Stefano Vernole: reportage da Damasco

0
0

Stefano Vernole ha avuto recentemente occasione di visitare la Siria assieme ad una rappresentanza della comunità siriana in Italia. Si è trattenuto alcuni giorni a Damasco, dove ha potuto incontrare personalità del Governo ma anche parlare liberamente coi comuni cittadini. Quello che segue è il suo resoconto di quest’esperienza.

 

Chi avesse occasione di recarsi in Siria dovrebbe, come prima atto, liberare il proprio cervello dalla propaganda massmediatica trasmessa da Al Jazeera e affini.

Seguendo il classico stile hollywoodiano, la tv simbolo della “democrazia” mediorientale ma pagata da un autocrate, l’Emiro del Qatar, ci ha raccontato per mesi di imponenti manifestazioni anti-regime represse nel sangue dal Presidente Bashar al-Assad, descritto da tv e giornali allineati come uno spietato dittatore.

Mi dispiace perciò deludere i vari appassionati della stampa “alternativa” stile “Internazionale” o quanti hanno ceduto al fascino delle parole d’ordine lanciate dalla Casa Bianca su “primavere arabe” e “nuova caduta del Muro di Berlino”, ma per quanto ho potuto vedere durante il mio soggiorno a Damasco la Siria e la sua Guida godono di ottima salute.

Innanzitutto non c’è più traccia delle vere o presunte manifestazioni di massa anti-governative nella capitale siriana, dove regna la pace sociale e la vita scorre con la massima tranquillità, dal centro alla periferia.

Blandi i controlli in aeroporto, possibilità di girare senza limiti e di scattare foto a volontà.

Raramente nel visitare città in giro per il mondo ho conosciuto persone così serene, luoghi dove non compare la minima traccia di criminalità e, peraltro, senza alcuno spiegamento di forze dell’ordine.

I primi che si sarebbero dovuti accorgere della situazione reale sono proprio i delegati della Lega Araba, che chiedono il “ritiro dei blindati dalle strade” quando loro, per primi, sono usciti dal Palazzo Presidenziale dopo i colloqui ridendo e senza alcun tipo di scorta…

Lo Stato, infatti, mantiene i propri militari nelle caserme, e nelle strade di Damasco si notano giusto i Vigili Urbani intenti a dirigere il traffico.

Dopo l’inizio alcuni mesi fa di modeste dimostrazioni antigovernative, infatti, è stato proprio il popolo siriano quello che è sceso in piazza a fianco del suo Presidente, come testimoniano le manifestazioni imponenti, le foto e i manifesti appesi in tutti i negozi e in tutte le vie principali della capitale, oppure lo striscione che campeggia su uno dei principali cavalcavia cittadini e che recita “Thank You Russia” (con riferimento al veto di Mosca sulle sanzioni ONU).

Se forse qualche esponente dell’establishment, immaginandosi uno scenario libico, ha inizialmente esitato a schierarsi, sono stati proprio i partiti minori, quello comunista e quello socialista-nazionale ad organizzare la mobilitazione pro-governativa, consapevoli che l’alternativa ad Assad può essere solo l’occupazione del paese da parte della NATO.

Perché la maggior parte del popolo siriano rimanga compatta intorno al suo Presidente è presto detto: la Siria è un coacervo di etnie e culture tutte rispettate e ben rappresentate dalle moschee, dalle chiese cattoliche e da quelle cristiano-ortodosse, che convivono pacificamente l’una di fianco all’altra.

Un messaggio opposto a quello dello “scontro di civiltà” voluto dal Pentagono, che con la logica del “divide et impera” cerca di mantenere il controllo sul vicino Iraq.

Le parole che abbiamo ascoltato nella Grande Moschea degli Omayyadi dal Gran Muftì della Siria, Ahmed Badr Al-Din Hassun, non lasciano dubbi a proposito: “Una qualsiasi vita umana è più importante dei simboli religiosi. Una moschea si può ricostruire, una vita non si può restituire”.

Questo messaggio non è però assolutamente stato recepito da quanti lavorano alla destabilizzazione della nazione siriana e cioè quei gruppi salafiti che da tempo scatenano una durissima guerriglia nelle zone di frontiera con il Libano, la Giordania, l’Iraq e la Turchia.

Dopo la presunta uccisione di Bin Laden, infatti, gli Stati Uniti non si preoccupano nemmeno più di mascherare la loro alleanza con Al Qaeda, l’erede di quel mercenariato islamista al servizio di Washington fin dal 1979 in Afghanistan.

Abbiamo perciò potuto visitare nell’ospedale militare di Damasco i frutti delle “manifestazioni pacifiche” di cui ci parlano i mass media nostrani ad Hama e altrove: tantissimi i soldati siriani feriti nelle zone di confine, che hanno perso occhi e braccia ma non la volontà di continuare a servire la propria patria.

Esattamente come in Libia, finanziati e protetti dalle centrali occulte saudite, israeliane e statunitensi, questi gruppi islamisti agiscono senza la minima pietà contro tutti coloro che non accettano di passare dalla loro parte, e hanno come unico scopo quello di riportare il paese all’età della pietra.

Le testimonianze di un conflitto che con l’appello ad una “maggiore democrazia” non c’entra davvero nulla sono state unanimi: in Siria si parla di un complotto ordito dall’esterno per consolidare la strategia geopolitica atlantista, quella del caos in Medioriente, unico antidoto all’inevitabile crescita dell’influenza di Russia e Cina nella regione.

La crisi irreversibile del capitalismo finanziario occidentale, come ci ha riferito il Vice Ministro agli Esteri del Governo di Damasco Abdel-Fattah Ammoura, non può che accelerare questo tentativo disperato di rinviare la fine dell’egemonia della City e di Wall Street.

D’altronde la sfilza di riforme concessa da Assad è impressionante ma, come ribadito dalla sig.ra Clinton, se la Siria vuole vedere la fine delle rivolte deve “riconoscere Israele, togliere il sostegno ad Hamas ed Hezbollah e magari mettere 3 o 4 ministri dei Fratelli Musulmani nel proprio esecutivo” (richiesta quest’ultima particolarmente gradita ad Ankara).

Sono stati così mesi e mesi di guerra occulta, costata molto cara all’esercito siriano (si parla di 1.600 morti), che è riuscito però alla fine ad averne la meglio, con l’unica eccezione ancora della città di Homs e di qualche piccola cittadina, dove gli estremisti salafiti si mescolano ai civili.

La tenuta economica e sociale del paese, nonostante alcuni effetti visibili delle sanzioni internazionali, permette ad Assad di trattare ora da una posizione di forza e di accettare le richieste della Lega Araba.

La palla passa ora nelle mani della Casa Bianca, che non fa mistero dei suoi piani di attacco non solo contro Damasco ma pure contro Teheran, come rivelano in questi giorni i giornali britannici.

La Siria, comunque, attende fiduciosa quanto decideranno al Pentagono e al Quartier Generale dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles, sicura della capacità di resistenza del proprio esercito e della mobilitazione popolare che ne deriverebbe: in caso di guerra, dicono, tutto il Vicino Oriente verrebbe sconvolto e il primo a pagarne il prezzo sarebbe proprio Israele, il taciturno alleato regionale degli Stati Uniti, che dopo la dura lezione ricevuta in Libano nel 2006 rischierebbe una vera e propria débacle.

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali

0
0
Si è tenuta a Modena sabato 5 novembre 2011 alle ore 15.30, presso la Sala conferenze della Circoscrizione Centro Storico di Piazzale Redecocca 1, Il Seminario Di Eurasia “Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali”. 

Sono intervenuti come relatori: S.E. Jakhongir Ganiev (ambasciatore della Repubblica di Uzbekistan in Italia), Gairat Juldashev (secondo segretario dell’Ambasciata della Repubblica di Uzbekistan in Italia), Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”), Gian Paolo Caselli (docente all’Università degli Studi di Modena) ed un rappresentante di ITER Viaggi Modena (Francorosso Tour Operator).

L’organizzazione è stata a cura dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) con la collaborazione di “Viaggiatori fuori tema” ed il patrocinio del Comune di Modena e dell’Università degli Studi di Modena.

L’evento rientra nel Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia.

L’ingresso è libero.

 

VIDEO E RESOCONTO DELL’EVENTO (cliccare)

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Abbonati a “Eurasia”: in regalo il libro che ha previsto la rivolta libica 10 anni prima

0
0

“[…] in Libia, in Cirenaica, dove, sul tracciato delle vecchie reti senussite, l’agitazione islamista potrebbe provocare l’esplosione di questo paese artificiale e recente. Nella Cirenaica si concentrano le ricchezze petrolifere; e il regime di Gheddafi irrita certe capitali occidentali che non vedrebbero male una divisione della Libia”.

Così scriveva, nel 2002, François Thual, uno dei guru della geopolitica francese odierna. Ex funzionario del Ministero della Difesa, docente di lungo corso al Collège Interarmes de Défense (la storica École de Guerre), oggi insegna anche all’École Pratique des Hautes Etudes ed è consulente del Senato di Parigi. Nel corso della sua lunga carriera ha consegnato alle stampe una trentina di opere sulla geopolitica, che spaziano dalla demografia alla massoneria, dal Caucaso all’America Latina, anche se il suo nome è legato principalmente agli studi sulla geopolitica delle religioni. “Eurasia” ha l’onore d’avere il professore Thual tra i membri del suo Comitato Scientifico.

Il vaticinio di cui sopra, realizzatosi quest’anno con la rivolta scoppiata a Bengasi e subito sostenuta dai paesi atlantici, è contenuta in un libro del 2002 di Thual, La planète émiettée. In quest’opera lo studioso francese disvela le dinamiche e gli attori che si celano dietro la progressiva frantumazione politica del paese, una tendenza che prosegue ormai da un secolo circa. Nel 2008 le Edizioni all’Insegna del Veltro hanno portato in Italia quest’opera, destinata a diventare un classico della geopolitica, col titolo Il mondo fatto a pezzi. Essa contiene anche un’appendice d’eccezione: un lungo dialogo tra il professor Thual e il nostro direttore Tiberio Graziani; un confronto tra due dei più noti geopolitologi europei contemporanei.

“Eurasia” e le Edizioni all’Insegna del Veltro hanno deciso di mettere gratuitamente a disposizione dei suoi lettori quest’opera. Chi si abbonerà per 5 numeri della rivista “Eurasia” entro e non oltre il 30 novembre 2011, riceverà in regalo il libro Il mondo fatto a pezzi di F. Thual (prezzo di copertina 15 euro).
Scoprite subito come abbonarvi e ricevere il vostro regalo cliccando qui!

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Washington alla conquista dell’Africa

0
0

Creare dei gruppi terroristici per giustificare una lotta contro il terrorismo è diventato il modus operandi del governo USA in Afghanistan, Pakistan, Europa, e più recentemente, in Africa.
Grazie all’operatore video francese Julien Teil, Nazemroaya ricostruisce l’incredibile, ma vero, scenario dei terroristi promossi dagli Stati Uniti, ma ricercati dall’Interpol, protagonisti del genocidio che la NATO sta realizzando attualmente in Libia. Una replica dei disordini e del pandemonio scatenati in Afghanistan è in corso di preparazione anche per il continente africano. Gli Stati Uniti, con l’aiuto della Gran Bretagna, del Pakistan, e dell’Arabia Saudita, hanno creato il talebano crudele e, in un secondo momento, hanno finanziato una guerra contro gli stessi alleati talebani. Allo stesso modo, in Africa, gli USA e i loro alleati stanno creando una nuova serie di futuri nemici da combattere, dopo aver lavorato con loro o dopo averli sfruttati per seminare i semi del caos in Africa.


Washington sta aiutando letteralmente, attraverso dei finanziamenti, le sollevazioni e i progetti di cambio del regime in Africa. “Diritti umani” e “democratizzazione” sono utilizzati come cortina fumogena del colonialismo e della guerra. I cosiddetti diritti umani e le organizzazioni umanitarie sono oggi partners del progetto imperialista contro l’Africa.

 

Francia e Israele: strumenti con cui Washington delocalizza il lavoro sporco in Africa?

L’Africa è solamente uno dei fronti internazionali del sistema di espansione imperiale. Su questo fronte, stanno lavorando i meccanismi di un vero sistema globale imperiale. Washington sta agendo attraverso la NATO e i suoi alleati in Africa. Ciascuno degli alleati di Washington e dei suoi satelliti ha un ruolo specifico da giocare in questo sistema imperiale.

Tel Aviv svolge un ruolo attivo nel continente africano. Israele era il più incallito sostenitore del Sud Africa, all’epoca del sistema razzista dell’apartheid. Inoltre, Tel Aviv ha aiutato il contrabbando delle armi in Sudan e nell’Africa Orientale al fine di balcanizzare quelle importanti nazioni africane e per destabilizzare le loro regioni. Ad esempio, gli israeliani sono stati molto attivi in Kenya e in Uganda. La presenza israeliana si è fatta sentire ovunque vi fossero conflitti e “diamanti insanguinati”. Attualmente, Israele sta lavorando con Washington per stabilire la totale egemonia sul continente africano. Inoltre, è attivamente coinvolto attraverso legami affaristici e operazioni di intelligence nel determinare i contatti e gli accordi di cui Washington ha bisogno per l’espansione in Africa e per distruggere la crescita dell’influenza cinese.

La Francia, in quanto ex-potenza coloniale, che vive oggi il declino del suo potere, è stata tradizionalmente l’avversario e il contendente di Washington nel continente africano. Con la crescita dell’influenza dei poteri non tradizionali in Africa, come quello della Repubblica Popolare di Cina, sia Washington che Parigi hanno iniziato a guardare verso possibili vie di cooperazione. Ciò risulta più evidente da una prospettiva globale. Sia gli USA che le maggiori potenze dell’Unione Europea consideravano la Cina e altri poteri emergenti delle minacce tanto consistenti da riuscire a porre fine alla loro concorrenza e dare inizio ad una collaborazione. Pertanto, si è giunti ad un consensus finalizzato all’integrazione, ampiamente promosso dalla presidenza di Nicolas Sarkozy nel 2007.

Il Presidente Sarkozy non ha perso tempo nel favorire la reintegrazione della struttura del reparto militare francese con la NATO, che ha subordinato l’esercito francese al Pentagono. Nel 1966, il Presidente Charles de Gaulle spinse le sue forze fuori dalla NATO e rimosse la Francia dalla struttura della NATO allo scopo di conservare l’indipendenza francese. Nicolas Sarkozy ha invertito questa tendenza. Nel 2009, il presidente francese ordinò che la Francia si riunisse al reparto militare della NATO. Inoltre, nel 2010 firmò un accordo per iniziare la fusione delle forze militari francesi e britanniche.
Sul continente africano, Parigi ha un posto speciale e di nicchia nel sistema globale imperiale USA – ossia quello di gendarme regionale nel Nord Africa, in Africa Occidentale, in Africa Centrale e in tutte le sue ex-colonie. Il ruolo speciale della Francia, in altre parole, è dovuto alla storia e alle condizioni esistenti, che vedono una Francia in declino, in particolare nella Françafrique. L’Unione del Mediterraneo, che Sarkozy lanciò ufficialmente, è uno degli esempi degli interessi francesi nel Nord Africa.

In aggiunta, la Fondazione Nazionale per la Democrazia (National Endowment for Democracy-NED) sta lavorando attraverso il braccio francese della Federazione Internazionale per i Diritti Umani di Francia (Fédération internationale des ligues des droits de l’Homme-FIDH). Il FIDH è molto più definito in Africa. Il NED ha essenzialmente delocalizzato verso il FIDH il suo lavoro per manipolare e controllare il governo africano, i movimenti, la società e gli stati. Erano il FIDH e l’affiliata Lega Libica per i Diritti Umani (Libyan League for Human Rights-LLHR) ad aiutare e ad organizzare il terreno per la guerra della NATO contro la Libia attraverso le Nazioni Unite e attraverso le false e non comprovate rivendicazioni.

Il NED e il FIDH

In seguito all’elezione di Nicolas Sarkozy nel 2007 come Presidente della Repubblica Francese, la Federazione Internazionale per i Diritti Umani (FIDH) iniziò a sviluppare una reale cooperazione con la Fondazione Nazionale per la Democrazia (NED). Entrambe le organizzazioni collaboravano all’interno del Movimento Mondiale per la Democrazia. Carl Gershman, il presidente del NED, si recò persino in Francia nel Dicembre del 2009 per incontrare gli esponenti del FIDH, per approfondire la collaborazione tra le due organizzazioni e per discutere dell’Africa. Molte delle collaborazioni tra il FIDH e il NED hanno la loro base in Africa ed investono il mondo arabo. Queste collaborazioni operano in una zona che copre paesi come la Costa d’Avorio, il Niger, e la Repubblica Democratica del Congo. Il Nord Africa, che include la Libia e l’Algeria è stata una zona specifica per le azioni del FIDH e rappresenta una zona in cui Washington, Parigi e la NATO hanno chiaramente maggiori ambizioni.

Il FIDH, che è direttamente coinvolto nell’avvio della guerra in Libia, ha ricevuto anche dei diretti finanziamenti, delle forme di sovvenzioni, dalla Fondazione Nazionale per la Democrazia per la realizzazione dei suoi programmi in Africa. Una sovvenzione del NED di $140,186 (U.S.) è stata l’ultimo ammontare consegnato al FIDH per i suoi lavori in Africa. Il NED è anche uno dei primi firmatari, insieme alla Lega Araba per i Diritti Umani (LLHR) e alla UN Watch, della campagna di intervento internazionale contro la Jamāhīriyya araba libica.

AFRICOM e la strada del Post 9/11 verso la conquista dell’Africa
Nel 2002, il Pentagono ha iniziato le prime grandi operazioni mirate al controllo militare dell’Africa. Ciò si realizzò sotto forma dell’iniziativa Pan-Sahel, che venne lanciata dall’EUCOM (United States European Command) e dal CENTCOM (United States Central Command). Sulla base di questo progetto, i militari USA avrebbero addestrato le truppe del Mali, Chad, Mauritania e Niger. Tuttavia, i piani per stabilire l’iniziativa Pan-Sahel risalivano al 2001, quando l’iniziativa per l’Africa venne lanciata in seguito ai tragici eventi dell’undici settembre 2001 (9/11). Washington stava chiaramente pianificando un’azione militare in Africa, che già includeva almeno tre paesi (Libia, Somalia e Sudan), identificati come obiettivo dal Pentagono e dalla Casa Bianca secondo il generale Wesley Clark.

Jacques Chirac, all’epoca Presidente francese, cercò di contenere la pressione degli USA in Africa rafforzando il ruolo della Germania come strumento di supporto della Francia. Nel 2007, il summit franco-africano, per la prima volta, aprì le porte alla partecipazione della Germania. Allora, Angela Merkel aveva idee diverse sulla direzione e sulla posizione che la partnership franco-tedesca avrebbe dovuto assumere nei confronti di Washington.

Dal 2001 ha inizio il percorso verso la creazione dell’AFRICOM. Questa fu ufficialmente autorizzata nel dicembre del 2006, la decisione di crearlo fu annunciata alcuni mesi dopo il febbraio del 2007. Quindi, l’AFRICOM sarebbe stato stabilito effettivamente nel 2007. L’evento fu incoraggiato anche da Israele. L’Institute for Advanced Strategic and Political Studies (IASPS), per esempio, fu una delle organizzazioni israeliane di supporto alla creazione dell’AFRICOM.

Sulla base dell’iniziativa del Pan-Sahel, nel 2005 venne lanciato il Trans-Saharan Counterterrorism Initiative (TSCTI) dal Pentagono sotto la direzione di CENTCOM. Al Mali, Chad, Mauritania e Niger si aggiunsero anche Algeria, Mauritania, Marocco, Senegal, Nigeria, Tunisia nella rete di cooperazione militare con il Pentagono. Il Trans-Saharan Counterterrorism Initiative sarebbe stata trasferita alla direzione dell’AFRICOM il 1 ottobre del 2008, quando l’AFRICOM sarebbe stato attivato.

Sahel e Sahara: gli USA adottano chiaramente i vecchi progetti coloniali francesi in Africa. “Sconfiggere il terrorismo” ed eseguire “missioni umanitarie” sono solamente operazioni di facciata o cortine fumogene per il colonialismo. Mentre gli obiettivi del Pentagono intendono sconfiggere il terrorismo in Africa, il vero fine di Washington è quello di ristrutturare l’Africa e di stabilire un ordine neo-coloniale. A questo proposito, Washington ha effettivamente adottato il vecchio progetto coloniale della Francia in Africa. Questo include la vecchia iniziativa degli USA, Regno Unito, Italia e Francia di dividere la Libia dopo il 1943 per ridisegnare il Nord Africa.

La mappa usata da Washington per combattere il terrorismo nell’ambito dell’iniziativa del Pan-Sahel ci dice molto. Il raggio di azione dell’attività dei terroristi, all’interno dei confini di Algeria, Libia, Niger, Chad, Mali e Mauritania, secondo quanto indicato da Washington, è molto simile ai confini dell’entità coloniale che la Francia cercò di costruire in Africa nel 1957. Parigi aveva pianificato di realizzare questa entità africana nel Sahara centro-occidentale come provincia francese, insieme al litorale dell’Algeria.

Questa desiderata entità era affidata alla Common Organization of the Saharan Regions-OCRS (Organizzazione Comune delle Regioni del Sahara) e comprendeva i confini interni del Sahel e dei paesi del Sahara del Mali, Niger, Chad e Algeria. L’obiettivo francese era di raccogliere e legare tutte le risorse delle aree ricche in un’entità centrale per il controllo francese e per la sua estrazione. Le risorse della zona includono petrolio, gas e uranio. Tuttavia, i movimenti di resistenza africani e, nello specifico, la lotta dell’Algeria per l’indipendenza, inflissero a Parigi un duro colpo. La Francia dovette abbandonare le sue ricerche e dissolvere finalmente l’OCRS nel 1962, in seguito all’indipendenza dell’Algeria e alla posizione anti-coloniale in Africa, che tagliò fuori la Francia dall’area interna del Sahara e creò un’opposizione nei confronti della Francia in Africa.
Questa ricchezza di risorse e di energia, era ciò che Washington aveva chiaramente in mente quando individuò queste aree dell’Africa perché bisognose di essere ripulite dalle presunte cellule terroristiche e dalle bande. L’istituto Francese delle Relazioni Internazionali (Institut français des relations internationals, IFRI) ha discusso apertamente di questo nel marzo del 2011. In questo contesto la fusione degli interessi franco-tedeschi e degli interessi anglo-americani sta permettendo alla Francia di diventare una parte integrante del sistema globale imperiale degli USA attraverso la condivisione degli interessi.

Il cambiamento di regime in Libia e il NED: un legame tra il terrorismo e i diritti umani

Dal 2001, gli USA hanno ingiustamente presentato sè stessi come i campioni contro il terrorismo. Il Trans-Saharan Counterterrorism Initiative (TSCTI), che aprì le porte dell’Africa all’AFRICOM, fu giudicata necessaria da Washington per combattere le organizzazioni come il Salafist Group for Preaching and Combat-GSPC (Gruppo dei Salafiti per la Preghiera e il Comattimento) in Algeria e il Libyan Islamic Fighting Group-LIFG (Gruppo di lotta islamico libico) in Libia. Tuttavia, attualmente Washington sta cooperando e sfruttando questi stessi gruppi in Libia, come il Fronte Nazionale Libico per la Salvezza e i Fratelli Musulmani e altri gruppi di soldati in Libia e in Africa. Inoltre, molti degli individui chiave in Libia sono membri della Fondazionale Nazionale per la Democrazia (NED) e hanno partecipato anche a delle conferenze e a dei vecchi piani per favorire il cambio di regime in Libia.
Uno degli incontri chiave per fondare quello che sarebbe diventato l’attuale Consiglio di Transizione Libico si ebbe nel 1994, quando il Centro per gli Studi Strategici e Internazionali (Center for Strategic and International Studies-CSIS) organizzò una conferenza con Ashur Shamis e Aly (Ali) Abuzakuuk. Il titolo della conferenza del 1994 era “Post-Qaddafi Libya: The Prospect and the Promise”. Nel 2005 a Londra ebbe luogo un’altra conferenza con Shamir Ashur che avrebbe pianificato l’idea di un cambiamento di regime in Libia.

Ashur Shamis è uno dei fondatori membri del Fronte Nazionale Libico di Salvezza, fondato nel 1981. Ricercato dall’Interpol e dalla polizia libica, Ahshur era anche direttore della Fondazione Nazionale per la Democrazia (NED) e del Forum per lo Sviluppo Umano e Politico (Human and Political Development Forum) (era anche redattore della webpage di Akhbar, che fu registrata come Akhbar Cultural Limited e collegata al NED). Inoltre, ha partecipato anche a conferenze chiave, inclusa quella a Londra realizzata dalla Chatham House nel 2011, iniziativa che discuteva dei piani NATO finalizzati all’invasione di Tripoli.

 

Come Ashur, Aly Abuzaakouk è membro del Fronte Nazionale Libico per la Salvezza ed è legato alla Fondazione Nazionale per la Democrazia (NED). Fu uno dei partecipanti chiave alla tavola rotonda organizzata per il Democracy Awards 2011 dal NED. Come Ashur, anche egli è ricercato dall’Interpol, ed è direttore del Forum Libico per lo Sviluppo Umano e Politico (Libyan Human and Political Development Forum).

Noman Benotman, fondatore ed ex- leader del Gruppo Combattente Islamico Libico (LIFG), è un terrorista ricercato. Per convenienza ha lasciato il LIFG in seguito all’11 settembre 2001. Benotman, oltre ad essere direttore della Fondazione Nazionale per la Democrazia (NED) e del Forum Libico per lo Sviluppo Umano e Politco, è anche legato alla rete di Al Jazeera.
Questi tre uomini, non solo vivevano indisturbatamente nel Regno Unito mentre erano ricercati dall’Interpol per i loro contatti con il terrorismo o, nel caso di Benotman, per crimini legati alla droga e alla contraffazione, ma hanno riscosso anche finanziamenti da parte degli Stati Uniti. Ricevettero sovvenzioni dagli USA che formalizzarono le organizzazioni legate al NED, le quali avevano supportato il cambio di regime contro la Jamāhīriyya araba libica. Questa agenda politica sul cambiamento di regime in Libia fu predisposta con l’aiuto del MI6 e della CIA. I documenti legali che sono stati schedati per le loro organizzazioni del NED sono stati deliberatamente e illegalmente manomessi. Una delle identità chiave è stata nascosta nella lista dei direttori del NED. Così i documenti legali sono stati compilati fraudolentemente per celare l’identità di un individuo sotto lo pseudonimo di “Beata Wozniak”. Persino il compleanno di Wozniak è falso poiché risulta essere il 1 gennaio 0001 (1/1/0001). Questa persona è considerata direttore e segretario di Akbar, della Transparency Libya Limited e di altre società britanniche.

La porta per l’Africa è stata aperta

L’ingresso del terrorismo in Africa è parte di una ferma strategia usata dagli USA e dai suoi alleati, inclusa la NATO, per aprire la porta del continente africano espandendo la cosiddetta “guerra globale contro il terrorismo”. Ciò fornirà agli Stati Uniti una legittimazione nel perseguire l’obiettivo di espandere la loro presenza militare nel continente africano e, inoltre, giustificherà la creazione dell’AFRICOM del Pentagono, pensato per gestire l’Africa attraverso una versione africana della NATO come strumento per stabilire il controllo di Washington. A tal proposito, gli USA e i suoi alleati hanno già messo da parte il budget per combattere quelle organizzazioni terroristiche con cui hanno cooperato, e che hanno incoraggiato, cresciuto, armato e diffuso attraverso l’Africa, dalla Somalia, Sudan, Libia e Mali fino alla Mauritania, Niger, Algeria e Nigeria.
I terroristi non solo lottano per Washington sul campo, ma interagiscono anche con Washington attraverso le cosiddette organizzazioni per i diritti umani che promuovono la democrazia. Questi individui non solo destabilizzano i loro paesi, ma lavorano anche attivamente per il cambio di regime e per l’intervento militare. La Libia è un esempio chiaro di tutto ciò.

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

İtalyan Gazeteci Aldo Braccio ile Şanlıurfa üzerine röportaj

0
0

Kaynak: http://www.balikligol.com/haber/italyan-gazeteci-aldo-braccio-ile-sanliurfa-uzerine-roportaj-11091.html

 

İtalyan Gazeteci Aldo Braccio; Şanlıurfa çok rahatlatıcı bir şehir
27 Ekim 2011 Perşembe 08:26

İtalya merkezli Avrupa ve Asya’ya yayın yapan Eurosia dergisinin editörü Aldo Braccio, eşi Paola Zanardi ve arkadaşı Enzo Astolfi ile birlikte Şanlıurfa’ya geldi. Aldo Braccio az bildiği Türkçesi ile Roma’da tanışmıştık. Şanlıurfa’ya geldiğinde ise telefonla görüştük. Tarihi bir mekanda sözleştik ve buluştuk. 

Şanlıurfa’yı tarih kenti Roma’ya benzeten Aldo Braccio ile güzel bir sohbet ettik. Türkiye ve Şanlıurfa hakkında konuştuk. Türkiye’ye 20 kez gelen Aldo Braccio, Türkiye hakkında “Turchia ponte d’Eurasia” isimli kitap yazdı. Aldo Braccio “Turchia ponte d’Eurasia” (Türkçesi; Türkiye, Avrasya köprü) isimli kitabını imzalayarak hediye etti.

Kitap özetle; “Tra Mediterraneo e Asya centrale: il Ritorno di İstanbul sulla Scena internazionale” (Türkçesi; Akdeniz ve Orta Asya arasında: İstanbul Uluslararası Sahne Dönüşü) diyor.  Kitap için teşekkür ettim. Hem bakış açıcısından dolayı hem de nazik hareketinden dolayı takdir ettim.

Şanlıurfa’ya Aldo Braccio’nun 3. Gelişi.

Spontane gelişen bir sohbet ortamı ile bir röportaj yapmak istedim. Dostum Aldo Braccio, Şanlıurfa’nın rahatlatıcı havası ve sıcakkanlı insanlarından dolayı huzur bulduğunu anlatarak, sohbete başladık.

İşte İtalyan Gazeteci Aldo Braccio gözüyle Türkiye ve Şanlıurfa;

ÖMER ASLAN; Türkiye’ye kaç kez geldiniz ve Türkiye nasıl bir ülke?

ALDO BRACCİO ; Türkiye’ye 20 kez geldim. Türkiye’yi çok seviyorum. Asya ile Avrupa arasında bir köprüdür. Avrupa kıtası içinse Türkiye’nin ayrı bir değeri vardır. İki kıtayı birbirine bağlayan, zengin kaynakları ve nüfusu ile dinç bir ülkedir.

ÖMER ASLAN: İtalya’da (Avrupa’da) gazetecilik yapıyorsunuz, Avrupa’da gazetecilik mesleğinin zorluklar çok mu?

ALDO BRACCİO: Sanırım Türkiye gibi zor değil. Çünkü meslek kuruluşlarımız var. Gazetecilik yapan sadece gazetecilik yapıyor. Dolayısıyla gazetecilik ahlakına aykırı bir davranış sergileyen oldu mu cezasını meslek kuruluşlarımız veriyor. Sanırım Türkiye’de daha bu şartlar oluşmadı. Yani özetle işiniz bizden daha zor

ÖMER ASLAN: İtalya’dan Türkiye nasıl görünüyor?

ALDO BRACCİO: Aslında İtalya ile Türkiye arasında bir sıcaklık ve yakınlaşma var. Paralellikler var. Ama Avrupa genelinde Türkiye’ye karşı bir önyargı var. Bireysel olarak Avrupa’daki insanlarda Türkiye sevgisi var.

ÖMER ASLAN: O halde AB neden Türkiye’ye karşı mesafeli davranıyor?

ALDO BRACCİO: Avrupa’daki yönetimin ABD ile bağlantıları oldukça yüksek. ABD ise Türkiye’nin AB’ye girmesine karşı. Çünkü bölgede güçlü bir Türkiye ABD çıkarlarına zarar verebilir. Bu nedenle Avrupa’daki yöneticiler Türkiye’yi göz ardı ediyorlar.  Avrupa’da özgürce yönetilen bir devlet yok, hemen hemen hepsi bağlantılı. Çünkü ekonomik çevrelerin baskısı oldukça yüksek. Bu nedenle ekonomi ağırlıklı yönetim var. Gerçek siyasi erk yok.

ÖMER ASLAN: Uzun yıllardır Türkiye’ye gelip gidiyorsun. Türkiye’deki değişimi fark edebiliyormusunuz?

ALDO BRACCİO: Roma’dan bakınca; Türkiye hem yer altı hem de yer üstü zenginliklerinin yanı sıra genç nüfusu ile hızlı değişen bir ülkedir. AK Parti hükümeti ile çok ciddi adımlar attı. Artık Türkiye’de özgür düşünme ve kendini rahat ifade etme dönemine girildi. Bu bakımdan çok değişimler görülüyor.  Ekonomik olarak da Çin’den sonra en güçlü ekonomi Türkiye olarak görülüyor. Ayrıca komşuları ile barıştı. Özelikle Rusya ve İran’la dost olması Dünya barışına büyük katkıları oldu. Komşuları ile pozitif ilişkiler kurması Türkiye’ye büyük yarar sağladı. Türkiye artık stratejik derinliği iyi tahlil edip ona göre siyaset üretiyor. Bu nedenle güçlü siyasi irade oluşturabiliyor.

ÖMER ASLAN: Gelelim Şanlıurfa’ya. Şanlıurfa’ya kaçın gelişiniz ve Şanlıurfa nasıl bir şehir?

ALDO BRACCİO: Ben Şanlıurfa’ya ilk olarak 2007 yılında geldim. Daha sonra 2010’da geldim ve bu üçüncü gelişim. Şanlıurfa tarihi ile Roma’ya benziyor. Göbeklitepe’yi gördük. Harran’ı gördük. Bu gelişimimizde ise Atatürk barajını da gördük.

ÖMER ASLAN: Şanlıurfa ile ilgili düşüncelerin nelerdir?

ALDO BRACCİO: Şanlıurfa şehir merkezi Balıklıgöl, Dergah, kale bölgesi tarihi ve mistik bir havası var. İnsanın doyasıya izleyeceği ve dinleneceği bir mekandır. Buraların çok önemli değeri olduğuna inanıyorum.

ÖMER ASLAN: Şanlıurfa insanını gözlemlemişsiniz. İnsanları nasıl buldunuz?

ALDO BRACCİO: Şanlıurfa halkı çok rahatlık veriyor insana. İnsanların Müslüman oluşu ve sıcak kanlı görünümü ile insanı mıknatıs gibi çekiyor.

ÖMER ASLAN: Şanlıurfa halkı İslami inanca sahip olması Hıristiyanlara da aynı huzuru veriyor mu?

ALDO BRACCİO: Aslında Müslümanlar ile Hıristiyanlar arasında çatışma değil, barış olmalı. Ama tabi çıkarını düşünen, bazı devletler karışıklık ve çatışma istiyorlar. Dünya’da bunun öncülüğünü ise ABD yapıyor.

ÖMER ASLAN: zaman ayırdığınız için ve Türkiye’ye karşı derinlemesine araştırma yapıp gerçekleri gördüğünüz için teşekkür ediyorum.

ALDO BRACCİO: Ben teşekkür ediyorum.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Репортаж из Дамаска итальянской делегации в Сирии

0
0

Стефано Верноле, редактору итальянского журнала “Евразия”, недавно довелось побывать в Сирии вместе с представителем сирийской общины в Италии. Он провел несколько дней в Дамаске, где имел возможность встретиться с правительственными деятелями , а также свободно поговорить с простыми гражданами. Ниже его репортаж:

 

 

Тому, кто имел бы возможность отправиться в Сирию, нужно было бы прежде всего освободить свою голову от пропаганды СМИ, передаваемой в эфире телекомпанией Аль Джазира и тому подобными.

 

Следуя классическому Голливудскому стилю, Аль Джазира – “символ ближневосточной демократии”, оплачиваемая самодержцем – эмиром Катара, рассказывала нам в течение нескольких месяцев о грандиозных антиправительственных демонстрациях, жестоко подавляемых президентом Башаром аль-Асадом, описываемым телеканалом и прессой как безжалостный диктатор.

 

Мне жаль разочаровывать многочисленных поклонников “альтернативной” прессы “международного” стиля или тех, кто попал под обаяние лозунгов, выдвинутых Белым домом по поводу “арабской весны” и “нового падения Берлинской стены”, но, насколько я смог увидеть во время моего пребывания в Дамаске, Сирия и ее руководство пребывают в добром здравии.

 

Во-первых, нет больше никаких следов реальных или предполагаемых массовых антиправительственных демонстраций в столице Сирии, где царит общественный мир и жизнь течет максимально спокойно от центра и до окраин.

 

Проверки в аэропорту достаточно мягки, есть возможность перемещаться без ограничений и фотографировать по собственному желанию.

 

Редко при посещении городов по всему миру я видел настолько безмятежных людей, места, где не видно ни малейших следов преступлений даже без какого-либо развертывания сил безопасности.

 

Первое, что нужно было бы узнать о реальном положении дел, это то, что именно делегаты Лиги арабских государств, требующие “вывода танков с улиц”, демонстрируют поведение, когда они, закончив переговоры в президентском дворце, выходили из него смеясь и без какой-либо охраны …

Дело в том, что Государство, на самом деле, содержит своих собственных военных в казармах, и на улицах Дамаска хорошо видны только городские регулировщики, занимающиеся управлением движения.

 

После начала несколько месяцев назад скромных антиправительственных демонстраций, именно сирийский народ, вышел на площадь в поддержку своего президента, о чем свидетельствуют грандиозные манифестации, фотографии и плакаты, висящие во всех магазинах и на всех главных улицах столицы, или транспарант, который стоит на одной из главных городских эстакад, который гласит: “Спасибо России” (со ссылкой на вето Москвы на санкции ООН ).

 

Даже если некоторые представители руководства, воображая себе Ливийский сценарий, вначале не решались, чью сторону принять, именно мелкие партии – коммунистическая и социал-националистическая, которые взялись за организацию про-правительственной мобилизации , понимая, что альтернативой Асаду может быть только оккупация страны НАТО.

 

То, почему большая часть сирийского народа осталась вместе со своим Президентом очевидно: Сирия – это лоскутное одеяло из этнических групп и культур, уважающих друг друга и широко представленных мечетями, католическими костелами и православными христианскими церквями, которые мирно живут вместе бок о бок.

 

Противоположный смысл желаемого Пентагоном “столкновения цивилизаций” в том, что с логикой “разделяй и властвуй” Пентагон стремится сохранить контроль над соседним Ираком.

 

Слова, которые мы услышали в Великой мечети Омейядов от Великого муфтия Сирии Ахмеда Бадр Аль-Дин Хассуна, не оставляют сомнений: «Любая человеческая жизнь важнее, чем религиозные символы. Любую мечеть выстроить заново, но потеряв жизнь, нельзя ее вернуть».

 

Это сообщение, однако, не является полностью понятным для тех, кто работает на дестабилизацию страны , то есть для групп сирийских салафитов, которые уже давно разжигают ожесточенную партизанскую войну в приграничных районах с Ливаном, Иорданией, Ираком и Турцией.

 

После предполагаемого убийства Бен Ладена, США, по сути, даже не потрудились более скрывать свой альянс с Аль-Каидой, наследницей исламских наемников на службе у Вашингтона с 1979 года в Афганистане.

 

Поэтому мы смогли посетить в военном госпитале в Дамаске “плоды мирных манифестаций”, о которых рассказывают собственные средства массовой информации в Хаме и в других местах: многих сирийских солдат, раненных в приграничных районах, которые потеряли руки и глаза, но не желание продолжать служить своему отечеству..

 

Так же, как в Ливии, финансируемые и защищенные тайными руководящими центрами Саудовской Аравии, Израиля и США, эти исламистские группировки действуют без всякого милосердия против всех тех, кто отказывается идти на их стороне, и единственной целью которых является вернуть страну в каменный век.

 

Имеются единодушные свидетельства, что конфликт не имеет в действительности никакого отношения к призыву к “большой демократии”: Сирия говорят о внешнем заговоре в целях укрепления атлантической геополитической стратегии, приведшем к хаосу на Ближнем Востоке, единственный антидот к неизбежному росту влияния России и Китая в регионе.

 

Необратимый кризис западного финансового капитализма, как нам сообщает заместитель министра иностранных дел правительства в Дамаске, Абдель-Фаттах Аммура, может только ускорить эту отчаянную попытку отсрочить конец гегемонии Сити и Уолл-стрит.

 

Конечно, очередь реформ, инициированных Асадом впечатляет, но, как заявила г-жа Клинтон, если Сирия хочет видеть конец беспорядкам, она должна “признать Израиль, избавиться от поддержки Хамас и Хезболлах, и, возможно, дать самостоятельность 3 или 4 министрам из Братьев-мусульман в исполнительной власти” (это последнее заявление особенно приветствуется в Анкаре).

 

Скрытая война продолжалась так много месяцев и стоила так дорого сирийской армии (речь идет о 1600 убитых), но в конце концов она добилась улучшения ситуации, за единственным исключением – города Хомс и нескольких небольших городов, где салафистские экстремисты смешались с гражданскими лицами.

 

Экономическая и социальная выносливость страны, несмотря на некоторые видимые последствия международных санкций, позволяет теперь Асаду вести себя с позиции силы и принять требования Лиги арабских государств.

 

как рассказывают британские газеты в эти дни, мяч сейчас находится в руках Белого Дома, который не делает секрета из своих планов атаковать не только против Дамаска, но и в отношении Тегерана.

 

Сирия, однако, надеется на то, что решат в Пентагоне и штаб-квартире НАТО в Брюсселе, уверенная в устойчивости своей армии и мобилизации населения, из чего следует, что в случае войны, весь Ближний Восток будет разрушен и первый, кто заплатит за это , будет израильский народ будет иметь свой собственный, молчаливый региональный союзник Соединенных Штатов, который после после суровых уроков, полученных в Ливане в 2006 году подвергся бы риску реальной катастрофы.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Antonella Appiano: “Cosa ho visto in Siria”

0
0

Antonella Appiano, esperta giornalista a lungo basata in Siria ed oggi collaboratrice de “L’Indro”, è stata una dei pochi giornalisti italiani a seguire i recenti sviluppi politici siriani direttamente da Damasco, Aleppo, Homs e Yabrud, nel periodo tra marzo e luglio scorsi. Da quest’esperienza è nato anche un libro, Clandestina a Damasco, recentemente pubblicato da Castelvecchi, in cui ha cercato di dare voce alle varie anime della Siria, pro e anti-governative. Kawkab Tafwik l’ha incontrata ed intervistata per noi.

 

Sappiamo che a seguito delle prime rivolte a Homs, il governo siriano negò il visto a tutti i giornalisti e operatori internazionali, da cui il motivo principale della quasi totale assenza di giornalisti italiani in Siria; come è riuscita ad aggirare l’ostacolo?

Mi trovavo in Siria dal 7 di Marzo 2011, prima dell’inizio delle rivolte ed ero entrata nel Paese senza accredito giornalistico, come semplice turista. Ero quindi già “sotto copertura”. Un metodo di lavoro seguito da molti giornalisti all’estero ma poco in Italia. Puoi muoverti libero, in anonimato. Il prezzo da pagare consiste nel fatto che sei obbligato a lavorare da solo, senza aiuti e in condizioni “tecniche” più difficili (mancanza per esempio di connessioni internet fisse). In condizioni abitative più spartane (nessun albergo, solo case private, di amici o in affitto e in zone popolari della città). Ho dovuto cambiare spesso “ruolo”, mischiarmi magari con gli studenti, cercare notizie, senza espormi troppo, evitare di fotografare. Prudenza, attenzione. Anche per non mettere in pericolo chi avvicinavo. Per esempio, evitavo di portare con me il computer e cancellavo il materiale compromettente. Ero prudente anche al telefono. Sempre consapevole della presenza massiccia dei mukhabarat, i servizi segreti siriani e degli informatori.

Nelle primissime settimane lei ha diverse volte smentito notizie di manifestazioni annunciate a Damasco dalla stampa internazionale ed italiana. Come giudica l’approccio che la stampa internazionale ebbe in quei giorni? Ritiene che abbia giocato un ruolo rilevante per gli sviluppi successivi delle rivolte anti-regime?

Il 15 di marzo, per esempio, ho assistito a una mini-manifestazione a Damasco, davanti alla moschea degli Ommayadi, che si è svolta in maniera pacifica e nell’assoluta indifferenza della gente intorno che guardava stupita. La manifestazione venne invece descritta dai media internazionali come massiccia (decine, addirittura centinaia di migliaia di siriani). All’inizio della crisi, la stampa internazionale ha riportato alcuni fatti ampliandoli. Ero perplessa. I siriani erano perplessi. Ricevevo e-mail e telefonate preoccupate dall’Italia quando nella capitale era ancora tutto tranquillo. Ritengo che dopo le Primavera arabe in Tunisia e in Egitto, l’opinione pubblica si aspettasse un effetto domino identico in Siria. Con sollevazioni di massa, soprattutto a Damasco. Un’altra piazza Tahrir. I mass media mainstream hanno il potere di confermare “il pensiero comune”, di rafforzarlo. Di far nascere aspettative. Detto questo non possono creare dal nulla gli avvenimenti. A volte basta una scintilla. In Siria, l’elemento scatenante, è stato il “caso” di Daraa con l’arresto dei ragazzini che avevano scritto sui muri della scuola slogan contro il governo, le proteste dei genitori inascoltate dalle autorità, gli incidenti del venerdì 18 marzo.

Ha avuto forse l’impressione che le notizie venissero ‘filtrate’ dall’estero?

Non esattamente filtrate. Piuttosto “sdoppiate”. C’è stata molta confusione a livello d’informazione. Una specie di “schizofrenia mediatica” con la tv di stato che riportava i fatti in un modo e le tv arabe al-Jazeera, al-Arabiya e quelle occidentali in un altro. Ai giornalisti occidentali- e anche ai turisti- già dopo le rivolte di Daraa è stato ostacolato l’accesso nei luoghi degli incidenti. Ho tentato di entrare a Daraa, il 24 marzo ma l’autobus di linea fu fermato a un posto di blocco. Quel giorno potevano entrare in città solo i residenti o i parenti dei residenti e dovetti tornare a Damasco. Rumors, voci. “I manifestanti hanno bruciato il palazzo di giustizia”. “No sono stati delinquenti comuni che stanno approfittando della confusione”. Qualcuno aveva parenti a Daraa ma non voleva parlare. Non si fidava. Altri minimizzavano o comunque sembravano piuttosto indifferenti. Giudizi mormorati pro o contro la “rivoluzione”. Senza dubbio in quei giorni e , ancora durante i primi due mesi, ho raccolto molte testimonianze di gente che chiedeva solo un processo di “democratizzazione” del Paese, riforme ma senza “caos”, senza “stravolgimenti”. In tanti dichiaravano di “non voler cambiare”. Eppure le proteste continuavano, di venerdì in venerdì.

A questo proposito, come è stato il suo rapporto con i media italiani?

Ho chiesto alle varie testate che mi hanno contattato la libertà di riferire ciò che vedevo sul campo. Se non riuscivo ad essere testimone diretta dei fatti, volevo almeno poter riportare le opinioni di tutti. Senza condizionamenti o preconcetti. A volte qualche collega sembrava non credermi. Per esempio sul fatto che i siriani potessero guardare tutti i canali satellitari e non solo la tv di stato. Avevo l’impressione che tutti si aspettassero una rapida caduta del regime. Come in Egitto e in Tunisia. Ma era chiaro invece, vivendo in Siria, che l’evoluzione sarabbe stata lenta.

Lei era in contatto sia con attivisti dell’opposizione che con persone pro-Bashar; come sono stati i rapporti con le sue fonti? Come è riuscita a guadagnare la fiducia di entrambe le parti?

Con pazienza, tenacia. Cercando sempre di ascoltare ma senza dare giudizi. E soprattutto senza pretendere di capire tutto. Mi sono concessa il lusso del dubbio. Credo sia stato il mio atteggiamento a farmi guadagnare la fiducia dei due “schieramenti”. Non è stata una conquista facile. E neppure veloce. Ha richiesto tempo. A volte ho seguito piste sbagliate. E ho dovuto ricominciare da capo. Durante i primi due mesi è stato facile contattare gli attivisti on- line, quelli che non si esponevano nelle manifestazione ma solo attraverso i gruppi di rivolta sui Social Network. Con i veri oppositori di strada ho avuto i primi contatti importanti solo a maggio.

Ritiene personalmente che l’opposizione sia sufficientemente matura per prendere in mano la situazione se si dovesse verificare in futuro la caduta dell’attuale regime?

Quando sono uscita la prima volta dal Paese alla fine di maggio, dopo tre mesi di permanenza, l’opposizione era molto disorganizzata e divisa. Mancava un progetto comune. Se ponevo domande precise su “come si sarebbe svolta la transizione” ricevevo risposte vaghe, spesso ingenue. Però quando sono riuscita a rientrare in Siria all’inizio di luglio, la situazione era cambiata. E l’opposizione si era delineata meglio, pur se ancora frammentata. C’erano laici, islamisti, attivisti dei diritti civili. Comunque si erano formate tre correnti principali. In patria, i dissidenti siriani disposti a tenere aperto il dialogo con la leadership di Damasco. Ancora in patria, la corrente dei Comitati siriani di Coordinamento locale, e infine il gruppo dell’opposizione all’estero. Ma il passaggio da un regime a partito unico al pluralismo democratico è comunque lento ed esige fasi precise. Necessita di una società civile che in Siria non è più riemersa dopo la storica Primavera di Damasco. In Siria non esistono partiti veri, organizzazioni sindacali, una magistratura indipendente. Nel caso di caduta dell’attuale regime, l’intero sistema andrebbe riorganizzato.

Nel quadro della cosiddetta “primavera araba”, ogni paese ha affrontato e sta affrontando questa fase di “regime change” in modo differente. Quali sono a suo parere le caratteristiche sociali peculiari della nazione siriana che la differenziano da tutte le altre nazioni arabe?

Prima di tutto, dopo circa 7 mesi e mezzo di proteste, il Presidente Bashar tiene ancora le redini del potere, ma le rivolte continuano, seguite dalle repressioni e il Paese versa in difficoltà economiche dovute alla mancanza del turismo e delle sanzioni imposte dall’Occidente. Una situazione insostenibile. Proprio oggi (n.d.r 2 novembre) la Siria ha accettato il piano di mediazione della Lega Araba per porre fine alla crisi. Damasco ha dichiarato che acconsente a cessare le violenze, a ritirare i militari dalle città e a rilasciare i prigionieri politici. La Lega Araba continuerà a tenere contatti tra il governo e l’opposizione siriana “in preparazione a un dialogo nazionale entro due settimane”. Il comunicato non specifica il luogo del possibile incontro. Il regime siriano ha sempre sostenuto la necessità di organizzarlo a Damasco. L’opposizione invece insiste perché tutto avvenga fuori dai confini siriani. Vedremo. Ho parlato in questi giorni con due siriani che sono riusciti a venire in Italia. Non credono alle promesse di Bashar neppure questa volta. Ma conosco anche siriani che continuano a stare dalla parte del presidente per motivi economici, d’interesse o perché credono in lui. E comunque prima dell’inizio delle repressioni, delle uccisioni e degli arresti, a differenza del Presidente tunisino Zine el Abidine Ben Ali e del Presidente egiziano Hosni Mubarak, Bashar al- Assad era un leader piuttosto popolare. Durante le prime dimostrazioni infatti i manifestanti chiedevano solo maggiore “hurriyya”, libertà, misure contro la corruzione, una giusta ridistribuzione delle ricchezze, la fine dello stato di emergenza in vigore dal 1963. Solo dopo le repressioni, gli arresti e l’intervento dell’esercito, la gente ha cambiato slogan, invocando la caduta del regime. Ai primi di marzo 2011, a Damasco la situazione era tranquilla. Gli amici mi raccontavano che la caduta di Mubarak era stata vista in maniera positiva perché la leadership sperava in un nuovo governo egiziano più favorevole ai Palestinesi e meno dipendente dagli Stati Uniti. In generale, la gente si augurava che ciò che era successo in Tunisia e in Egitto avrebbe indotto il governo a concedere le riforme desiderate da tempo senza thawra, “rivoluzione”. Molti sottolineavano la peculiarità della Siria, un Paese multietnico e multi religioso e il pericolo di una eventuale guerra civile. Di divisioni territoriali e su base confessionale come in Libano.

Ma il popolo siriano che vive al di fuori della sfera politica come ha reagito, e sta reagendo, al clima di scontro nel paese? Vede una nazione unita nel desiderio delle dimissioni del presidente, come è avvenuto in Tunisia ed in Egitto?

L’evoluzione in Siria è stata lenta. Il cambiamento l’ho notato a luglio. Molti che ancora a maggio non avevano preso posizione oppure erano contrari al regime ma non partecipavano alle manifestazioni, erano scesi in piazza. Il movimento di protesta, incominciato a metà di marzo, dopo cinque mesi era cresciuto. Le repressioni avevano inasprito gli animi. A luglio, secondo gli attivisti per i diritti umani erano stati uccisi per strada più di 1.600 dimostranti e almeno 10.000 erano stati arrestati. Ma certo allora, come anche adesso, larghe fette della borghesia commerciale e imprenditoriale, minoranze religiose appoggiano ancora il Presidente Bashar al-Assad. Secondo Joshua Landis, docente all’università dell’Oklahoma e fondatore del blog Syria Comment “un 40 per cento dei siriani sostiene ancora il regime”. Le defezioni nell’esercito sono avvenute fra le fila dei soldati, a luglio soprattutto fra i militari di leva, ma i generali (alawuiti come il can degli Assad), tranne poche eccezioni, sono dalla sua parte. I disertori stanno comunque aumentando. Ormai da ottobre, secondo testimonianze di amici con cui sono rimasta in contatto, nella zona centrale di Homs, nell’area nord-occidentale di Idlib, in quella meridionale di Daraa, avvengono scontri regolari fra i sostenitori di Bashar e oppositori, fra l’esercito e le forze fedeli al Presidente e militari disertori e gruppi di manifestanti anti-regime. Tensioni, vendette. Potrebbe essere l’inizio di una guerra civile. La gente non è più distante. È preoccupata, coinvolta. Angosciata dal futuro. Viaggiare all’interno del Paese è diventato pericoloso. “Siamo stanchi” mi ha scritto un oppositore con cui sono rimasta in contatto.

Lei è in contatto anche con le comunità cristiane siriane alle quali ha dato voce più di una volta. Ritiene che l’equilibrio interconfessionale in Siria sia mutato in questi ultimi mesi o potrebbe mutare in futuro? In che modo?

Nel Paese i cristiani rappresentano circa il 10% della popolazione e sono divisi in ben undici confessioni. Si sono schierate a fianco del regime, dall’inizio delle rivolte. Ho raccolto numerose testimonianze in tutto il Paese. A Pasqua i cristiani di Damasco erano preoccupati. Nel quartiere di Bab Touma, nella città vecchia di Damasco, avevano organizzato milizie private. In quei giorni circolavano voci insistenti sulla presenza di islamisti, salafiti. E i cristiani avevano paura. Hanno paura anche ora proprio perché si sono alleati con Bashar e gli alawuiti e temono le “vendette” dei sunniti in caso di sconfitta. Però la minoranza alawita al potere ha cooptato una larga fetta di sunniti. Il divario quindi esiste fra gli alawiti e i sunniti (anche i cristiani) che stanno ai vertici e si spartiscono privilegi economici e gli altri. I poveri. Certo i sunniti poveri sono più numerosi degli alawuiti o dei cristiani poveri, ma solo perché appunto costituiscono la maggioranza del Paese. Le tensioni non sono nate su base confessionale pura, quindi. Le paure dei cristiani che mi citavano sempre “l’incubo Iraq” sono comprensibili ma per ora, gli equilibri non sono mutati. Potrebbero mutare certo. Nel caso di caduta del regime le forze religiose sunnite chiederanno un ruolo politico nella guida del Paese anche se non sono state all’origine della sollevazione. Il movimento islamico indipendente, attraverso i suoi leader, ha dichiarato di non essere interessato a instaurare la shari’a. Però gli islamisti “spaventano” i laici, le classi medio alte educate all’occidentale, non solo i cristiani. In uno scenario post-Assad bisognerebbe garantire tutte le comunità confessionali. La Siria – al contrario di quanto può apparire- è un Paese molto religioso.

Lanciando uno sguardo al passato, alla Siria “pre-rivolte”, e facendo un confronto con il presente, quali sono le prime impressioni sulla Siria che le che saltano all’occhio?

In questo momento la Siria è un Paese profondamente ferito. È cambiata l’atmosfera, la vita. E come non potrebbe? Alberghi deserti, carri armati lungo l’arteria Aleppo Damasco. Disoccupazione. Intere categorie sono rimaste senza lavoro, insegnanti di arabo, guide turistiche, affittacamere, commercianti. Il turismo non è l’unica voce nell’economia siriana però la presenza di studenti stranieri muoveva il giro degli affari immobiliari. L’inquietudine per un futuro incerto è ormai palpabile, e trasversale, anche se più forte fra il ceto piccolo borghese.

Ci ha detto di aver lavorato “sotto-copertura”, senza dubbio questo deve aver comportato, oltre a dei pro, anche dei contro. Ci può parlare dei principali rischi che ha corso nella sua esperienza professionale in Siria?

Lavorare come giornalista in Paese dove non è consentito espone a un rischio continuo. Era rischioso avvicinarsi alle moschee che mi venivano segnalate come centri di rivolta. Era rischioso uscire il venerdì quando le città erano deserte. Viaggiare. Andare a richiedere il rinnovo del visto. Consegnare il passaporto a un posto di blocco. Senza dubbio è stato pericoloso andare a casa di alcuni oppositori. Potevano essere stati segnalati. E mi sono esposta molto quando sono andata a Yabrud, a maggio ad incontrare un oppositore che aveva organizzato le manifestazioni nella sua città. Un giorno la polizia segreta mi ha fermata, alla stazione di Homs. Sapevo che non si poteva fotografare ma avevo chiesto l’autorizzazione a un poliziotto. Quando ho sentito una mano sulla spalla e l’ordine di seguire i due agenti, ho pensato di essere stata scoperta. E restare chiusa in una stanza con due persone che mi fissavano immobili, senza dire nulla, è stata una esperienza più che spiacevole. Il pericolo maggiore l’ho corso quando sono riuscita ad entrare in una zona dove si svolgeva una manifestazione. Gas lacrimogeni, gente che scappava. Chi mi aveva accompagnato, si era raccomandato “se sparano buttati a terra”. Quel giorno, il 22 luglio, eravamo a Midan, un quartiere sunnita di Damasco, non ci sono stati spari, solo lacrimogeni. Ma il venerdì prima, il 15 luglio, a Qaboun avevo visto la polizia sparare sui manifestanti disarmati.

Dalle sue testimonianze e dai suoi articoli si nota un cambiamento nelle sue personali considerazioni circa l’operato del governo in risposta alle rivolte. Se inizialmente la situazione era relativamente calma e pacifica (l’episodio della Moschea degli Omayyadi di cui ci ha parlato ne è una conferma), in una seconda fase, ci dice, il regime ha iniziato ad utilizzare risposte decisamente più violente. Lei afferma infatti di essere stata testimone di violenze da parte dell’esercito contro i manifestanti. Ce ne può parlare?

Prima di luglio, avevo sentito racconti e testimonianze. Avevo visto immagini in tv. In internet. Ma come essere sicura? Senza la presenza della stampa, in Siria mancava fonti indipendenti. L’unica soluzione, vedere con i miei occhi. Però è sempre stato difficile entrare nei quartieri a rischio. Venivano isolati, già dal mattino presto da cordoni di polizia e militari. Guardie di sicurezza. Finalmente a luglio, il gruppo di oppositori con cui ero venuta in contatto ha accettato di accompagnarmi nel quartiere sunnita di al-Qaboun, a nord est della capitale dove, fin dall’inizio delle rivolte, c’erano state ogni venerdì proteste. Ho visto tante gente che camminava nelle strade, gridando “libertà”. Disarmata. Ho visto la polizia in tenuta antisommossa pronta, schierata. Ad un certo punto qualcuno a tirato sassi contro i poliziotti. La prima volta hanno reagito sparando in aria. La seconda, sparando dritto al petto dei manifestanti. Ho vista la gente cadere come fantocci. Era il 22 luglio 2011.

 

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Intervistata e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”.

 

Un’altra testimonianza dalla Siria: il reportage di Stefano Vernole da Damasco (clicca)

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

“Responsabilità di proteggere” la “liberazione” di Sirte: le atrocità commesse dalla NATO

0
0

Fonte: “Global Research

Secondo i calcoli della NATO la forza aerea alleata ha assestato 415 attacchi sulla città di Sirte tra sabato 28 Agosto e martedì 20 Ottobre. Abbiamo comparato questi attacchi con i bombardamenti di Guernica e altre comparazioni sono state fatte con le ampiamente condannate operazioni di pulizia di Grozny.

Inoltre, i ribelli, descritti nei circoli della Nato come una “proxy army” , erano autorizzati dalla NATO ad attaccare la città con carri armati, mortai e artiglieria. Ecco alcuni video dimostrativi provenienti dall’ “Ufficio informazioni del Battaglione Misrata Mujahid”:


Ed ecco altri video, girati a settembre, che mostrano cannoni pesanti e missili nella città. È chiarissimo che la NATO, che stava perlustrando i cieli e bombardando la città, a quanto si dice per proteggere i civili, non stava facendo alcuno sforzo per proteggere gli abitanti di Sirte da questo uso indiscriminato di armi pesanti.

La NATO si è rifiutata di spiegare le ragioni della mancata protezione di civili a Sirte e il perché si sia resa complice di questi crimini di guerra.

Il video qui sotto mostra che quando la fanteria è entrata nel centro di Sirte le infrastrutture della città, inclusi i suoi edifici, il sistema idrico e sanitario, erano state completamente distrutte:

Ed ecco un altro video della città che mostra l’estensione dei danni; in questo video è chiaro che ogni edificio è stato oggetto di un attacco sistematico per assicurarsi che la città fosse inabitabile:

Atrocità a Sirte

In questo dovrebbe vedersi il colpo mortale all’assunto che la forza aerea NATO, combinata con forze indisciplinate e in alcuni casi genocide, fornite di armi Nato sul campo possa effettivamente “proteggere” la popolazione civile. È chiaro che 53 persone sono state sommariamente giustiziate dai ribelli nel giardino dell’hotel Mahari a Sirte.

È paradossale che i corpi siano stati trovati da Peter Bouckaert, direttore del dipartimento emergenze allo Human Right Watch. Alcuni corpi hanno le mani legate dietro la schiena quando sono stati colpiti. Inoltre, alcuni di essi hanno fasce su ferite gravi, ciò suggerisce che sono stati curati per altre ferite prima di essere giustiziati, un cocente ricordo della precedente violenza assassina dei ribelli all’ospedale Abu Saleem di Tripoli.

Gli abitanti di Sirte hanno identificato quattro dei morti come abitanti di Sirte: Ezzidin al-Hinsheri (un funzionario del governo), Muftah Dabroun (un funzionario militare), Amar Mahmoud Saleh e Muftah al-Deley (entrambi civili).

Alcune delle vittime sono state all’ospedale Ibn Sina di Sirte, dopo essere state curate – lo stesso ospedale che curava bambini con orribili ferite, di cui abbiamo parlato in un’altra inchiesta.

Sulle pareti dell’albergo c’erano i nomi delle brigate di Misrata: la “brigata tigre”, la “brigata supporto”, la “brigata giaguaro”, la “brigata leone”, la “brigata cittadella”. Le brigate di Misrata si sono già rese responsabili della pulizia etnica di Misrata e del genocidio di Tawergha.

Nel frattempo i funzionari della Croce Rossa hanno riferito di aver trovato 267 morti a Sirte, la maggior parte dei quali si pensa esser stati uccisi giovedì, giorno della liberazione.

Come spiega HRW, la violenza e gli omicidi, inflitti durante un conflitto a combattenti che hanno deposto le armi o si trovano in stato di detenzione costituiscono un crimine di guerra secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. La Corte ha giurisdizione in Libia per tutti i crimini compresi nel suo mandato commessi a partire da febbraio 2011. Secondo il trattato, le responsabilità penali si estendono sia a quelli che fisicamente commettono il crimine sia agli ufficiali più alti in grado, inclusi quelli che danno gli ordini e quelli in una posizione di comando che avrebbero dovuto aver conoscenza degli abusi ma che non hanno saputo prevenirli o denunciarli o perseguire i loro responsabili.

Come dice Peter Bouckaert:

L’ultimo massacro sembra essere parte di una tendenza all’omicidio, al saccheggio e ad altri abusi commessi da combattenti anti-Gheddafi che considerano loro stessi al di sopra della legge.

Il procuratore della Corte Penale Internazionale non ha intrapreso azioni contro le forze pro-NATO, infatti è stato coinvolto nella diffusione di propaganda e nell’incitazione all’odio razziale durante il conflitto. Per di più, i leader del Consiglio di Transizione (NTC) sono fortemente implicati negli attacchi alla popolazione civile di Sirte. Mustafa Abdel Jalil ha visitato le brigate assediando la città l’11 Ottobre e dichiarò:

Voi avete il sostegno di tutti i membri del Consiglio di Transizione”.

Oltre a questo, Mahmoud Jibril ha dato il via libera alla pulizia etnica permanente dei Tawergha da parte delle brigate di Misrata durante un incontro al Misrata Town Hall

Quello che ora resta di Sirte è stato compleatamente saccheggiato, con camion che caricano auto e beni personali da riportare a Misrata.

Nel frattempo, secondo l’inchiesta di Wyre Davies della BBC da Sirte, la città sarà l’ultima ad essere ricostruita o potrebbe non essere ricostruita affatto “sarà lasciata invece nel suo stato fatiscente, in segno di commemorazione delle vittime del Colonnello Gheddafi.”

La responsabilità di protezione

È chiaro che la dottrina della “responsabilità per la protezione” (R2P) è stata manipolata dalla NATO e dai suoi sostenitori come giustificazione per le sue campagne militari e ha perso il suo contenuto umanitario, divenendo poco più che un’arma nella guerra di propaganda per estorcere consensi sulle azioni militari ai cittadini poco informati.

Una autentica responsabilità per la protezione (GR2P) deve proteggere le persone dalle devastazioni della guerra, durante la quale si verificano le violazioni dei fondamentali diritti umani, e deve considerare la R2P come la reincarnazione del peso dell’uomo bianco e come giustificazione dell’imperialismo e avventurismo militare della NATO.

 

(Traduzione di Lomé Galliano)

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Rivolte arabe: la primavera non arriva

0
0

Rivolte arabe: la primavera non arriva. I popoli di Nord Africa e Vicino Oriente tra “lotta per la democrazia” e “interventi umanitari” della NATO. Questo il tema al centro della serata in calendario il prossimo 9 novembre a Bologna presso il Centro Sociale “Giorgio Costa” di via Azzo Gardino 48. L’iniziativa, organizzata dall’Associazione Eur-Eka, vedrà la partecipazione di Daniele Scalea, co-autore di “Capire le rivolte arabe”, segretario scientifico dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) nonché redattore di “Eurasia”, e di Joe Fallisi, artista lirico e militante antimperialista testimone dell’aggressione militare alla Libia. L’evento tenterà di chiarire le dinamiche politiche, economiche e sociali che sottendono la cosiddetta “primavera araba”, espressione inflazionata negli ultimi mesi che, al di là del significato meramente letterale, merita un dibattito attento ed approfondito, che tenga necessariamente conto dei fattori interni ai singoli Paesi e, elemento forse ancor più determinante, delle ingerenze delle potenze esterne. La morte di Gheddafi – che ha sancito la fine della missione NATO dopo circa otto mesi di guerra – ci pone di fronte ad un ventaglio di questioni cruciali su quello che accadrà dopo. Quesiti che accomunano Egitto, impegnato in una “transizione democratica” tutt’altro che priva di ostacoli e punti interrogativi, e Tunisia dove, a nove mesi dalla caduta di Ben Ali, il 90% della popolazione si è recata alle urne per l’elezione dell’Assemblea Costituente. E poi la mobilitazione del popolo siriano e la situazione nello Yemen. Rivolte arabe: la primavera non arriva rappresenta una preziosa occasione per analizzare, considerando le specificità locali di ciascun contesto, il nuovo riassetto dello scacchiere da un punto di vista geopolitico, come si disporranno sul tavolo le carte delle risorse – il caso libico è al riguardo esemplificativo – i rapporti di forza e le aree di influenza delle potenze nella regione. Un’opportunità di incontro e dibattito, dunque, che arriva puntuale per cercare di fornire strumenti di analisi necessari al fine di comprendere al meglio la reale portata e le prospettive dell’attuale “primavera araba”. Un evento sicuramente da non perdere.

L’ingresso è riservato ai soci. La tessera Uni.Ass.Bo costa 3 euro. Sono riconosciute anche le tessere Ancescao.

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Putin e Medvedev: la staffetta verticale

0
0

Comprendere le dinamiche della politica è molto complicato. Tracciare consequenzialità tra gli eventi politici russi è un compito ancora più arduo. Per alcuni giornalisti ed esperti sarebbe facile riprendere i propri archivi e tagliare corto con un “nel 2007 l’avevo previsto”. Le vicissitudini di breve periodo, i cambiamenti nella politica estera e interna e la situazione energetica hanno permesso che l’avvicendamento alla presidenza tra Medvedev e Putin si verificasse. Bisognerà capire se l’atteggiamento di quest’ultimo sarà lo stesso di quattro anni fa o se, da bravo politico, modificherà la sua agenda a seconda delle necessità.

Introduzione
Ultimamente, le agenzie e i giornali sono tornati a occuparsi della corsa alla presidenza russa e delle conseguenti dinamiche di potere. Il 4 dicembre si terranno le elezioni parlamentari, qualche mese prima delle presidenziali. Dopo qualche remora, il presidente uscente Dmitrij Medvedev ha confermato il suo sostegno alla candidatura dell’attuale primo ministro, ed ex-presidente, Vladimir Putin. Tutto pare ricalcare il copione scritto quattro anni fa quando Putin fece un passo indietro. Ciononostante, alcuni segnali di politica interna ed estera ci presenteranno con ogni probabilità una Russia diversa rispetto a quella presa in mano da Putin ad inizio secolo.
In ambito interno, oltre all’investitura di Putin quale “candidato designato” dal partito Russia Unita, nella seconda parte del 2011 sono avvenuti alcuni cambiamenti molto importanti. Alla fine di settembre, il Ministro delle finanze che ha accompagnato Putin nel suo percorso presidenziale, Aleksej Kudrin, è stato costretto alle dimissioni dopo un duro scontro con Medvedev.
Qualche mese prima, il presidente aveva condotto una sorta di rivoluzione al vertice, impedendo la compatibilità tra le cariche politiche legate al Cremlino e gli incarichi all’interno dei quadri delle più grandi compagnie russe. Molti uomini potenti, ai quali Putin aveva permesso il doppio incarico, si sono ritrovati a doverne abbandonare uno.

Il capitolo pietroburghese
La collaborazione tra Putin e Medvedev ha le sue radici nell’amministrazione comunale di San Pietroburgo, che negli anni Novanta diventò una fucina di politici giovani e rampanti. L’elezione di Anatolij Sobchak permise al suo staff di influenzare la vita politica della capitale europea della Russia. Molti di coloro che parteciparono a questo milieu furono poi chiamati da Putin come collaboratori o ministri durante i primi due suoi mandati presidenziali. Conoscerli meglio durante l’epoca pietroburghese ci aiuterà a capire chi sono diventati nello scorso decennio e perché.
Sobchak era professore presso la facoltà di giurisprudenza all’Università di Leningrado quando si candidò per le elezioni comunali del 1989. Alla sua campagna lavorarono molti suoi studenti ed ex-studenti, non ultimi Dmitrij Medvedev e Vladimir Putin.
Nelle sfere più alte del liberalismo pietroburghese, accanto a Sobchak, militavano Sergej Stepashin e Anatolij Chubais, importanti esponenti negli esecutivi durante la presidenza Eltsin. Inoltre, un folto gruppo di giovani politici si distingueva per l’intraprendenza che gli avrebbe permesso di inserirsi nel salotto del Cremlino già verso la fine degli anni Novanta. Grazie all’elezione alla presidenza di Putin, questo gruppo avrebbe dominato la scena politica russa dal 2000 in avanti.
L’operazione di occupazione del potere da parte di Putin ha riguardato anche i suoi ex compagni nei servizi di sicurezza (KGB, poi FSB). Il neo-presidente scelse con cura gli incarichi e consegnò le chiavi dei ministeri più importanti ai cosiddetti siloviki (dal russo silovye struktury, rappresentanti delle strutture di potere) e le redini delle aziende a partecipazione statale più forti ai suoi “amici” pietroburghesi  (1).
Tra i siloviki si annoverano Viktor Ivanov, ex membro del KGB e vicecapo dello staff presidenziale dal Gennaio 2000, Sergej Ivanov, a lungo ministro della difesa e principale sostenitore di Mikhail Fradkov, primo ministro dal 2004 al 2007. Inoltre, nato in Cina, ma con un immenso senso patriottico, Sergei Stepashin, fu primo ministro per tre mesi nella transizione tra Primakov e Putin del 1999 (2) e rimase una figura molto influente negli ambienti militari e governativi. Nikolaj Patrushev lavorò a stretto contatto con Stepashin e Putin presso i servizi di sicurezza, prendendo il posto di quest’ultimo al FSB nel 1999 . L’ultima importante figura di questo seppur incompleto ritratto dei siloviki, Igor Sechin, è descritta nelle righe successive, visto che egli è anche parte del “gruppo dei pietroburghesi”.
Agli amici di San Pietroburgo che avrebbero fatto parte dell’establishment putiniano sarebbero stati concessi posti di rilievo. A cominciare dal futuro presidente Medvedev, inserito nell’amministrazione presidenziale fin dal 1999 e successivamente anche alla presidenza di Gazprom dal 2001. Sempre accanto a Medvedev, Sechin sarebbe diventato un uomo chiave del Cremlino. Il “cardinale grigio”, come lo definisce l’Economist (3), durante il secondo mandato di Putin accrebbe il suo potere sia all’interno dell’amministrazione presidenziale, sia grazie alla nomina a capo del colosso del petrolio, Rosneft’, nel 2004. Ancora in ambito energetico, uno stretto collaboratore di Putin durante l’amministrazione Sobchak, Aleksej Miller, avrebbe sostituito Rem Vyakirev come amministratore delegato di Gazprom nel 2001. Un altro illustre originario della grande città baltica, German Gref, fu nominato prima ministro dello sviluppo economico nel 2000 e poi trasferito al ministero dell’economia nel 2004.
Il pietroburghese di cui ci occupiamo maggiormente, però, non rimase fedele al neo-centralismo democratico (4) che caratterizzò la nascita e il successo del partito di maggioranza, Russia Unita. Aleksej Kudrin si trasferì a Mosca per prendere il posto di ministro delle finanze lasciato libero da Mikhail Kasyanov , nominato primo ministro nel Marzo del 2000. I suoi servizi saranno molto utili alla crescita economica della Russia e alla sua stabilità finanziaria interna. Memore della grave crisi del 1998, Kudrin aggiunse un pizzico di interventismo statale alla tendenza liberale del governo Kasyanov (5). Questo atteggiamento fu importante per Putin, grazie al quale Kudrin sopravvisse nel suo incarico anche dopo l’emarginazione di Kasyanov poco prima delle elezioni presidenziali del 2004 (6).
In questo intricato groviglio di personalità, Putin ha rappresentato chiaramente il filo conduttore. La sua abilità nell’intessere le trame politiche e bilanciare il potere tra le varie cariche politiche e affaristiche gli ha garantito la stabilità come leader indiscusso. Anche durante il periodo in cui, per rispetto verso la Costituzione, decise di lasciare la presidenza come aveva fatto Eltsin, designando il suo naturale successore.

Il gioco di potere
Proprio come era capitato nel 1999, nel 2007 Putin scelse Dmitrij Medvedev quale suo successore preferito e lo propose al bagno di folla del congresso di Russia Unita. Nei mesi precedenti alle elezioni, giornalisti e accademici si dividevano sul nome di colui che avrebbe preso il posto di Putin. Molti puntavano sul neo-premier Viktor Zubkov, non più giovane, che avrebbe gestito la cosa pubblica russa con una chiara deferenza verso Putin, conscio che il proprio mandato dipendesse dall’ex presidente. Altri scommettevano su Medvedev, quale giovane inesperto, che Putin avrebbe potuto modellare a piacimento, anche in virtù della decennale amicizia. Insomma, non c’era alcuno che ritenesse possibile che il presidente, che si sarebbe insediato nel 2008, avrebbe mostrato un’autonomia decisionale rispetto a Putin.
Non è a torto che si sospettasse di un pluralismo “zoppo”, visto che i candidati indipendenti erano stati censurati ed esclusi (da Kasparov a Kasyanov) e che i candidati di opposizione classica (Zyuganov e Zhirinovskij) non avevano un bacino popolare sufficiente a poter avvicinare la macchina elettorale di Russia Unita (7). Fu senza difficoltà, infatti, che Medvedev, il predestinato, ricevette circa il 70% dei voti.
Medvedev mostrò un’autonomia decisionale intermittente, soprattutto a causa della congiuntura internazionale in cui si trovò a operare. Pochi mesi dopo la sua elezione, le tensioni crescenti in Abkhazia e Ossezia del Sud lo spinsero a decidere unilateralmente di intervenire con l’esercito russo nei territori contesi. L’azione, che rispondeva a determinati dettami del diritto internazionale e ne infrangeva altri, sorprese lo stesso Putin. Nel 2011, l’intervento in Libia creò un ulteriore solco nelle relazioni tra Putin, che comparò la risoluzione ONU num. 1973 a una «medievale chiamata alla crociata», e Medvedev, il quale si distanziò da tale posizione appoggiando la decisione del Palazzo di vetro (8). Inoltre, Medvedev rilanciò più volte la sua volontà di giungere a una concreta liberalizzazione economica per scongiurare il pericolo di «stagnazione», parola che Putin mai avrebbe usato per descrivere la “sua” Russia.
L’autonomia decisionale si è altresì palesata nella posizione che Medvedev ha assunto nei riguardi di personalità politiche di spicco con cui non si è trovato d’accordo. Titoli di giornale sono stati spesi nel 2010 sul sindaco di Mosca, Jurij Luzhkov (9), sostituito da Sobyanin e nel 2011 su Sechin e Kudrin. Tutti accomunati dalla loro vicinanza al premier Putin. Con frequenza incostante, gli esperti spesero parole sulla capacità di Medvedev di distanziarsi dal suo predecessore. Tuttavia, l’attuale presidente ha sempre cercato di giustificare le proprie azioni attraverso il suo programma di liberalizzazione e modernizzazione (10). A questo proposito, Medvedev ha provato a far breccia tra le mura delle fortezze energetiche erette grazie alla rinazionalizzazione voluta da Putin, occupandosi poco di politica energetica, soprattutto di risorse tradizionali, come petrolio e gas naturale, a differenza del suo predecessore.
D’altra parte, durante la sua reggenza come primo ministro, Putin ha ottenuto dalla Duma un rafforzamento dei poteri del premier, costruendo le basi per il suo ritorno al Cremlino. Pur avendo perso qualche fedele alleato a causa dei “capricci” liberali di Medvedev, è rimasto saldamente al controllo del suo Paese. Inoltre, non ha esitato a cercare soluzioni anche nella revisione di una politica accentratrice. Alla ricerca della soluzione per l’uscita dalla crisi, dopo aver messo mano al Fondo Nazionale (11) (che aveva negli ultimi anni accumulato le risorse monetarie ottenute dalla vendita di idrocarburi), Putin ha ritenuto opportuno immettere nuovamente sul mercato porzioni minoritarie delle aziende statali, scelte soprattutto tra i giganti in difficoltà. Su tutti, Gazprom, impossibilitato ad aumentare il volume delle vendite, visti i problemi a Ovest (Ucraina) e a Sud (Turkmenistan), con la stessa forza di inizio secolo e mancando gli obiettivi di ricapitalizzazione nel 2008-10.

Il colpo di coda di Medvedev
La battaglia di Medvedev contro il “doppio incarico” tra quadri d’impresa e ruoli di partito è stata condotta dall’inizio del 2011. A Kudrin fu chiesto di scegliere tra la guida di VTB (la banca di investimenti più attiva nell’attrarre capitali dall’estero, di cui venne contestualmente venduto il 10% ) (12) e la poltrona di ministro delle finanze. A Sechin venne intimato di lasciare prima di luglio il suo ruolo di amministratore delegato di Rosneft’ se avesse voluto conservare il suo ruolo nell’amministrazione presidenziale. Entrambi optarono per l’esecutivo, dove Putin avrebbe potuto proteggerli da ulteriori attacchi. Uno scambio di vedute poco cortese, però, causò l’allontanamento di Kudrin a settembre, quando si vide costretto alle dimissioni dopo la pubblica nota di demerito riferita da Medvedev in diretta televisiva.
Quest’ultima forse un’ultima zampata prima di cedere il potere, ripetendo il ritornello dei suoi predecessori durante il congresso del partito. Come da tradizione, quasi hollywoodiana, il presidente parla per ultimo e designa il suo successore, presentandolo al partito. Questi, che aveva parlato poco prima, viene richiamato sul palco per accettare la candidatura e ricevere trenta minuti di applausi.
Aleksej Kudrin era infatti l’unico ministro della Federazione a dare del “tu” a Vladimir Putin e aveva recentemente sottolineato quali fossero gli svantaggi che la dipendenza dal petrolio presentava per l’economia russa (13). Pur non trovandosi d’accordo con l’atteggiamento statalista e centrato sull’energia di Sechin, Kudrin condivise con lui la vicinanza a Putin e il destino preparato loro da Medvedev. In particolare, in seguito al congresso di Russia Unita che mostrava i segni della distensione tra Putin e Medvedev e la ridefinizione dei rispettivi ruoli, Kudrin si lasciò scappare un’esternazione a distanza, secondo la quale avrebbe lasciato il governo se si fosse trovato a lavorare con Medvedev come primo ministro. Qualche giorno dopo, di ritorno in Russia, Kudrin incontrò il presidente a un summit governativo. Medvedev aprì bruscamente i lavori, in diretta TV, stigmatizzando le parole di Kudrin e intimandogli di lasciare il suo incarico di ministro. Kudrin passò il resto della riunione a redigere la propria lettera di dimissioni, che consegnò alla fine dei lavori. Il 27 settembre, Putin, accordatosi con Medvedev, nominò ministro delle finanze Anton Siluanov (14).

Conclusione
Nonostante Putin abbia dimostrato di poter vincere il gioco di potere, Medvedev ha ottenuto diverse soddisfazioni che, almeno sulla carta avvicinano di più la Russia al concetto occidentale di democrazia. La battaglia anti-corruzione, l’aumento della trasparenza e l’abolizione dei doppi incarichi tra esecutivo e mondo degli affari hanno indorato le pillole che l’Europa e gli Stati Uniti hanno dovuto inghiottire con l’intervento militare nel Caucaso, con l’inasprimento della censura nell’informazione e con la posizione antagonista russa nei fora internazionali (da ultimo il veto al Consiglio di Sicurezza ONU sulle sanzioni alla Siria).
Si sentono già i primi segnali di cambiamento: Putin ha recentemente pubblicato un articolo su Izvestiya che traccia il nuovo disegno geopolitico russo includendo l’area post-sovietica quale spazio economico prioritario. La spinta “eurasista” si iscrive in modo coerente nell’idea di un risorgimento dell’area tra l’Unione Europea e le emergenti potenze asiatiche.
Ma se le aspettative di un ritorno alla presidenza di Putin sono state attese, il futuro post-elettorale non è ancora scritto. I nuovi rapporti istituzionali che si delineeranno, la congiuntura economica e i temi energetici – dal progetto South Stream alle forniture all’Ucraina, dal condotto tra Burgas e Alexandroupolis all’incostante sostegno al nucleare in Bulgaria – modificheranno sicuramente lo scenario in cui Putin dovrà operare. L’impostazione del 2012 potrebbe rappresentare un “ritorno al passato” (vozvrat k proshlomu): solo mantenendo un atteggiamento intransigente in termini di sicurezza (estremismo e separatismo saranno combattuti ferocemente, soprattutto nel Caucaso del Nord), la collaborazione economica permetterà alla regione eurasiatica di stare al passo con i suoi concorrenti d’oltreconfine.

 

* Paolo Sorbello ha ottenuto la Laurea Specialistica in Scienze Internazionali e Diplomatiche dall’Università di Bologna (sede di Forlì). La sua tesi di ricerca è stata successivamente pubblicata da Lambert Academic Publishing con il titolo “The Role of Energy in Russian Foreign Policy towards Kazakhstan” (Giugno 2011). L’autore ha condotto i suoi studi presso istituzioni accademiche in Spagna, Russia e negli Stati Uniti. Ha lavorato presso importanti istituti di ricerca negli Stati Uniti e attualmente collabora con il centro di ricerca IECOB pubblicando articoli e approfondimenti su tematiche inerenti alla geopolitica dell’energia.

Note:

1) Si veda la definizione di “Friends of Putin” in Marshall I. Goldman, Petrostate: Putin, Power, and the New Russia, Oxford University Press, Oxford, 2010
2) Ian Bremmer and Samuel Charap, “The Siloviki in Putin’s Russia: Who They Are and What They Want”, The Washington Quarterly, vol. 30, n. 1, 2006-07; “The Making of a Neo-KGB State”, The Economist, 23 Agosto 2007.
3) “New jobs, old faces”, The Economist, 15 Maggio 2008. http://www.economist.com/node/11376699 . È interessante notare che il “cardinale grigio” per eccellenza fu Mikhail Surkov, ideologo sovietico. Nella Russia post-sovietica, in molti sono stati defininti “cardinali grigi”: Sechin e Surkov con più ricorrenza, ma, ironicamente, anche Chubais, cognato dello stesso Surkov.
4) Forse sarebbe più appropriato definirlo “centralismo organico” sull’esempio bordighiano, ma non è questa la sede per disquisire della natura dei processi decisionali all’interno di Russia Unita.
5) Olga Oliker, Keith Crane, Lowell H. Schwartz, Catherine Yusupov, Russian Foreign Policy: Sources and Implications, RAND Corporation, Santa Monica, CA, 2009.
6) Una ulteriore causa del divorzio tra Kasyanov e Putin è stata la divergenza sul caso Yukos.
7) Elfie Siegl, “Do Russian Liberals Stand a Chance?”, Russian Analytical Digest, n. 1, Giugno 2006; Fabrizio Dragosei, “Plebiscito per Medvedev: Mosca ha il nuovo zar”, Corriere della Sera, 3 Marzo 2008, pagina 2; Ennio Di Nolfo, “La mossa riuscita di Putin che vale la stabilità”, Il Messaggero, 3 Marzo 2008, pagina 1.
8 Inoltre, Medvedev censurò le parole di Putin, abbassando i toni da «scontro di civiltà». Doug Mataconis, “Putin, Medvedev Publicly Disagree Over Libya Intervention”, Outside the Beltway, 21 Marzo 2011 http://www.outsidethebeltway.com/putin-medvedev-publicly-disagree-over-libya-intervention/
9) Brian Whitmore, “Medvedev Comes Into His Own”, Radio Free Europe / Radio Liberty, 6 Aprile 2011.
10) Presidente della Federazione Russa, “Meeting on economic issues”, 22 Aprile 2011, http://eng.kremlin.ru/news/2122
11) La creazione del Fondo Nazionale è da attribuire all’ex ministro delle finanze Aleksej Kudrin.
12) “Medvedev says privatization plan must be fixed, govt officials quit company boards”, RIA Novosti, 30 Marzo 2011. http://en.rian.ru/business/20110330/163289993.html
13) Nona Mikhelidze, “The 2012 Presidential Elections in Russia: What Future for the Medvedev-Putin Tandem?”, Istituto Affari Internazionali, working paper n. 1125, Settembre 2011.
14) Antonella Scott, “Kudrin sostituito dal suo vice: un tecnocrate alle Finanze”, Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2011.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Rivolte arabe: la primavera non arriva

0
0
Si è tenuta a Bologna mercoledì 9 novembre 2011 alle ore 20.30, presso il centro sociale “Giorgio Costa” di Via Azzo Gardino 48, la conferenza “Rivolte arabe: la primavera non arriva”. 

Sono intervenuti come relatori: Daniele Scalea (co-autore di Capire le rivolte arabe, segretario scientifico dell’IsAG, redattore di “Eurasia”) e Joe Fallisi (attivista, testimone dell’aggressione alla Libia).

L’organizzazione è stata a cura dell’associazione “Eur-Eka“.

L’ingresso è riservato ai soci (la tessera Uni.Ass.Bo costa euro 3; sono riconosciute anche le tessere Ancescao).

Per maggiori informazioni cliccare qui.

 

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail
Viewing all 73 articles
Browse latest View live




Latest Images

Doodle Jump 3.11.30 by Lima Sky LLC

Doodle Jump 3.11.30 by Lima Sky LLC

Vimeo 10.6.1 by Vimeo.com, Inc.

Vimeo 10.6.1 by Vimeo.com, Inc.

Vimeo 10.6.0 by Vimeo.com, Inc.

Vimeo 10.6.0 by Vimeo.com, Inc.

Re:

Re:

Re:

Re:

Re:

Re:

Re:

Re:

Re:

Re: